Di Francesca Capoccia
L’8 aprile si celebra in tutto il mondo il “Romano Dives“, la Giornata internazionale dei rom, sinti, kale, manouche e romanichals. La ricorrenza annuale è stata istituita per ricordare il primo congresso mondiale della Romani Union, che si tenne a Londra nel 1971, e dove venne scelto il termine “Rom”, che nella lingua romaní, il romanes, significa «uomo», per denominare il popolo romaní.
In quell’occasione venne istituita anche la bandiera romaní, una ruota rossa su sfondo per metà verde e metà azzurro. «Quella che sembra una ruota in realtà rappresenta la diaspora del nostro popolo che da mille anni viene spostato da un Paese all’altro», ha spiegato a Facta Nedzad Husovic, educatore e attivista dell’associazione New Romalen. «Il verde rappresenta invece la terra, e l’azzurro il cielo», continua Husovic, «perché non abbiamo un solo Paese, dal momento che ce lo hanno strappato, ma siamo il popolo del mondo». Al congresso di Londra venne deciso anche l’inno nazionale, la canzone “Djelem Djelem” scritta nel 1969 da Zarko Jovanovic, musicista e compositore serbo di origine rom.
A livello europeo, il popolo romaní costituisce la minoranza più numerosa con circa 10-12 milioni di persone che vivono sul territorio, metà delle quali risiede nell’Unione europea. In Italia si contano 180 mila persone rom e sinte, anche se il numero non è preciso perché il censimento su base etnica è incostituzionale, ma anche perché alcune persone, per paura di subire discriminazioni, preferiscono non dichiarare la loro identità rom e/o sinti.
La storia del popolo romaní, infatti, è fatta di ostilità, esclusione, emarginazione e ghettizzazione, racchiudibili sotto il termine “antiziganismo”, che continuano a essere inflitte ancora oggi a causa di stereotipi e falsi miti che dominano la narrazione su rom e sinti. Per far sì che queste persone possano vivere una vita senza discriminazioni, è dunque necessario rimuovere le radici dei luoghi comuni che le dipingono, in maniera errata e falsata, come “nomadi”, “vagabondi”, “analfabeti” e “ladri”.
Le origini del popolo romaní
Prima di tutto è importante capire di chi stiamo parlando. La parola “rom” è utilizzata – in certi casi anche generalizzando in maniera impropria – per definire i diversi popoli romaní: rom, sinti, manouche, kale, romanichals. «Il termine generale “rom” è stato scelto nel 1971 perché si pensava potesse indicare una sorta di rappresentanza totale. Ma oggi ci troviamo con diverse minoranze che ci tengono a essere chiamate con il loro nome preciso. Eventualmente si può parlare di “popolo romanì” o “Roma”», ha spiegato a Facta Ervin Bajrami, attivista del Movimento Kethane- rom e sinti per l’Italia.
Ciascun gruppo si definisce e viene definito in maniera diversa in base alla provenienza geografica, alla lingua parlata, alla religione professata e ai mestieri tradizionalmente esercitati. Ogni gruppo a sua volta si suddivide infatti in sottogruppi. Ad esempio, continua Bajrami, «i kale, in Spagna, prendono il nome dal colore della pelle perché kale significa nero, mentre i sinti prendono il nome dal fiume Sinda (in India, ndr)». Tra i vari sottogruppi troviamo invece, aggiunge Bajrami, «i khorakhanè (“I lettori del Corano”, ndr) nei Balcani, soprattutto in Kosovo e in Bosnia, rom che, per costrizione dell’Impero ottomano sono diventati musulmani, mentre in Romania ci sono i rom rodari che si occupavano dei cavalli». In Italia, spiega la sociologa Anna Rita Calabrò nel libro Zingari. Storia di un’emergenza annunciata, risiedono i rom ha(r)vati che si trovano soprattutto nel nord Italia e provengono dalla Croazia, Istria e Slovenia a seguito delle due guerre mondiali. Oppure ci sono i rom abruzzesi, arrivati in Abruzzo e Molise a fine ‘300 dopo la battaglia di Kosovo. Raggrupparli tutti in un unico termine e in un’unica definizione, generalizzando, non rispecchierebbe le varie identità, la storia e le specificità di ogni gruppo e sottogruppo.
