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Ha senso boicottare sulla base del codice a barre?

Di Francesca Capoccia

Da quando Israele ha iniziato a bombardare la striscia di Gaza a seguito dell’attacco del 7 ottobre 2023 del gruppo estremista palestinese Hamas, uccidendo oltre 30mila persone secondo le autorità locali, sui social sono tornati a circolare numerosi post – diffusi già nel 2014 – che spiegano come boicottare Israele ed esprimere il proprio sostegno alla popolazione palestinese.

In base a questi contenuti, basterebbe evitare di comprare tutti quei prodotti che hanno come prefisso del codice a barre il numero 729, visto che questo codice indicherebbe prodotti fabbricati in Israele. Non acquistando questi prodotti si boicotterebbe l’economia israeliana.

Sull’efficacia o meno delle varie azioni di boicottaggio nei confronti di aziende, multinazionali o Stati, non c’è un consenso unanime. C’è chi ritiene che il boicottaggio funzioni solo quando ha un vero e proprio impatto sulle vendite di un’azienda, ma in questo caso è necessario un impegno notevole a livello temporale e di persone che prendono parte al boicottaggio. E non sempre si riesce a tenere insieme questi due fattori. Se invece l’obiettivo è indebolire un marchio mettendolo in cattiva luce, allora ci sono maggiori possibilità di successo. 

Tuttavia, un’azione può funzionare se le premesse sono corrette: e basarsi sul prefisso del codice a barre non lo è. Scopriamo insieme perché.

Il codice a barre, un sistema di identificazione
Composto da una serie numerica tradotta graficamente da barre verticali necessarie per la lettura ottica, il codice a barre è un sistema di identificazione per garantire l’identificazione, la tracciabilità e la commercializzazione di un prodotto a livello globale. 

Dopo essere stato ideato negli anni ‘40, è stato adottato per la prima volta negli Stati Uniti trent’anni dopo da un insieme di aziende che hanno creato un “codice universale di prodotto” chiamato Global Trade Item Number, il GTIN, il numero che serve appunto a identificare un oggetto. Attualmente esistono diverse tipologie di GTIN, ciascuna destinata a identificare oggetti diversi, e il numero può essere composto da 8, 12, 13 o 14 cifre. Questi numeri sono univoci e vengono originati da GS1, un’organizzazione non profit che si occupa di sviluppare e mantenere standard globali per la comunicazione tra le imprese. 

Le prime 9 cifre di questo codice corrispondono al prefisso aziendale GS1, che identifica l’azienda a livello internazionale. Le cifre rimanenti si riferiscono al codice del prodotto e alla cifra di controllo, che serve a verificare la correttezza dei codici GS1.

Le prime cifre del codice a barre, però, non fanno riferimento alla provenienza del prodotto.
Come spiegato sul sito dalla stessa organizzazione, il prefisso non indica che il prodotto sia stato fabbricato in un Paese specifico, ma solo dove l’azienda ha ottenuto il prefisso aziendale. L’organizzazione GS1 infatti lavora con 116 altre organizzazioni nel mondo per assegnare i codici, e il prefisso 729, ad esempio, viene assegnato a tutte quelle aziende che fanno domanda del codice GTIN all’ente membro di GS1 in Israele.

«Le aziende possono scegliere uno dei 116 membri dell’organizzazione GS1 con cui vogliono lavorare, a prescindere che sia nel Paese in cui hanno la sede o producono i propri prodotti», ha spiegato ad AFP il portavoce di GS1 Carlos Carnicero Urabayen.

L’azienda può quindi avere la propria sede legale e i propri luoghi di produzione in qualunque parte del mondo, indipendentemente dallo Stato in cui ha scelto di richiedere il codice GTIN. 

Le app di boicottaggio
I metodi di boicottaggio che si basano sul codice a barre però non finiscono qui. Negli anni infatti sono state create applicazioni, come Buycott e No Thanks, che aiutano l’utente a identificare l’azienda dietro il prodotto e capire se questa è ritenuta colpevole, ad esempio, di aver violato i diritti dei lavoratori oppure di aver finanziato lo Stato di Israele. 

