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Di cosa parliamo quando parliamo di “bio”

Capita spesso, passeggiando per le corsie dei supermercati, di leggere molte etichette con scritto “bio” o “biologico”. Allo stesso modo, sfogliando riviste o leggendo articoli online si trovano gli stessi termini legati all’alimentazione, alla cosmesi e alla produzione tessile. Negli ultimi anni In Italia questa tecnica di produzione ha visto un’importante crescita. Come si legge dal rapporto “Bio in cifre 2023” curato dal Sistema di informazione nazionale sull’agricoltura biologica (Sinab), nel 2022 c’è stata una crescita sostenuta del biologico che ha portato le superfici coltivate biologicamente a oltre 2 miliardi di ettari, con un incremento del 7,5 per cento rispetto al 2021. 

Prima però di entrare nei tecnicismi, cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. 

I prodotti biologici
Se dovessimo spiegare cosa significa il termine “biologico” dovremmo immaginarci una sorta di ombrello sotto al quale troviamo tanti piccoli sottogruppi, ognuno con la sua definizione. Per “biologico” si intende qualsiasi prodotto, di origine vegetale o animale, ottenuto tramite un processo che prevede l’utilizzo esclusivo di elementi che la natura mette a disposizione. In particolare, nella produzione di cibo biologico, non sono utilizzati prodotti chimici e organismi modificati come pesticidi e OGM. Invece, l’agricoltura convenzionale (o tradizionale) è un tipo di agricoltura intensiva, ovvero che punta allo sfruttamento massimo di un terreno e al massimo della produzione, spesso con l’utilizzo di sostanze chimiche per incentivare la produzione.

Per “agricoltura biologica” si intende un tipo di tecnica di coltivazione in cui tutto ciò che si ricava, dagli alimenti ai filati, sono prodotti utilizzando sostanze e processi naturali. Ciò significa che vengono applicate tutte quelle tecnologie con un impatto ambientale limitato e che utilizzano in modo responsabile energia e risorse naturali. A differenza dell’agricoltura tradizionale, infatti, il biologico impiega fertilizzanti di origine naturale, come compost o concime, non utilizza trattamenti di natura chimica e rispetta la ciclicità dei terreni coltivabili, senza danneggiarli. 

Recenti studi del Sinab – il Sistema d’informazione nazionale sull’agricoltura biologica – dimostrano inoltre che l’agricoltura biologica favorisce il riutilizzo dell’ azoto in eccesso presente nel terreno. Durante i processi di produzione alimentare vengono rilasciate nel terreno sostanze ricche di azoto definito “reattivo”, utile per la crescita di piante e animali, che, se presente in grandi quantità, può andare a intaccare l’efficienza del suolo. I fertilizzanti e i concimi impiegati nell’agricoltura biologica vanno a ripescare dal suolo questo azoto reattivo e lo utilizzano, minimizzandone lo spreco.

A livello europeo, tra il 1991 e il 1999, sono stati emanati alcuni regolamenti per fornire una struttura chiara per la produzione di prodotti biologici in tutta l’area dell’Unione europea e secondo tale regolamentazione sono riconosciuti come biologici solo i prodotti sottoposti ad accurati controlli. Gli Stati coinvolti, per garantire la sicurezza dei prodotti, si affidano a enti privati accreditati che eseguono controlli specifici e verificano se i produttori abbiano applicato effettivamente le direttive UE. Il biologico è quindi controllato dal seme al prodotto finale e, se tutto è stato eseguito in conformità con le regole, presenta in etichetta il logo europeo dei prodotti biologici (noto come “Euro-leaf”).

Tra i vari standard da seguire troviamo: la conservazione della biodiversità, il miglioramento della fertilità del suolo e il mantenimento della qualità delle acque presenti nei terreni. Inoltre, si attua la pratica del sovescio che consiste nella semina di alcune piante (trifoglio, veccia, crescione, valerianella, spinaci, colza e così via) che una volta fiorite vengono interrate per fertilizzare il terreno e proteggerlo dall’erosione, ovvero la sua disgregazione. Infine, per favorire la concimazione del terreno si possono sfruttare letame e concimi organici come il compost – una miscela di terra, resti vegetali – cenere di legna e quant’altro esista di biodegradabile e non inquinato.

