La foto del poliziotto tedesco che impedisce a un pensionato di fare il saluto romano è vera, ma risale al 2015 - Facta
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La foto del poliziotto tedesco che impedisce a un pensionato di fare il saluto romano è vera, ma risale al 2015

Giovedì 27 maggio 2021 la redazione di Facta ha ricevuto una segnalazione che chiedeva di verificare le informazioni contenute in un post pubblicato il 25 maggio su Facebook. Il post oggetto della nostra verifica contiene due foto scattate in sequenza che ritraggono la scena di un anziano che fa il saluto romano e un poliziotto in assetto anti-sommossa che blocca il gesto, redarguendolo. 

Le immagini sono accompagnate da un testo, scritto dall’autore del post, che recita: «In Germania, seduto al tavolo quel tipo ha accolto con il saluto nazista un gruppo di manifestanti in Sassonia che sfilavano a favore dell’accoglienza dei profughi.

Non si è accorto del poliziotto alle sue spalle che prima gli ha fatto abbassare il braccio e poi lo ha identificato e denunciato. Ora il simpatico nazista rischia fino a tre anni di detenzione per “Uso dei simboli di organizzazioni anticostituzionali”. Ma è stato in Germania, qui in Italia, nonostante la costituzione antifascista e la legge che lo proibisce, quel gesto possono farlo liberamente senza alcuna conseguenza».

Si tratta di una notizia vera, ma risalente al 2015.

La notizia è stata originariamente riportata il 2 agosto 2015 dal tabloid tedesco Bild e riguarda una scena avvenuta a Freital (in Sassonia) durante una manifestazione di solidarietà a favore dei rifugiati. L’uomo che ha fatto sfoggio del saluto romano è Andreas M., un pensionato ed ex minatore della Ddr al tempo 57enne. Secondo quanto riportato da Bild, il gesto d’odio è costato all’uomo un’accusa per «uso dei simboli di organizzazioni incostituzionali» che è punita in Germania con pene fino a 3 anni di carcere.

La legge tedesca proibisce infatti l’esposizione pubblica di simboli riconducibili al nazismo al di fuori dei campi relativi ad arte, scienza, ricerca e insegnamento. Il divieto è contenuto nella sezione § 86a del codice penale e si applica a bandiere, divise, slogan e saluti (la legge non contiene una lista esaustiva dei simboli) di qualunque gruppo incostituzionale (e dunque non solo alla simbologia nazista, ma anche a gruppi terroristici e islamisti).

Per quanto riguarda il nostro Paese, l’esposizione di simboli legati a organizzazioni incostituzionali è regolata da due leggi. La prima è la cosiddetta “legge Scelba” – approvata nel 1952 per attuare la XII disposizione finale della Costituzione – che proibisce la ricostruzione del partito fascista e all’articolo 4 rende perseguibile anche il reato di apologia del fascismo (ovvero la difesa, a parole o scritta, del regime fascista). La legge è stata negli anni sottoposta all’interpretazione della Corte Costituzionale (in particolare con le sentenze 1/1957 e 74/1958), che pur confermandone la costituzionalità ha precisato che per esserci una vera e propria apologia di fascismo non è sufficiente che ci sia «una difesa elogiativa» del vecchio regime, ma è necessaria «una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista».

La seconda legge che ha tentato di restringere le possibilità di fare propaganda ed esporre simboli fascisti è la n. 205 del 1993, meglio nota come “legge Mancino”. Il decreto, il cui impianto è in questi giorni oggetto di revisione grazie al ddl Zan, stabilisce le aggravanti per i reati commessi con finalità razziste o discriminatorie e punisce «chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». 

Tra le fattispecie punibili dalla legge Mancino ci sarebbe in teoria anche l’esibizione di bandiere, slogan o altri simboli di organizzazioni violente o discriminatorie – e dunque anche del saluto romano – ma questa parte del provvedimento è rimasta perlopiù inapplicata. La norma deve infatti coesistere con l’articolo 21 della Costituzione sulla libertà d’espressione e la decisione finale è lasciata ai giudici, che decidono caso per caso. 

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