Buycott è stata lanciata nel 2013 da Ivan Pardo, uno sviluppatore californiano che voleva più trasparenza negli acquisti e, in sostanza, evitare di finanziare le industrie della famiglia Koch, una delle più ricche degli Stati Uniti e di stampo libertarismo-conservatore. L’app ha registrato un aumento di download grazie alla spinta ricevuta da Boycott, Divestment and Sanctions (BDS), un movimento pro-Palestina che dal 2005 promuove il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro l’occupazione e l’apartheid israeliane, e che è fortemente criticata dallo Stato di Israele. L’app è comunque disponibile solo per i sistemi iOS, e non è aggiornata dal 2016.

No Thanks, invece, è più recente, ed è stata creta nel 2023 da Ahmed Bashbash, un palestinese che dichiara, come si può leggere sull’app, di aver perso i propri fratelli e sorelle a causa dell’occupazione di Israele nei territori palestinesi.

Queste app funzionano all’incirca allo stesso modo. Scannerizzando il codice a barre di un prodotto, l’app rintraccia l’azienda di appartenenza (se il prodotto è presente all’interno del sistema), riuscendo in alcuni casi a ricostruire tutta la filiera di produzione, poi controlla se appartiene o meno alla propria lista di brand da boicottare. In base a queste liste, l’app emetterà un verdetto finale: «al momento il prodotto è buono», oppure no. In alcuni casi, al responso vengono affiancati link utili a capire perché un prodotto è considerato da boicottare. 

Ma sulla composizione delle liste dei brand da boicottare rimangono alcuni dubbi, essendo arbitrarie. L’app No Thanks, ad esempio, ha compilato l’elenco delle aziende che presumibilmente sostengono Israele con l’aiuto dei siti web Boycotzionism e Ulastempat. Quest’ultimo, spiega Deutsche-Welle, ha come slogan la frase «From the river to the sea, Palestine will be free», intrepretabile da alcuni in chiave antisemita. Inoltre, Google l’aveva momentaneamente rimossa a causa della frase «Benvenuti su No Thanks, qui puoi vedere se un prodotto che hai in mano supporta l’uccisione di bambini in Palestina oppure no».

In questo caso, dunque, il codice a barre può essere utile per rintracciare l’azienda di appartenenza di un prodotto, ma le liste dei prodotti da boicottare non sono completamente affidabili e le app non forniscono indicazioni sul singolo bene. Come fare allora per rintracciare la provenienza di un prodotto?

La provenienza di un prodotto
Per determinare la provenienza di un prodotto può essere utile controllare l’etichetta, anche se in Italia «non sempre è possibile trovare sull’etichetta l’indicazione del Paese di produzione», come spiegato a Facta dall’Ufficio tutela del consumatore della Camera di commercio di Treviso e Belluno. «L’indicazione del produttore e la sua sede è richiesta in talune normative più stringenti per esigenze di sicurezza prodotti, in altre è richiesta l’indicazione del produttore se situato nell’Unione europea, in caso contrario è sufficiente riportare il solo importatore nell’Unione europea», continua la Camera di commercio.  

Ad esempio, parlando di beni alimentari, l’Italia nel 2017 ha emanato un decreto legislativo che impone l’obbligo di indicare la sede e l’indirizzo dello stabilimento di produzione o di confezionamento. A livello europeo, stando al Regolamento esecutivo numero 775 del 2018, occorre indicare l’origine delle materie utilizzate nei prodotti solo in alcuni casi: ogni qualvolta sussista il rischio che il consumatore possa essere tratto in inganno da diciture, illustrazioni, simboli o termini sulla confezione che si riferiscono a luoghi geografici; oppure quando il Paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento è indicato ma non è lo stesso di quello del suo ingrediente primario. 

Al momento dunque non c’è la possibilità di sapere sempre il Paese in cui un bene è stato fabbricato, ma il codice a barre può essere utile per rintracciare l’azienda produttrice e, grazie ad alcune app, controllare se questa finanzia o trae profitto da guerre e occupazioni militari o è accusata di non rispettare l’ambiente e i diritti umani.

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