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Perché credere alle notizie false è umano

di Massimo Sandal

Su Facta ogni giorni ci occupiamo di notizie false o fuorvianti che voi lettori incontrate e ci segnalate. Alcune di queste sono plausibili, altre palesemente surreali: in ogni caso, all’origine di quasi ogni segnalazione c’è una notizia che è stata diffusa sui social network o, più in generale, tramite Internet, da persone che ci hanno creduto. 

Come mai è così facile cadere preda delle notizie false, e come mai fanno presa su così tante persone? Probabilmente perché si tratta di una dinamica “umana”. Psicologi e sociologi da tempo analizzano il fenomeno delle notizie false e stanno scoprendo che alla base della loro diffusione ci sono meccanismi che rendono tutti gli utenti, senza distinzioni, delle potenziali vittime. 

Per fortuna la mente umana è però anche la miglior difesa verso chi tenta di diffondere disinformazione: vediamo che cosa dicono le ultime ricerche sul tema e scopriamo come reagisce la nostra psiche.

Pregiudizi cognitivi

Il modo in cui valutiamo una notizia non è sempre analitico e oggettivo. Come riportato nel 2012 in uno studio curato da alcuni ricercatori australiani e americani, quando si legge o si sente dire qualcosa si è generalmente portati a crederci a meno che non ci siano indizi significativi che facciano nascere qualche sospetto. 

Gli esseri umani accettano o respingono le informazioni tramite una serie di bias cognitivi, ovvero una tendenza sistematica e non razionale nel modo in cui prendiamo una decisione. Tra gli altri, hanno parlato di questi fenomeni Antoine Marie, Sacha Altay e Brent Strickland del Dipartimento di Studi Cognitivi dell’Università Psl di Parigi in un articolo di rassegna del 2020. Si tratta di meccanismi intuitivi evoluti, con ogni probabilità, per prendere decisioni rapide durante la nostra preistoria, ma che possono condurci fuori strada nel contesto dell’informazione di oggi. 

Per esempio: pur sapendo che non tutte le fonti sono uguali, tendiamo a considerare una notizia che viene riportata da una fonte familiare più verosimile. Stiamo parlando di fonti quali gli amici, la famiglia, i contatti sui propri profili social o anche generici gruppi o persone con cui si condivide una visione del mondo, come giornali o siti internet che riflettono opinioni politiche o religiose in linea con un dato pensiero. Quando si riceve un’informazione da una di queste fonti, automaticamente si è portati a considerarla più verosimile rispetto alle informazioni provenienti da persone o realtà estranee. 

Ma quando si parla di informazione sulle percezioni e azioni dei singoli non incidono solamente i bias cognitivi. Oltre all’impressione che le fonti “vicine” siano anche le più affidabili, è anche facile credere alle informazioni che confermano convinzioni già esistenti o che appaiono coerenti con il sistema di valori e conoscenze di appartenenza, piuttosto che a informazioni che le mettono in discussione: stiamo parlando del cosiddetto bias di conferma. Se, ad esempio, un utente è a favore dell’eutanasia sarà più predisposto a dare credito alle notizie e alle informazioni che considerano positivamente il tema piuttosto che a quelle che lo screditano. 

Questo meccanismo può venire sfruttato e esacerbato dai social media che tendono a polarizzare le opinioni. Gli studi del gruppo di ricerca diretto da Walter Quattrociocchi, leader del Laboratorio di Data Science dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, hanno dimostrato che gli utenti dei social media tendono a interagire con “bolle”, reti sociali che condividono analoghi interessi e ideologie, in cui vengono diffusi quasi esclusivamente contenuti coerenti con l’ideologia della bolla, rafforzando il bias di conferma. Questo meccanismo di rafforzamento è il fenomeno delle cosiddette “camere dell’eco” (o, in lingua inglese, eco chamber).

Aggiungiamo poi che, se più persone attorno ad un utente riprendono una stessa notizia, quasi automaticamente si tende a ritenerla più credibile e a metterla meno in discussione. È un altro bias della natura umana, ovvero l’effetto della familiarità, noto fin dal 1945 quando uno studio dimostrò che in tempo di guerra le informazioni non ufficiali, spesso false o distorte, venivano credute quanto più erano ripetute.

E i social network?