Parlando di termini e parole, sottolineiamo fin da subito che l’espressione “zingaro” (che non useremo in nessun’altra occasione), spesso utilizzata come sinonimo di “rom”, ha un significato dispregiativo. «La sua etimologia», spiega Nedzad Husovic, «deriva dalla parola atsigano, che è poi diventata tsigano e infine zingaro, e significa “coloro che non vogliono essere toccati”. È una parola discriminatoria». Ervin Bajrami ha precisato che il termine era sinonimo di servo, schiavo, e «oggi diverse persone rom e sinte utilizzano questa parola perché l’hanno acquisita come punto di forza per una questione politica, e la rivendicano. Ma noi del Movimento Kethane la riteniamo ancora oggi un dispregiativo, e preferiamo utilizzare rom e sinti in modo tale che le persone vengano chiamate col proprio nome e si possano sentire rappresentate. È una questione di giustizia, di correttezza e di rispetto».
Per quanto riguarda l’origine del popolo romaní, studi linguistici hanno dimostrato che proviene dalla regione del Punjab, nell’India settentrionale. La radice comune dei vari dialetti del romanes parlati da rom, sinti, manouche, kale e romanichals ha molte caratteristiche in comune con il sanscrito del X secolo, lingua indoeuropea. Intorno al X secolo cominciò il primo grande esodo del popolo romaníì, che dall’India si spostò verso la Persia, l’Armenia, l’Impero bizantino, la Grecia. Un esodo che, come spiega sempre nel suo libro Anna Rita Calabrò, avvenne nel corso di centinaia di anni e fu determinato da guerre, invasioni e carestie. L’avanzata dell’Impero ottomano dal XIV secolo in poi spinse il popolo romaní verso l’Europa, in particolare nell’area balcanico-danubiana, dove si fermò prima di ripartire verso l’Europa occidentale.
Lo stereotipo del nomadismo e le sue conseguenze
Questa storia di migrazione è stata la base della narrazione, errata, che etichetta il popolo romaní come “nomade”. In realtà, spiega a Facta Noell Maggini, stilista e attivista del movimento Kethane, «il nomadismo non è intrinseco e non è parte della tradizione romaní, ma è stata una necessità». Nel suo libro “I rom d’Europa”, l’antropologo Leonardo Piasere scrive infatti che «anche se il nomadismo poteva portare una famiglia occasionalmente e momentaneamente in terre sconosciute in cerca di nuove opportunità economiche, la regione di riferimento e i suoi gagé (ovvero le persone non rom, ndr) restavano fondamentali per la costruzione dell’identità della comunità».
Tanto è vero che, continua Piasere, «molti gruppi hanno sopportato un’intermittente persecuzione locale pur di non emigrare». Questa narrazione stereotipata del nomadismo, spiega Fiorello Miguel Lebbiati, anche lui attivista del Movimento Kethane, ha comunque un fondo di verità perché, «alcuni dei tanti lavori praticati da rom e sinti, come il restauratore di pentole o di oggetti religiosi, o i giostrai, sono stati e sono itineranti, dunque c’era la necessità di spostarsi continuamente in giro per l’Italia». Ma il fatto che alcune persone si siano spostate, e si spostino ancora oggi per motivi di lavoro, non significa che rom e sinti siano necessariamente persone “nomadi”. I sinti, ad esempio, vivono sul suolo italiano dal 1300-1400 circa, dunque sono parte del tessuto sociale italiano da più di sei secoli.
La storia dei rom in Italia invece, è più variegata. Esistono infatti i cosiddetti “rom di antico insediamento” che, come i sinti, sono presenti sul territorio da più di 600 anni. Con le due guerre mondiali, poi, sono stati registrati nuovi arrivi di persone rom in Italia. Stesso discorso vale per la guerra nei Balcani degli anni ‘90. Infine, con l’entrata della Romania nell’Unione europea, rom rumeni si sono trasferiti in italia, svolgendo soprattutto lavori stagionali, per fuggire dalla condizione di schiavitù ed emarginazione a cui erano sottoposti.
Per fronteggiare tutti questi arrivi, varie regioni italiane, tra le prime Veneto e Lazio, a partire dagli anni ‘80 hanno promosso azioni legislative per “tutelare la cultura dei rom”, finanziando la costruzione e la manutenzione di “riserve etniche” denominate impropriamente “campi nomadi”. Partendo dal falso mito della persona rom e sinta come “nomade”, «l’Italia ha istituito i campi come risposta politica per segregare i rom e sinti», ha commentato Fiorello Lebbiati. «Hanno creato dei mega campi impersonali, dove sono stati messi insieme in dei container serbi, bosniaci, macedoni e rumeni solo perché rom», ha aggiunto l’attivista. Inizialmente fu promesso loro che queste soluzioni abitative sarebbero state temporanee, per un periodo massimo di sei mesi in attesa di un ricollocamento dentro gli alloggi popolari.
