Catastrofisti, gretini, ecofollie: glossario minimo del negazionismo climatico - Facta
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Catastrofisti, gretini, ecofollie: glossario minimo del negazionismo climatico

di Antonio Scalari

Chi diffonde disinformazione si serve delle parole. Lo fa tanto quanto chi, al contrario, si impegna a condividere informazioni corrette. Nel primo caso, tuttavia, il significato viene manipolato, stravolto, rovesciato. Il negazionismo climatico parla un linguaggio fatto di una manciata di vocaboli. La sua funzione non è informativa, ma ideologica. Serve a veicolare precisi messaggi e tesi senza fondamento. Alcune parole sono neutre e di uso comune. Altre sono espressioni coniate di proposito. In entrambi i casi il loro obiettivo è confondere le acque e alzare cortine di fumo che nascondono i fatti. Quella che segue è una rassegna di questo glossario negazionista.

L’ossessione del “catastrofismo”
Si potrebbe dire che la prima parola del glossario negazionista è proprio questo termine: “negazionista”. Ci entra in negativo, cioè come termine da rigettare con sdegno. Non ci sono negazionisti – dice ogni negazionista – ma solo persone che manifestano “dubbi“. Un’altra parola che è nella storia del negazionismo. Nel saggio “Mercanti di dubbi” gli storici della scienza Naomi Oreskes ed Erik Conway hanno documentato le campagne di disinformazione su diverse questioni scientifiche, compreso il cambiamento climatico. Per i soggetti che le hanno condotte il dubbio non era un’attitudine intellettuale da applicare nella ricerca della verità. Era un prodotto da vendere.

Alcuni preferiscono parlare di “scettici”, invece che di negazionisti. Ma scetticismo e negazionismo non sono parenti, neanche alla lontana. Il primo è sospensione del giudizio in assenza di prove e apertura mentale. Scettici sono stati gli scienziati che hanno raccolto dati, hanno ipotizzato, indagato, calcolato. Infine, solo dopo aver fatto tutto questo, hanno concluso. Per esempio, che fosse in atto un riscaldamento globale causato dalle attività umane. 

Se però rappresentassimo i discorsi negazionisti attraverso una nuvola di parole, sarebbe catastrofismo a campeggiare tra quelle più grandi. Quello del catastrofismo è un vero e proprio mantra del negazionismo, alla pari di slogan, ripetuti in ogni salsa, come “il clima è sempre cambiato”. Il vero catastrofismo è pensare, a torto, che non possiamo fare più nulla per fermare il riscaldamento globale, perché la situazione è ormai compromessa. È un convincimento che, dal punto di vista pratico, equivale al negazionismo. Ma non è questo il genere di catastrofismo che intendono i negazionisti.

Catastrofiste, a detta dei negazionisti, sarebbero numerose previsioni sul futuro del clima e dell’ambiente fatte nell’ultimo mezzo secolo. Annunci di sventure mai accadute, che dovrebbero dimostrare che anche il riscaldamento globale è l’invenzione di una pattuglia di cassandre che vogliono terrorizzare l’umanità. Un articolo del Giornale, pubblicato nel 2019, menziona un intervento apparso quello stesso anno sul sito del Competitive Enterprise Institute (CEI). Il CEI è un think tank americano di destra, uno dei tanti che hanno promosso il negazionismo climatico con l’obiettivo di influenzare le politiche sull’ambiente e l’energia. Fino al 2006 ha ricevuto denaro dalla compagnia petrolifera Exxon. Se si scorre il catalogo di queste presunte profezie, si trova di tutto, anche su temi che non riguardano il clima. Uno degli esempi preferiti dai negazionisti è un libro del 1968, intitolato “The Population Bomb”. Il suo autore, il biologo Paul Ehrlich, immaginava che ci sarebbero state carestie a causa della sovrappopolazione. Una previsione che non si è realizzata. Le tesi di Ehrlich furono contestate già all’epoca e innescarono una discussione sul rapporto tra crescita demografica e impatti sull’ambiente. Ma non hanno nulla a che vedere, direttamente, con la scienza del clima.