Ma i social network sono davvero il fulcro del problema? C’è chi non la pensa così. Richard Fletcher, studioso di giornalismo dell’Università di Oxford, ritiene che le piattaforme social siano solo parte del problema: nonostante le “bolle” di cui abbiamo scritto sopra, in realtà i social media porterebbero all’attenzione degli utenti una varietà di punti di vista maggiore rispetto a quanto viene in media acquisito attraverso altri media (ad esempio, i giornali). Un fenomeno che però, secondo alcuni ricercatori, potrebbe peggiorare la situazione a causa degli algoritmi dei social media. Visto che i social media privilegiano contenuti che evocano risposte emotive forti, quando incontriamo un contenuto che dissente con i nostri valori tendiamo a incontrarlo in una forma provocatoria o estrema, che ci porta a reagire contro di esso. 

Ma non finisce qui: un’altra trappola cognitiva è l’illusione di comprendere, come suggeriva uno studio del 2002 di Leonid Rozenblit e Frank Keil, all’epoca affiliati all’Università di Yale. Spesso infatti si crede di comprendere bene concetti complessi anche quando non è così, com’è dimostrato dalla difficoltà in cui si incorre se si cerca di spiegarli ad altri. Un esempio semplice ed efficace di questa illusione è dato dal cosiddetto “test della bicicletta”: tutti pensiamo di sapere all’incirca come funziona una bicicletta, ma nel momento in cui ci viene chiesto di disegnarla pochi riescono a tracciare uno schizzo accurato, o a decidere quale disegno corrisponda più o meno alla vera struttura del mezzo.

Le emozionanti teorie del complotto

Infine, ricordiamo che si tende a credere a delle informazioni se queste sono inserite all’interno di una narrativa coerente ed emozionante, in cui ogni passaggio si sostiene con un altro e suscita delle emozioni. Una teoria del complotto, per esempio, è – qualsiasi sia il suo tema – una cornice drammatica molto potente ed evocativa, che segue spesso archetipi narrativi: ad esempio, un gruppo di ribelli che si oppone a una élite corrotta e malvagia. Queste narrazioni sono particolarmente convincenti perché a differenza della realtà – in cui spesso non abbiamo una piena comprensione di tutto quanto ci circonda e molte cose avvengono per caso – in una narrazione c’è una spiegazione per tutto: tutti i fatti diventano prova della cospirazione, oppure, se sono in contrasto con la narrativa, menzogne del “nemico”. Nelle teorie della cospirazione ad esempio non c’è spazio per le coincidenze: ci fanno vedere un piano anche dove questo non c’è. Come tali, come ha spiegato a Vox lo psicologo Jan-Willem van Proojien, le teorie cospirazioniste sono un modo per dare ordine alla realtà, che altrimenti ci confonde.

Spesso anche le notizie false evocano emozioni e, nella maggior parte dei casi, si tratta di sentimenti negativi come minaccia, disgusto, paura, odio oppure a contenuti sessuali e condividono molte caratteristiche con la fiction. Suscitano dunque reazioni viscerali: proprio l’emotività sembra correlata con la possibilità di cadere preda di notizie false.

Queste distorsioni cognitive possono spiegare perché si commettono errori nel decidere rapidamente se una notizia è vera o meno, ma come portano a credere sistematicamente a notizie false? Su questo i ricercatori al momento seguono principalmente due ipotesi: una mette in primo piano l’identità delle persone, l’altra le capacità di riflessione razionale. Vediamole entrambe.

Lo scontro tra identità e verità

La prima ipotesi, che è promossa principalmente dal ricercatore Dan Kahan dell’Università di Yale, è detta del cosiddetto “ragionamento motivato”. In studi condotti tra il 2014 e il 2017, Kahan ha riscontrato che la credenza o meno nel cambiamento climatico o nell’evoluzione non solo è politicamente divisa, ma è anche più polarizzata nelle persone più scientificamente colte e portate al ragionamento, un risultato che uno studio del 2017 ha esteso ad altre credenze controverse in ambito scientifico. Per esempio, i repubblicani americani più scientificamente istruiti e brillanti sono anche maggiormente portati a negare il cambiamento climatico. Al di fuori dell’ambito scientifico, alcuni dati già del 2009-2010 mostravano come sempre i repubblicani più istruiti erano anche più portati a credere alla notizia falsa secondo cui Barack Obama fosse segretamente musulmano. 

Questo risultato paradossale si spiega con l’idea che le persone più intelligenti e istruite abbiano armi migliori, dal punto di vista intellettuale, per difendere e giustificare credenze che supportano i valori e l’identità a cui appartengono. Può sembrare assurdo: perché mai una persona colta e intelligente dovrebbe sfruttare le proprie qualità per convincersi di un errore? 