Ma questa promessa di fatto non è mai stata mantenuta. I mega campi, dunque, chiamati “villaggi attrezzati”, derivano da un’imposizione politica, da una decisione presa dall’alto e non voluta dalle stesse persone rom e sinte che da 4 generazioni si trovano a vivere in queste soluzioni abitative, nonostante nessuna di loro abbia vissuto in camper, roulotte o container prima di dover fuggire dal proprio Paese.
I “villaggi attrezzati”, creati dalle istituzioni, si differenziano dai cosiddetti “campi tollerati”, baraccopoli informali in cui vivono per necessità comunità di rom e sinti ritenute inizialmente abusive e illegali, ma che lo Stato, per una questione di riconoscimento e tutela di diritti umani, accetta e “tollera”. Può capitare però che il Comune di riferimento esegua comunque uno sgombero di un campo tollerato, come successo nel 2018 al Camping River di Roma, «lasciando le persone senza soluzioni abitative valide, e andando a distruggere il percorso di inclusione, lavorativo, scolastico e la rete sociale che quelle persone avevano costruito fino a quel momento in quel territorio», ha commentato Lebbiati. In assenza di alternative, le comunità che hanno subito uno sgombero si riorganizzano comunque in nuovi insediamenti informali.
Questi due tipi di “campi” vanno poi distinti dalle microaree, che «sono invece insediamenti spontanei di rom e sinti che decidono di vivere nelle proprie roulotte, o in case prefabbricate, insieme al proprio nucleo familiare», ha aggiunto Lebbiati. «Per molti sinti, che per lavoro devono spostarsi, la roulette è uno stile di abitare, anche perché permette di vivere insieme alla famiglia allargata. È una modalità funzionale allo scambio culturale, alla tradizione che si tramanda di generazioni in generazione per via orale», spiega ancora Lebbiati. «Diverso è associare questo stile e questa modalità di vita all’idea di mega campo, che è un’idea puramente istituzionale che mette insieme persone estranee solo perché sono rom o sinte, e quindi devono abitare necessariamente in un campo».
Per decostruire lo stereotipo del nomadismo basta poi considerare che, anche se all’Estero esistono piccoli insediamenti legali, abusivi, o tollerati di persone rom e sinte, l’Italia è l’unico Paese in cui lo Stato, tramite le singole Regioni, ha costruito i mega campi come soluzione abitativa. Inoltre, se si guarda al dato numerico, su oltre 180mila persone rom e sinte sul territorio italiano, solo 13 mila vivono negli insediamenti. Una scelta che, ricordiamo, per molte persone è stata imposta. La quasi totalità dei rom e sinti, dunque, abita nelle case.
Il problema dell’abbandono scolastico
Secondo un’altra narrazione diffusa in Italia, rom e sinti sono persone con un quoziente intellettivo basso. Come nel caso dello stereotipo del nomadismo, anche il falso mito della persona rom o sinta etichettata come poco intelligente ha portato a politiche istituzionali discriminatorie e antiziganismo. È il caso delle classi scolastiche “Lacio Drom”, classi differenziate create dal ministero dell’istruzione, dall’associazione Opera nomadi e dall’Istituto di pedagogia dell’Università di Padova negli anni ‘60 appositamente per bambini e bambine rom e sinti perché non ritenuti capaci e all’altezza di frequentare le scuole tradizionali. Le “Lacrio Drom” furono abolite definitivamente nel 1982, ma «in queste classi molti non hanno imparato né a leggere né a scrivere, e quei pochi fortunati sono usciti da un percorso formativo senza un titolo di studio valido e riconosciuto», ha commentato Fiorello Labbiati. Queste politiche non solo hanno limitato e ostacolato l’alfabetizzazione di molti bambini, ora adulti, ma hanno creato anche un senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni scolastiche.
A questo si collega il problema dell’abbandono scolastico di bambini e bambine rom e sinte. Sul fenomeno italiano non esistono dati certi e aggiornati, ma vari report di università e associazioni indicano che la dispersione scolastica sia molto diffusa, e che sia stata aggravata dalla didattica a distanza durante la pandemia da Covid-19 perché diversi bambini non avevano accesso a dispositivi e strumenti tecnologi. «Molti bambini sinti e rom non vogliono andare a scuola, è vero, ma bisogna chiedersi il motivo», ha commentato lo stilista e attivista Noell Maggini. «La scuola per questi bambini è un trauma perché è proprio lì, confrontandosi con insegnanti e compagni, che capiscono di essere etichettati come “un problema per la società”. Come fa un bambino rom ad avere voglia di andare a scuola così?», ha aggiunto Maggini.
