L’influenza aviaria è una spada di Damocle che ci pende sulla testa - Facta
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L’influenza aviaria è una spada di Damocle che ci pende sulla testa

Di Antonio Scalari

«Per decenni lo avevano visto avvicinarsi, come un puntino scuro all’orizzonte». Lo scrittore di scienza David Quammen descrive così nel suo ultimo saggio, Senza respiro, l’arrivo della pandemia di Covid-19. Gli esperti lo avevano visto, non era stata una sorpresa. Non si sapeva quanto ci avrebbe messo quel puntino ad arrivare. Ma si sapeva che prima o poi lo avrebbe fatto.

Le pandemie, ormai lo sappiamo – si tratti di virus dell’influenza, di coronavirus, o possibili altri agenti patogeni – sono una possibilità. A volte sono catastrofiche, come l’influenza “spagnola” del 1918. Altre, più blande, come la pandemia di influenza suina del 2009. Ma, in ogni caso, sappiamo che è uno dei rischi per i quali dobbiamo prepararci. O per cui dovremmo farlo. Uno di questi puntini scuri è l’influenza aviaria, in particolare H5N1. Da anni scienziati e autorità sanitarie tengono d’occhio questo virus come un possibile candidato per una prossima pandemia. Alcuni sviluppi recenti stanno accrescendo questa attenzione.

L’ascesa globale di un virus
Il virus H5N1, uno dei virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità, è stato identificato per la prima volta nel 1996 in un allevamento di oche nella Cina meridionale. L’anno successivo, dopo essersi introdotto in un allevamento di pollame a Hong Kong, aveva già infettato 18 esseri umani, uccidendone 6. Poi, per alcuni anni, il virus non ha dato notizie di sé. È riapparso nel 2003, causando di nuovo epidemie in allevamenti in Cina e in altri Paesi asiatici. 

Da allora si è sparso per il mondo, volando sulle ali degli uccelli selvatici, lungo le rotte dei migratori, accendendo focolai tra i volatili domestici in Africa, Medio Oriente, Europa. E causando sporadiche infezioni tra gli umani: 889 casi confermati dal 2003 al 2024, 463 morti. Questo è uno degli aspetti più inquietanti di H5N1. La mortalità, il 50-60 per cento, appare enorme. La percentuale indica il rapporto tra decessi e casi diagnosticati. Ma quella calcolata su tutte le persone infette dovrebbe essere più bassa, perché potrebbero esserci stati casi asintomatici o poco sintomatici.

Nel 2020, mentre nel mondo infuriava la pandemia di Covid-19, una linea di H5N1 denominata 2.3.4.4b è emersa e ha cominciato a circolare tra uccelli domestici e selvatici a una velocità mai osservata prima. Nel 2021 è approdata in Canada e nel corso dell’anno successivo ha percorso il resto del continente americano. Nel 2024 il virus è stato trovato in Antartide in due uccelli morti, una specie simile ai gabbiani. L’influenza aviaria è diventata una panzoozia, l’equivalente animale di una pandemia. E non riguarda più solo gli uccelli.

Nell’ottobre del 2022 H5N1 si è introdotto in un allevamento di visoni nella comunità della Galizia, in Spagna, in concomitanza con un’ondata di infezioni che si era verificata, poco lontano, tra gli uccelli marini. Non si è trattato di casi isolati, ma di un contagio. Gli animali che si ammalavano erano in recinti confinanti, un particolare che suggerisce la possibilità di una trasmissione, seppur scarsa, per via aerea.

Tutto potrebbe essere partito da un visone che è riuscito a catturare un uccello infetto, ammalandosi e contagiando i suoi vicini. In seguito uno studio ha dimostrato che il virus che ha colpito questi animali è stato effettivamente capace di trasmettersi nell’aria, seppure in modo ancora molto inefficiente. Una mutazione lo differenzi da quello degli uccelli, una in particolare, che conferisce al virus una maggiore capacità di replicarsi. 

La lista dei mammiferi in cui viene ritrovato H5N1 si sta allungando. Volpi, gatti, cani, topi, alpaca, coyote, elefanti marini, delfini e altre specie. Nel 2024 il virus ne ha raggiunto una di particolare importanza per i suoi rapporti con gli umani: i bovini da latte. A marzo, negli Stati Uniti, le autorità sanitarie e veterinarie hanno iniziato a indagare su alcuni casi di mucche in Texas e Kansas, che presentavano sintomi come inappetenza, febbre, letargia, ridotta produzione di latte, dall’aspetto viscoso e giallastro. I test hanno trovato che gli animali erano stati infettati dal virus H5N1. Ad oggi, secondo il Dipartimento dell’Agricoltura americano, sono 93 i casi, trovati in stalle sparse in dodici Stati.