Nella sua rassegna il CEI ammassa di tutto, pescando la dove fa più comodo, mescolando ritagli di quotidiani e grafici ingannevoli. Compaiono articoli del 1974 e del 1980 sul buco dell’ozono e sulle piogge acide (due questioni già oggetto della disinformazione dei mercanti di dubbi), che dovrebbero dimostrare che si trattasse di spauracchi. Al contrario, si sono rivelati problemi reali e seri. Sono stati affrontati e in gran parte risolti proprio grazie alle politiche che i think tank come il CEI hanno cercato di sabotare. Si trova poi un articolo del 1988 che riporta le affermazioni del climatologo James Hansen, che prevedeva che negli Stati Uniti ci sarebbero state più siccità nel Midwest e negli Stati sud-occidentali. Un altro articolo, dello stesso anno, avvertiva che i giorni molti caldi sarebbero aumentati. Ma invece di dimostrare la fallacie di quegli allarmi, il CEI non fa che confermare quando fossero realistici. Entrambi gli scenari si sono infatti realizzati.

Il CEI infila perfino dichiarazioni dell’ex vice presidente americano Al Gore e dell’allora principe Carlo di Inghilterra. Il primo nel 2008 annunciava un mare Artico senza ghiaccio nel 2013, il secondo avvertiva nel 2009 che ci sarebbero stati solo otto anni per «salvare il pianeta». Entrambi sono personaggi famosi e influenti ma non appartengono al mondo scientifico. C’è, tuttavia, un caso significativo di previsioni sbagliate fatte non da politici o celebrità, ma da un esperto. 

Lo scienziato polare Peter Wadhams aveva affermato nel 2016 che l’Artico sarebbe stato privo di ghiaccio entro uno o due anni. Le opinioni di Wadhams a riguardo sono note per essere anomale rispetto al resto della comunità scientifica. I primi a non condividere le sue dichiarazioni sono stati altri scienziati, non negazionisti. Si tratta, dunque, di discussioni che avvengono all’interno del perimetro del consenso scientifico. Che non è il frutto delle opinioni di un singolo esperto, magari rilasciate alla stampa. Gli scienziati discutono di molti aspetti del cambiamento climatico antropico, ma non che sia reale né che che costituisca un problema da affrontare con urgenza. Wadhams ha fatto previsioni avventate, ma i dati indicano che il ghiaccio artico si sta progressivamente restringendo da decenni.

Il piatto forte della retorica negazionista sulle profezie catastrofiste fallite è però senza dubbio quello della presunta previsione negli anni ‘70 di un’imminente glaciazione. Meriterebbe una trattazione approfondita, perché è uno dei più inossidabili miti del negazionismo climatico. In sintesi, secondo i suoi fautori a quell’epoca era stato previsto un raffreddamento globale, non un riscaldamento. Ciò non è accaduto. Ecco la dimostrazione che non dobbiamo prendere sul serio quello che ci raccontano oggi sul riscaldamento globale. Se si sono sbagliati allora, significa che sbagliano anche adesso. Ma chi aveva fatto quella profezia? I negazionisti portano come evidenza articoli e copertine di periodici dell’epoca. Il più citato è un pezzo della rivista americana Newsweek del 1975. Nel periodo in cui usciva questo articolo non c’era ancora un evidente consenso scientifico su quale sarebbe stata l’evoluzione del clima. Tuttavia, nemmeno allora la scienza era equamente divisa in due squadre. Un’analisi della letteratura pubblicata tra il 1965 e il 1979 ha riscontrato sette articoli scientifici a favore del raffreddamento, 20 neutrali e 44 che prospettavano il riscaldamento. Questi ultimi sono aumentati, nella letteratura, nell’arco degli anni ‘70.

