L’8 febbraio 2022 la redazione di Facta ha ricevuto una segnalazione via WhatsApp che chiedeva di verificare le informazioni contenute in un tweet in lingua inglese pubblicato il giorno precedente. Si legge: «Per chiunque ami leggere le fonti originali e non solo gli strilloni dei media, ecco un link allo studio della Johns Hopkins che afferma che i lockdown sono stati estremamente inefficaci nel limitare la diffusione della Covid».
Di seguito l’autore aggiunge il link allo studio cui fa riferimento (“A Literature Review and Meta-Analysis of the Effects of Lockdowns on COVID-19 Mortality”, in italiano “Una rassegna della letteratura e una meta-analisi degli effetti dei lockdown sulla mortalità da COVID-19”) e riporta i nomi dei suoi autori: «@JonasHerby, Lars Jonung, Steve H. Hanke».
La ricerca di Jonas Herby, Lars Jonung e Steve H. Hank analizza le informazioni riportate in altre pubblicazioni e, come si legge nel documento, l’intento è «determinare se esiste una prova empirica a sostegno della convinzione che i “lockdown” riducano la mortalità Covid-19». Come riportato dai tre ricercatori nell’abstract, sono stati esaminati «18590 studi», «34 studi alla fine sono risultati idonei. Di questi […] 24 sono risultati validi per essere inclusi nella meta-analisi». Il testo è lungo 62 pagine ed è stato pubblicato nel numero di gennaio 2022 della serie Studies in applied economics, che ospita pubblicazioni di studiosi affiliati alla Johns Hopkins University, un istituto universitario privato fondato a Baltimora (Maryland, Stati Uniti).
Lo studio riportato è reale, ma sulla sua impostazione e metodologia ci sono dei dubbi. Inoltre non è corretto sostenere che i lockdown siano stati inefficaci. Andiamo con ordine, partendo dal documento.
Cliccando sul link riportato nel tweet che stiamo analizzando e leggendo l’abstract, si scopre che il testo non è un articolo scientifico, ma un working paper, ossia un documento non ancora completato su cui gli autori continuano a lavorare, modificandolo o attendendo revisioni. Pertanto non può essere ritenuto attendibile al pari dei papers scientifici pubblicati previa peer review.
Gli autori – come riportato anche nelle note biografiche del testo che stiamo esaminando – sono tre economisti, che non dichiarano esperienze in ambito medico. La Johns Hopkins University, inoltre, non ha approvato lo studio: come dichiarato ai colleghi di Politifact dalla portavoce Jill Rosen, l’università «non ha preso una posizione […] e di norma non lo farebbe in una tale situazione».
Veniamo ora al contenuto della ricerca, ossia l’efficacia dei lockdown, termine che gli autori definiscono come «l’imposizione di almeno un intervento obbligatorio non farmaceutico (NPI)». Con Npi si intende l’insieme delle misure disponibili in ogni momento e in ogni Paese in grado di ritardare l’ingresso e/o la diffusione e/0 la trasmissione di un virus tra la popolazione. La definizione fornita dagli autori non corrisponde però al significato che la comunità scientifica dà al termine lockdown, che può essere inteso come una delle misure comprese nei Npi, ma non è sinonimo di esse. Stando alla definizione fornita dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), con lockdown si intendono quelle misure «di distanziamento fisico su larga scala e le restrizioni di movimento […] che possono rallentare la trasmissione» di un virus.
Ed è proprio nella differenza di definizione che sorge il primo problema relativo alla pubblicazione di cui stiamo parlando. È intervenuto in merito il vice rettore della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health (il dipartimento di Salute Pubblica dell’istituto), Joshua Sharfstein, dichiarando il 7 febbraio 2022 ai colleghi di Politifact che ridefinire il termine oggetto della ricerca – quindi, nel nostro caso, il significato di lockdown – è stata una scelta utile a raggiungere la «conclusione che i “lockdown” hanno avuto uno scarso effetto sulla mortalità». Sharfstein ha anche aggiunto che i tre ricercatori hanno «ignorato molti studi sottoposti a peer-review», che non hanno «incluso nuovi dati, e sono già state sollevate serie domande sulla metodologia».
Seth Flaxman, professore associato di computer science all’Università di Oxford, ha dichiarato a Science Media Centre che i tre economisti omettono questioni chiave rispetto alle trasmissione delle malattie, come il fatto che se un lockdown è meno efficace del precedente è «perché molte persone sono già infette; i lockdown non salvano immediatamente vite, perché c’è un lasso di tempo dal contagio alla morte, quindi per vedere l’effetto delle chiusure sulle morti di Covid è necessario aspettare circa due o tre settimane».
Lo studio degli economisti è poi inaccurato dal punto di vista statistico: Samir Bhatt, professore di statistica e salute pubblica all’Imperial College London, ha sottolineato come il lavoro si sia concentrato sulla «prima ondata di Sars-CoV-2 e su un numero molto limitato di Paesi», mentre ci sono state le varianti della Sars-CoV-2 e altri lockdown in seguito.
Infine, ricordiamo che se da una parte i lockdown hanno avuto un impatto sul reddito e sulla salute mentale di molte persone in tutto il mondo, hanno però anche ridotto la trasmissione del virus e salvato vite. Già nel giugno 2020 due studi (qui e qui) pubblicati dalla rivista Nature prendevano in esame più Paesi e chiarivano come i lockdown avessero impedito decine di milioni di contagi e salvato milioni di vite. A febbraio 2021 uno studio pubblicato su Science che prendeva in considerazione 41 Paesi aveva dimostrato come l’obbligo di stare a casa aveva ridotto la diffusione del virus circa del 15 per cento, valore relativamente piccolo ma comunque benefico, e che la chiusura delle attività economiche aveva ridotto la diffusione del 17,5-20 per cento circa.
In conclusione: la ricerca al centro della nostra analisi non è completa ma in aggiornamento, la definizione di lockdown non è quella condivisa dalla comunità scientifica e i risultati finora ottenuti non sono in linea con quanto dimostrato in passato. Oggi ci sono numerose prove a sostegno dell’utilità che i lockdown hanno avuto nell’arginare la diffusione del virus, per quanto il loro impatto sia stato significativo sull’economia dei Paesi coinvolti.