Per quanto riguarda l’allevamento, invece, questo è definito “biologico” quando gli animali vivono in un ambiente che rispetti il loro benessere: hanno accesso ogni giorno a pascoli e spazi aperti e il numero di animali presente in ogni allevamento è basso rispetto agli allevamenti convenzionali. Le normative in vigore sul biologico a livello europeo impongono delle linee guida precise da seguire riguardo a spazi minimi, numero di capi di bestiame, tipo di alimentazione. Queste normative differenziano molto l’allevamento biologico da quello tradizionale, dove invece si possono trovare animali cresciuti in allevamenti intensivi, in condizioni spesso criticate a causa di gabbie piccole, poco spazio e un alimentazione basata su mangimi artificiali. 

Per l’allevamento biologico l’animale e il suo benessere, inteso come qualità della vita, acquisiscono una notevole importanza: non è permesso aumentare velocità della crescita o la produzione di carne, latte e uova ricorrendo a sostanze non naturali come ormoni, antibiotici e promotori della crescita, e  l’alimentazione del bestiame si basa su foraggi biologici e su mangimi anch’essi certificati biologici. Inoltre, le eventuali cure veterinarie prevedono la somministrazione di farmaci omeopatici, ovvero prodotti senza l’utilizzo di sostanze chimiche non naturali .

Dunque, se ci attenessimo solo ed esclusivamente alle linee guida del biologico,  sarebbe scontato dire che questa tecnica sia migliore dell’agricoltura e dell’allevamento tradizionale. Ma è proprio così?

Come nella maggior parte dei casi, rispondere a questo genere di domande è difficile, ma analizzando i pro e i contro del biologico forse riusciremo ad avere un’idea più chiara.

I pro e i contro del bio

Secondo un rapporto Istat del 2022 sull’evoluzione dell’agricoltura biologica in Italia,  questo tipo di agricoltura rende tra il 19 e il 25 per cento in meno rispetto all’agricoltura convenzionale. Contemporaneamente l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) ricorda che la popolazione mondiale è sempre in aumento e in futuro saranno necessarie quantità di cibo sempre maggiori. In particolare, sempre la FAO ha stimato che, per poter soddisfare il fabbisogno alimentare da oggi fino al 2050, sarà necessario aumentare la produttività del 60 per cento, anche perché i Paesi in crescita economica e demografica si stanno orientando sempre di più verso una dieta variegata e ricca di proteine, che quindi richiede una quantità maggiore di cereali per nutrire gli allevamenti. Una soluzione alternativa proposta dalla FAO è la  transizione verso una dieta “plant-based”, in cui la maggior parte degli alimenti consumati è di origine vegetale. In questo modo il problema degli allevamenti, sia per quanto riguarda la loro alimentazione sia per l’impatto ambientale, potrebbe essere parzialmente risolto. Per ora solo l’agricoltura convenzionale può assicurare prodotti accessibili economicamente a tutti, ma spesso vengono utilizzati prodotti chimici che possono avere effetti impattanti sull’ecosistema. 

Allo stesso tempo, fertilizzanti e concimi di natura chimica non sono da condannare a prescindere. Infatti spesso il loro utilizzo garantisce una maggiore resa dell’agricoltura: secondo una ricerca dell’Università del Minnesota, negli Stati Uniti, i sistemi convenzionali rendono in media il 25 per cento in più rispetto a quelli biologici. In più, questo tipo di trattamenti chimici sono sottoposti a controlli rigidi che ne assicurano la sicurezza, sia ambientale sia alimentare. 

Per capire se ci siano differenze a livello nutrizionale tra i prodotti biologici e quelli tradizionali quattro ricercatori del Gruppo Giovani della Società Italiana di Nutrizione Umana hanno analizzato e confrontato le etichette di prodotti confezionati, biologici e non. Il risultato? Un pareggio. Infatti, su 569 coppie di prodotti confezionati le uniche variazioni hanno riguardato la pasta, il riso e i cereali, mentre il resto degli alimenti avevano valori simili. Non basta analizzare i valori nutrizionali dei prodotti per capire se il biologico è migliore oppure no perché, come abbiamo potuto vedere, bisogna valutare più fattori contemporaneamente per poter confrontare convenzionale e biologico.