Da allora la climatologia ha fatto parecchi passi avanti. I modelli climatici si sono evoluti e raffinati. Proprio i modelli sono tra i bersagli preferiti dei negazionisti, anch’essi al centro di accuse di catastrofismo. Eppure, hanno dimostrato di funzionare piuttosto bene. I modelli climatici utilizzati negli ultimi cinquant’anni sono stati nel complesso accurati nel prevedere il riscaldamento globale negli anni successivi. «La capacità di proiezione dei modelli degli anni ’70 è particolarmente impressionante, viste le limitate evidenze di un riscaldamento in quel momento», osservano alcuni esperti. Del resto, si sono rivelati straordinariamente accurati perfino i modelli che gli scienziati della Exxon avevano sviluppato all’inizio degli anni ’80. La compagnia li ha poi messi in un cassetto, preferendo sostenere le attività di think tanks come il CEI.

Nei discorsi negazionisti la parola catastrofismo assume una valenza che va ben oltre la critica di alcune presunte profezie climatiche. Essa acquisisce, infatti, un significato generale, diventando un’arma brandita per screditare l’intera scienza del cambiamento climatico. Nel 2023 il quotidiano La Verità ha pubblicato un articolo intitolato “Gli studi sul clima gonfiano le cifre: gli scienziati catastrofisti sono pochi”. L’autore parla di uno studio pubblicato nel 2021, che in un database di articoli tra il 2012 e il 2020 ha trovato una percentuale di consenso scientifico sul cambiamento climatico antropico del 99.6 per cento. 

Un secondo studio, pubblicato lo stesso anno, ha calcolato che all’interno di un gruppo di esperti di scienze climatiche e atmosferiche il consenso sale al 98.7 per cento. La percentuale tocca il 100 per cento se si considerano gli autori che hanno prodotto almeno 20 studi sul cambiamento climatico tra il 2015 e il 2019. La Verità, interpretando in modo parziale questi dati, rifiutava le conclusioni degli esperti e affermava, scorrettamente, che la vera percentuale sarebbe del 31 per cento. Catastrofista, dunque, nel linguaggio negazionista, non è più questa o quella previsione sul clima. Lo è chiunque affermi che è in atto un cambiamento climatico di origine antropica.

Il glossario di una neolingua

Il richiamo al catastrofismo è tra le tattiche retoriche preferite da chi vuole negare il cambiamento climatico. Ma gli escamotage linguistici comprendono diversi altri termini. Prendiamo, per esempio, la parola “dogma”. Secondo la definizione della Treccani, dogma è un «principio fondamentale, verità universale e indiscutibile o affermata come tale». Nella scienza la parola dogma può essere usata, in senso lato e in modo enfatico, per riferirsi a teorie molto solide o a regole di funzionamento di alcuni sistemi. Nel 1968 lo scienziato Francis Crick ha coniato l’espressione “dogma centrale della biologia molecolare” per definire il flusso dell’informazione genetica all’interno dei sistemi biologici (un concetto che è poi stato modificato e arricchito). 

Ma la scienza non ha a che vedere con nozioni costitutivamente immutabili. La scienza può raggiungere, su un certo tema, una certezza e una conoscenza tali da rendere altamente improbabile un loro sconvolgimento. Ma non lo rigetta in linea di principio. La teoria dell’evoluzione si è molto ampliata dai tempi di Charles Darwin, ma rimane il pilastro della biologia. Il cambiamento climatico antropico, a dispetto di quanto affermano i negazionisti, è del tutto falsificabile. Se ci fossero evidenze che lo mettono seriamente in discussione.

Nel linguaggio negazionista dogma diventa una parola connotata, impugnata contro una scienza rimproverata di essere testarda, inamovibile, sorda a ogni critica. Addirittura propensa a censurare coloro che la pensano diversamente. Al punto da teorizzare un “dogmatismo della religione del clima”. In certi discorsi negazionisti si sprecano le parole che evocano censura e dissidenti e cupi scenari da regime autoritario che vuole imporre una verità definitaclimaticamente corretta”. L’espressione fa il verso a quella più in voga, “politicamente corretto”, onnipresente nel dibattito pubblico quando si vogliono denunciare presunti pensieri unici. Se il cambiamento climatico, per i negazionisti, è un dogma, ne consegue che gli esperti, veri o (più spesso) presunti, che non vogliono aderirvi devono essere elevati al rango di nuovi “Galilei”, perseguitati da coloro che vogliono essere i detentori delle verità climatiche.