La risposta, come ha ipotizzato Kahan già nel 2012, è il rapporto costi/benefici che calcola inconsciamente il nostro cervello: credere in notizie false che sono state diffuse sui media o sui social raramente porta dei problemi reali. Viceversa, il costo sociale di mettersi contro il proprio gruppo sociale, e il costo psicologico nel dover rielaborare la propria identità, sono elevati e concreti. Per esempio, un creazionista non “guadagna” niente, concretamente, convincendosi che gli esseri viventi si sono evoluti come ha descritto Charles Darwin, ma potrebbe essere escluso dalla sua comunità religiosa.

Fatto chiarezza sull’ipotesi del “ragionamento motivato”, passiamo all’altra teoria che abbiamo prima anticipato e parliamo del ruolo del pensiero critico. 

Il ruolo del pensiero critico

La seconda ipotesi è sorta quando, negli ultimi anni, la teoria del “ragionamento motivato” spiegata poco fa è stata messa in crisi da nuovi studi. Secondo questi risultati, il principale discrimine è la capacità di riflettere razionalmente sull’informazione, mentre l’identità e il proprio gruppo sociale hanno un ruolo ma secondario. 

Dunque, stando a questa seconda ipotesi, quando si riflette – nel senso di analizzare razionalmente e non istintivamente – su una notizia si diventa capaci di distinguere il vero dal falso anche se in contrasto con le proprie aspettative. Insomma, secondo questi risultati non possiamo dare tutta la colpa ai nostri bias: le nostre capacità analitiche e razionali avrebbero in realtà un ruolo fondamentale. I principali ricercatori a suggerire questa teoria sono Gordon Pennycook (Università di Regina, Canada) e David G. Rand (Massachusetts Institute of Technology) studiosi del comportamento umano e autori di uno studio pubblicato nel giugno 2018 e intitolato “Pigri, non prevenuti”. Proprio in questa pubblicazione argomentano la loro teoria: si diventa preda delle notizie false quando non vengono usate a fondo le proprie capacità critiche. 

Distratti per riflettere?

Ma il modo in cui oggi vengono fruite le notizie permette la riflessione? Gli studi di Pennycook e Rand sembrano dire di no: uno, pubblicato su Nature il 17 marzo 2021, ha suggerito che la mancanza di attenzione, tipica del modo in cui stiamo sui social “scrollando” post dopo post distrattamente, può essere cruciale non solo nel dare fiducia alle notizie false, ma soprattutto nella propensione a condividerle. Un altro studio, pubblicato l’8 giugno 2020, ha suggerito che le persone condividono facilmente contenuti falsi sulla Covid-19, se non gli viene chiesto di soffermarsi a valutarne esplicitamente l’accuratezza. Ne condividono meno, invece, se viene loro suggerito di rifletterci. 

Come si conciliano questi risultati con gli esperimenti che indicano, al contrario, che usiamo le nostre risorse cognitive per difendere la nostra parte? L’ipotesi dei due ricercatori è che, in quei casi, l’effetto ideologico sia in realtà indiretto. Ogni volta un utente valuta una notizia, la confronta con i fatti che dà per accertati: se questa notizia è in palese contrasto con quella che appare come la banale realtà, sorge lo scetticismo. 

Questi “fatti” dati per certi dipendono dalle notizie con cui si entra a contatto, che sono filtrate dalla “tribù” di appartenenza. Per esempio: per molti repubblicani americani il fatto che il riscaldamento globale non esista o non sia causato dall’umanità, ripetuto da numerosi media di parte, diventa un fatto assodato. Le notizie che mettono in discussione queste “conoscenze” sono quindi ritenute poco affidabili e rigettate. La disinformazione precedente quindi si sedimenta e crea terreno fertile per credere a ulteriore disinformazione e rifiutare informazioni reali. 

In conclusione

Credere a notizie false è umano: psicologi e sociologi stanno ancora investigando i motivi precisi del perché accada, ma è chiaro che alla base ci sono meccanismi cognitivi e culturali che tutti condividiamo. 

Sembra che i social media inoltre, tempestandoci di informazioni su cui non abbiamo spesso modo di riflettere e creando “camere dell’eco” in cui riverberano sempre le stesse informazioni, possano portarci più facilmente a condividere e a credere in notizie su cui magari capitiamo distrattamente, ma che a lungo andare plasmano la nostra visione del mondo. 
Le ultime ricerche ci danno anche qualche speranza: riflettere meglio e a freddo su quanto leggiamo e sentiamo ogni giorno, magari anche con l’aiuto di qualche consiglio pratico, può aiutarci a valutare in modo più sereno quanto leggiamo. Insomma, possiamo tutti scegliere a chi non credere.

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