Probabilmente non esiste una risposta definitiva alla disputa tra bio e tradizionale, dal momento che il biologico presenta certamente degli aspetti positivi, ma anche delle criticità evidenti. Il limitato impatto ambientale e il benessere animale sono degli ottimi punti a favore per il biologico, ma allo stesso tempo le necessità di grandi spazi aperti per il pascolo o mangimi biologici e la bassa resa lo rendono poco competitivo rispetto al convenzionale.

L’agricoltura e l’allevamento convenzionali non possono però essere l’unica risposta alla richiesta alimentare. Per sopperire a questo divario tra i due metodi, in agricoltura si stanno sviluppando delle tecniche ibride, che prendono spunto dal biologico e dal convenzionale, cercando di applicare i benefici dell’uno e dell’altro contemporaneamente. È il caso dell’agricoltura integrata, un sistema agricolo di produzione a basso impatto ambientale che prevede l’uso coordinato di prodotti utilizzati sia nel biologico sia nel convenzionale, avendo come obiettivo la tutela dell’ambiente e la salute dei consumatori. 

Per quanto riguarda l’allevamento è più complicato trovare una soluzione, soprattutto perché spesso vi è un coinvolgimento emotivo ed etico, dato che comunque si parla di animali vivi. Sicuramente l’informazione e la ricerca del prodotto sono essenziali: il consumatore, infatti, dovrebbe assicurarsi della provenienza della carne e dei prodotti di origine alimentare che consuma abitualmente, non solo per un discorso di tutela ambientale o di convenienza economica, ma anche per una maggiore consapevolezza. 
A tal proposito il ministero dell’Istruzione (Miur) nell’ottobre del 2022 ha proposto di integrare all’interno del programma scolastico delle scuole primarie e secondarie delle ore dedicate all’educazione alimentare, dove vengono trattati temi legati all’alimentazione, alle varie tecniche di allevamento e agricoltura, in modo da fornire al futuro consumatore o consumatrice le conoscenze per una scelta consapevole.

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Comments (3)

  • Riccardo

    Premetto che non sono del mestiere , ma credo che nel vostro articolo ci siano delle imprecisioni.
    Primo, nel bio sono ammessi fitofarmaci chimici , ma non di sintesi (qui l’elenco dei prodotti ammessi che a me sembrano per la maggior parte di produzione chimica :https://feder.bio/wp-content/uploads/2017/07/Tabella-Fitosanitari_BIO_27-11-18-Tipologia.pdf). Gli ormoni per la crescita non sono ammessi nemmeno nel convenzionale da almeno 20 anni. Per curare gli animali dalle malattie nel bio l’omeopatia non è un obbligo ma è un alternativa, che a quanto ne so non viene utilizzata (perchè come sapete non ha mai dimostrato di avere effetti ecc.ecc.) e il rischio in termine economico sarebbe troppo grosso . Qualora necessario un capo può essere trattato con antibiotici ma verrà venduto senza marchio bio.

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      • Riccardo

        Solo per esser più precisi :
        Il concetto alla base è che il modo in cui sono allevati gli animali è il primo fattore di prevenzione delle malattie.

        Mentre negli allevamenti biologici i trattamenti medici allopatici preventivi sono vietati, quelli per la terapia sono ridotti al minimo. Nel caso in cui gli animali necessitino di cure, si usano preferibilmente farmaci omeopatici e fitoterapici. I farmaci allopatici ottenuti mediate sintesi chimica e gli antibiotici sono usati il meno possibile, ma vengono somministrati – sotto responsabilità di un veterinario – qualora le cure alternative si rivelino inefficaci e/o nel caso in cui siano essenziali per evitare sofferenze e disagi all’animale.

        Nell’arco di dodici mesi un animale può essere sottoposto al massimo a tre cicli di trattamenti con medicinali chimici e antibiotici; se la sua vita produttiva è inferiore a un anno, è invece consentito un unico ciclo. Se questi limiti vengono superati, i capi interessati o i prodotti da essi derivati non possono essere venduti come biologici. Inoltre, il tempo di sospensione tra l’ultima somministrazione di medicinali allopatici a un animale e la produzione di alimenti prodotti da esso è raddoppiato rispetto a quello previsto dalla direttiva del 2001 del Parlamento Europeo

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