Ci si può chiedere, a ragione, dove stia il contenuto informativo in discorsi di questo tenore, che tratteggiano un mondo completamente immaginario. Insomma, dove siano i fatti, le evidenze, che dovrebbero reggere il contorno di parole polemiche. La risposta è che, quasi sempre, non esistono. C’è solo il contorno. I discorsi negazionisti sono generatori automatici di permutazioni di una manciata di vocaboli, che non devono assolvere ad altra funzione se non mandare un unico messaggio: il riscaldamento globale non esiste e se esiste i combustibili fossili non c’entrano nulla. Le uniche affermazioni, che dovrebbero costituire evidenze, sono “il clima è sempre cambiato” e il resto del campionario di bufale o tesi già smentite. Prima o poi, alla fine, si torna sempre alla scienza.

Nel mondo al contrario del negazionismo la scienza viene bollata come dogma, i dogmi sono spacciati per dubbi e le persone che prendono sul serio la scienza e, per questo, si preoccupano per il loro futuro vengono etichettate come “talebane” ed estremiste. Da qualche anno chi vuole prendere in giro i giovani che manifestano per il clima ha a disposizione il neologismo “gretino”, calembour forgiato sul nome dell’attivista svedese Greta Thunberg. Negl articoli che si avventano contro i “gretini”, immancabilmente, si ritrovano tesi prive di fondamento scientifico. Questi interventi, infatti, non hanno lo scopo di muovere legittime critiche a questa o quella forma di attivismo, ma di distruggere le motivazioni stesse che lo ispirano.

Il cambiamento climatico, per i negazionisti, è un credo non solo estremista, ma anche folle. L’abuso di terminologie psicologiche è un altro topos negazionista. Nell’aprile del 2024 Fratelli d’Italia ha organizzato un panel sulle “ecofollie”. In questo contenitore sono state messe le auto elettriche, da tempo prese di mira dalla disinformazione, ma ci sono finiti dentro perfino i cappotti per l’isolamento termico degli edifici. Un intervento edilizio per il risparmio energetico normalmente diffuso e praticato da anni. Le soluzioni per la riduzione delle emissioni climalteranti vengono fatte passare per idee e pratiche folli ed emblemi di “derive ideologiche”. Ne discende che chi lo sostiene è un pazzo, seguace di una pericolosa “ideologia green”, un’altra espressione che ritroviamo da anni nella discussione pubblica.

Green è una parola di per sé neutra. La stessa Unione europea ha battezzato il pacchetto di politiche ambientali e climatiche Green Deal. Tuttavia è anche un termine scivoloso, che si presta all’usura e al rischio di utilizzi banali e banalizzanti. Molti discorsi sul cambiamento climatico, anche in buona fede, ruotano attorno all’immaginario green, che è molto sfruttato dal marketing. Il colore verde è associato da sempre al movimento ambientalista. Per questo motivo la parola green è una comoda sponda semantica per chi vuole far credere che il cambiamento climatico sia solo un’ossessione di poche organizzazioni ambientaliste, non un tema attorno a cui si può formare un consenso sociale più largo.

Questa neolingua ha un duplice effetto: allontanare tutto ciò che riguarda il cambiamento climatico dalla dimensione dei fatti, della razionalità, perfino della normalità; relegarlo all’interno di una dimensione parallela, lontana dalla vita quotidiana, abitata da radicali e squilibrati che vogliono sovvertire la società in nome di un credo malato. Quando in un articolo di giornale o in un discorso pubblico ci imbattiamo in una di quelle parole, è bene alzare le antenne della nostra attenzione: è molto probabile che ci troviamo di fronte a un discorso che vuole distrarre da ciò che sta accadendo al clima di questo pianeta.

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