Le politiche di esclusione messe in atto dal sistema educativo, unite alle quotidiane esperienze di antiziganismo subite da rom e sinti, hanno avuto un forte impatto negativo sul loro livello di istruzione, e sul loro futuro. «Alcuni ragazzi che vivono nei campi non hanno una prospettiva di futuro, preferiscono restare all’interno del sistema campo e lavorare come giostrai o raccoglitori del ferro perchè almeno lì si sentono al sicuro», ha commentato ancora Maggini.
Lo stereotipo del ladro
Lo scorso marzo all’interno del dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Ferrara è stato appeso un cartello che avvisava di fare attenzione a non lasciare incustoditi effetti personali di valore dal momento che sarebbe stata notata una “strana presenza” di «zingari» all’uscita. L’università ha negato ogni responsabilità, ma questo fatto di cronaca dimostra come sia ancora diffusa e presente nella vita quotidiana la narrazione che collega la persona rom o sinta alla criminalità. Tutte le persone rom e sinte, insomma, sarebbero dei ladri. «Non esiste nessuna cultura, nessun popolo che ha questa caratteristica come personale», ha commentato Fiorello Lebbiati, «ma la povertà è la causa di qualsiasi atteggiamento illegale».
Se una persona si trova in forte difficoltà economica e sociale, vive in situazioni di disagio, come può essere il caso di una minima parte di persone rom e sinte che vivono in campi abusivi, «allora esiste una buona probabilità di criminalità», ha aggiunto Noell Maggini. La povertà infatti è spesso considerata un fattore di rischio significativo per comportamenti delinquenziali, dal momento che chi cresce in famiglie economicamente svantaggiate può avere maggiori probabilità di impegnarsi in attività criminali a causa della mancanza di risorse, opportunità e modelli di ruolo positivi. Ma affermare che ogni persona in condizioni economiche svantaggiate, o che tutto il popolo romaní sia necessariamente un ladro, è un falso mito e una descrizione discriminatoria. «Siamo esseri umani come tutti gli altri, e dentro alla categoria rom e sinta ci sono tutte le ipotetiche sfaccettature dell’umanità», ha aggiunto Lebbiati.
Infine, non è nemmeno vero che le persone rom e sinte “rubano i bambini”, come vuole un’altra leggenda metropolitana. Sabrina Tosi Cambini, antropologa, nel proprio libro “La zingara rapitrice” ha raccolto 29 casi di presunti tentati rapimenti di bambini da parte di rom e sinti in Italia dal 1986 al 2007. Ma in tutti i casi analizzati non c’è una sentenza che accusa la persona rom, o sinta, di aver rapito un bambino. Il problema sembra essere invece un altro: molte famiglie rom e sinte in Italia, infatti, sono vittime di un meccanismo che consente allo Stato, attraverso il Tribunale dei minori, di allontanare i minori per darli in adozione, con motivazioni che vanno dal «rapporto disatteso o imperfetto tra genitori e figli» a «casi di criminalità, mancata scolarizzazione, dipendenze», ma anche «povertà e disagio abitativo». Secondo una ricerca del 2013 portata avanti dall’Associazione 21 luglio, un bambino rom ha 40 probabilità in più di essere dichiarato adottabile rispetto a un bambino non rom. Il problema, secondo l’associazione, è che persiste un forte pregiudizio nei confronti dei rom da parte delle figure professionali protagoniste dell’iter che porta alle adozioni.
Sul popolo romaní circolano molte leggende metropolitane e narrazioni discriminatorie. Come fa notare Nedzad Husovic, è importante non solo sfatare questi falsi miti, ma iniziare a raccontare la storia, la cultura e il contributo che il popolo romaní ha apportato alla società. «Ci sono scienziate e scienziati, premi Nobel, artiste e artisti che sono rom, sinte ma che a scuola non vengono mai nominati proprio per il fatto di essere rom e sinte», ha spiegato Husovic, oppure personaggi noti al pubblico di cui però non si conosce il fatto che appartengano al popolo romanì. Ad esempio, il premio Nobel per la Medicina Schack Krogh, il comico e attore Charlie Chaplin, il cantante Elvis Presley, la “regina del circo” Moira Orfei, l’attrice Helen Mirren. «Ci sono anche rom sinti che hanno partecipato alla Resistenza italiana ed europea, o che sono morti a causa del Porrajmos, lo sterminio nazifascita durante la Seconda guerra mondiale, ma a scuola non se ne parla».