Dopo la scoperta delle prime mucche malate, non è passato molto tempo prima che si registrassero infezioni anche tra gli umani. Tre uomini, tutti lavoratori delle stalle, hanno contratto un’infezione da H5N1. I primi due presentavano sintomi limitati agli occhi, arrossamenti ed emorragie sottocongiuntivali, il terzo ha sviluppato un quadro respiratorio più tipico dell’influenza. 

Gli scienziati si chiedono cosa sia successo, come sia arrivato H5N1 negli allevamenti bovini e come si stia propagando il virus. Innanzitutto, la catena di trasmissione. Le analisi del genoma virale indicano che H5N1 dev’essere passato dagli uccelli selvatici ai bovini in un unico spillover, l’evento che segna il passaggio di un patogeno da una specie a un’altra. Il virus causa nelle mucche un’infiammazione delle mammelle. Le analisi hanno rivelato che nel latte non pastorizzato delle mucche malate ci sono quantità “astronomiche” di particelle virali. 

A propagarle sono le operazioni di mungitura, attraverso addetti, macchinari e materiali. Uomini e mucche che si spostano da un’azienda all’altra. Alcune mucche hanno anche lievi sintomi respiratori, il che solleva il dubbio se sia in atto anche una limitata trasmissione per via aerea. Il virus, dunque, è passato dagli uccelli alle mucche. Ma ha fatto anche il percorso inverso, dalle mucche ad altri uccelli domestici. E verso alcuni mammiferi che vivono nei dintorni, come gli esseri umani. Il virus è circolato per mesi prima di essere scoperto ed è probabile che le mucche, e forse anche le persone, che lo hanno contratto siano di più dei casi confermati.

La possibile strada verso una pandemia
La storia naturale di H5N1 degli ultimi anni, e la sua diffusione tra le mucche americane, rendono sempre più pressante una domanda: quanto siamo vicini a una pandemia? H5N1 non è l’unico virus influenzale aviario con un potenziale pandemico, se ne conoscono altri come H7N9, di cui si sono già verificati casi umani. Le lettere H e N indicano due proteine presenti sulla superficie dei virus influenzali, chiamate emoagglutinina e neuraminidasi. La prima permette al virus di agganciarsi alle cellule dell’ospite e di penetrare al loro interno, la seconda di uscirne per infettare altre cellule. Si conoscono diverse H ed N, e le loro combinazioni identificano numerosi sottotipi di virus influenzali di tipo A. 

La funzione dell’emoagglutinina ne fa una proteina chiave nel percorso che può portare un virus influenzale aviario ad adattarsi a nuove specie, tra cui gli esseri umani. Per ora H5N1 non è abbastanza bravo a infettare le cellule del tratto respiratorio dei mammiferi. Potrebbe diventarlo, se il suo gene dell’emoagglutinina dovesse acquisire alcune mutazioni che modificherebbero la forma della proteina al punto da consentirle di agganciarsi con più efficienza alle cellule dei nuovi ospiti. 

Altri cambiamenti sarebbero necessari per rendere l’emoagglutinina abbastanza stabile da permettere il suo trasporto per via aerea, all’interno delle goccioline respiratorie. Un passo decisivo per dare inizio a una trasmissione sostenuta del virus da un ospite all’altro. Poi, c’è il complesso della polimerasi, l’enzima responsabile della replicazione virale. Alcune mutazioni potrebbero renderlo più adatto a lavorare nelle cellule dei mammiferi.

Al momento H5N1 sembra ancora indietro nel tragitto che può portarlo a diventare una minaccia imminente per l’umanità. Ma gli scienziati sono preoccupati per la sua diffusione negli allevamenti bovini americani, lamentano la lentezza nella raccolta e condivisione di dati da parte delle agenzie, un inadeguato numero di test e tracciamento dei casi. Accadeva lo stesso durante la pandemia di Covid-19.

La diffusione di H5N1 a livello globale tra un numero sempre maggiore di specie, soprattutto mammiferi, potrebbe renderlo sempre meno controllabile. L’emergere di una linea virale con una combinazione di mutazioni fortunata (per noi sfortunata) potrebbe essere solo questione di tempo. La finestra di opportunità si sta chiudendo rapidamente, come afferma la virologa Isabella Eckerle. Al solito, il conflitto è tra la necessità di mettere in atto tutte le azioni necessarie e la preoccupazione che queste interferiscano con altre attività umane.

L’influenza aviaria è una spada di Damocle che ci pende sulla testa. E non stiamo facendo davvero tutto il possibile per impedire che prima o poi cada.

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Comments (1)

  • Cecilia

    Ben scritto, con argomentazioni solide, as usual. Bravo Antonio Scalari

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