Nelle ultime settimane la redazione di Facta ha ricevuto numerose segnalazioni che chiedevano di verificare l’informazione secondo cui gli smartphone sarebbero in grado di ascoltare le nostre conversazioni, così da permettere a piattaforme di social network, browser e applicazioni di modellare le inserzioni pubblicitarie di conseguenza. Tale teoria sarebbe confermata da alcune testimonianze pubblicate sui social network, che raccontano di pubblicità molto specifiche calibrate su interessi manifestati a voce, nella vita reale.
Si tratta di una notizia falsa.
Facebook ha già in passato negato di poter ascoltare le conversazioni degli utenti senza la loro autorizzazione, ma in questo caso non è necessario fare affidamento sulle dichiarazioni delle piattaforme. L’intercettazione di una simile mole di conversazioni non è solo vietata dai principali regolamenti sulla privacy (ad esempio quello europeo), ma rappresenterebbe anche un’operazione piuttosto costosa per le stesse aziende, dal momento che la quantità di dati da gestire sarebbe 33 volte superiore a quella attuale, come aveva spiegato nel 2017 a Wired un ex product manager di Facebook.
Senza contare che l’ascolto delle conversazioni non potrebbe mai passare inosservato agli occhi dell’utente, dal momento che richiederebbe l’attivazione costante del microfono e di conseguenza un vistoso calo della batteria dello smartphone. L’ipotesi è stata smentita empiricamente nel 2018 dai ricercatori della Northeastern University e nel 2019 da Wandera, un’azienda britannica specializzata in sicurezza informatica che ha lasciato degli smartphone (iOs e Android) in una stanza con degli annunci relativi ad alimenti per animali in radiodiffusione. Nonostante sui cellulari fossero installate alcune tra le app più note (Facebook, Chrome, Amazon) e fornite tutte le autorizzazioni possibili (gps, accesso al microfono e alla rubrica), i ricercatori non avevano rilevato alcun annuncio di cibo per animali.
Perché allora ci sembra di essere continuamente ascoltati per fini commerciali? In realtà la sensazione è assolutamente comprensibile, dal momento che le piattaforme possiedono una mole enorme di dati sulle nostre scelte, informative e di consumo.
Facebook (così come Instagram) è ad esempio in grado di tracciare le attività dell’utente anche su siti diversi dalla stessa piattaforma social ed è in grado di geolocalizzare chi utilizza l’app per smartphone. Ciò vuol dire che le inserzioni proposte dalla piattaforma tengono conto dei nostri comportamenti su internet (cosa abbiamo letto, quali prodotti abbiamo visualizzato) per proporre cose simili a quelle che abbiamo visto, provando addirittura a prevedere i nostri comportamenti d’acquisto attraverso algoritmi.
Ma non solo. Facebook è anche in grado di sapere quando due utenti sono presenti nello stesso luogo – perché ad esempio condividono la stessa rete wi-fi – e in questo caso proporrà ad un utente gli annunci creati su misura per il suo interlocutore. Ci sembrerà così di essere ascoltati, ma stiamo invece semplicemente venendo a contatto con gli interessi dei nostri amici, che avranno probabilmente effettuato ricerche su internet basate su quegli interessi.
Insomma, non tutte le coincidenze sono spiegabili utilizzando le informazioni in nostro possesso – anche perché le informazioni pubbliche circa l’utilizzo dei dati nelle grandi piattaforme sono incomplete – ma il meccanismo è chiaro: ci sono buone probabilità che gli esseri umani sviluppino i propri interessi attraverso ricerche su Internet e venendo a contatto con gli interessi della propria cerchia di amici e famigliari. In entrambi i casi, le pubblicità profilate hanno a disposizione abbastanza dati per fornirci consigli d’acquisto basati sulle nostre ricerche e su quelle dei nostri interlocutori. Dunque, il nostro smartphone non ci ascolta, ma la realtà non è molto più rassicurante di così.