Logo
Questo articolo ha più di 6 mesi

Da Pepe The Frog a Gigi D’Agostino: come l’estrema destra maschera l’odio con l’ironia

Utilizzando meme e travisando canzoni pop, la destra radicale cerca di normalizzare teorie razziste e antisemite

29 maggio 2024
Condividi

Di Leonardo Bianchi

L’amour toujours” è una celebre canzone dance realizzata nel 1999 dal dj italiano Gigi D’Agostino, che recentemente ha subito un destino davvero assurdo: è infatti diventata un inno dell’estrema destra tedesca.

Nell’ultima settimana il dibattito pubblico in Germania è stato dominato da un video girato nel locale Pony a Sylt, un’isola tedesca nel mare del Nord, e diffuso sui social network. Nella clip in questione, che dura appena 14 secondi, si vedono diversi giovani ballare sulle note della canzone e intonare l’espressione «Deutschland den Deutschen, Ausländer raus» («la Germania ai tedeschi, fuori gli stranieri») – uno slogan utilizzato dai neonazisti tedeschi negli anni Ottanta e Novanta. Nelle riprese spunta anche un ragazzo che alza il braccio a mo’ di saluto nazista e tiene due dita sotto il naso, facendo un chiaro riferimento ai baffi di Adolf Hitler.

Le reazioni politiche non si sono fatte attendere. Quelle più dure sono arrivate dal Partito Socialdemocratico di Germania (SPD). Per il cancelliere Olaf Scholz, lo slogan pronunciato da quelle persone è «disgustoso» e «inaccettabile». La ministra dell’Interno Nancy Faeser ha parlato di «vergogna nazionale» e dichiarato che «chiunque pronunci frasi naziste è una disgrazia per la Germania».

Il locale Pony ha sporto denuncia contro i responsabili e si è dissociato dall’accaduto con un post su Instagram, in cui si legge che «non tolleriamo questo comportamento profondamente antisociale. […] Il razzismo e il fascismo non hanno spazio nella nostra società». Le forze dell’ordine hanno comunicato all’emittente pubblica tedesca Deutsche Welle che è stata avviata un’inchiesta per istigazione all’odio.

Alcune delle persone che pronunciano lo slogan nel video sono state identificati dalla rivista Bild, che le ha definite «ben istruite, ricche e già attive a livello imprenditoriale». Il loro status sociale elevato è stata sottolineato anche da Manuela Schwesig, prima ministra socialdemocratica dello stato Meclemburgo-Pomerania, per la quale «è sbagliato pensare che l’estremismo di destra sia un problema della Germania dell’est o di persone meno abbienti; lo è anche delle classi più alte. Il razzismo è praticato anche dalle persone che hanno studiato all’università o ricoprono incarichi dirigenziali».

In effetti, il caso di Sylt non è isolato. Come ha puntualizzato il giornalista Matern von Boeselager sul settimanale Der Spiegel, sono ormai diversi mesi che la versione razzista de “L’amour toujours” rimbalza tra «le feste in spiaggia nello [stato dello] Schleswig-Holstein, le parate di carnevale in Baviera e i festival di paese in Sassonia», e compare in diversi video su TikTok e su altre piattaforme.

Sebbene l’origine non sia chiara, la canzone di Gigi D’Agostino è ormai un meme dell’estrema destra tedesca. Ed è anche un meme estremamente popolare, al punto tale che non necessita di spiegazioni e nemmeno dello slogan neonazista associato: bastano le note.

Non a caso, annota von Boeselager, il partito di estrema destra Alternative für Deutschland – che secondo una recente analisi è la prima scelta politica presso l’elettorato under 30 – a volte mette il brano come colonna sonora dei propri video sui social, ammiccando dunque al contenuto implicitamente razzista. È anche per questo motivo che il direttore dell’Oktoberfest Clemens Baumgärtner ha annunciato che l’“L’amour toujours” sarà vietata alla prossima edizione del festival: «Non c’è posto per le stronzate di destra all’Oktoberfest», ha dichiarato all’agenzia di stampa DPA.

A ogni modo, la vicenda di Sylt non si esaurisce soltanto all’interno dei confini Germania. È infatti emblematica di un particolare tipo di strategia comunicativa impiegata dall’estrema destra a livello globale: usare l’ironia – o il trolling – per promuovere e normalizzare messaggi d’odio.

Dai fumetti all’alt-right: il precedente di Pepe The Frog
In un certo senso, la parabola della canzone di Gigi d’Agostino ricalca quella di Pepe the Frog («Pepe la rana»), la rana antropomorfa che per diversi anni è stata la mascotte per eccellenza dell’estrema destra statunitense.

Il personaggio in questione appare per la prima volta nel 2005 nel fumetto “Boy’s Club” di Matt Furie, pubblicato inizialmente sul social MySpace. Da lì Pepe diventa la base di molti meme di 4chan, la imageboard fondata nel 2003 e conosciuta come la «fabbrica dei meme di Internet», nonché uno spazio in cui sono nate molte sottoculture digitali come Anonymous o QAnon.

Per parecchio tempo, come ha ricostruito un articolo del Daily Beast, i meme con Pepe sono stati fondamentalmente innocui e hanno riscontrato un grande successo su Internet, venendo ripresi anche da alcune celebrità come le cantanti Katy Perry e Nicki Minaj. In altre parole, il meme si normiefica – ossia finisce per essere utilizzato anche dai normie, una parola dello slang di Internet che indica l’utente medio (e quindi estraneo alla cultura di 4chan).

Intorno alla fine del 2015, sulla imageboard si tenta dunque di “recuperare” il meme rendendolo quanto più tossico possibile. È a quel punto che viene creata l’associazione con il nazismo: spuntano molte immagini in cui Pepe appare in divisa della SS, esibisce simboli nazisti ed è accompagnato da slogan antisemiti e negazionisti dell’Olocausto.

Nello stesso periodo, sempre su 4chan – e altri spazi online – inizia a prendere quota l’alt-right, crasi di «alternative right» (destra alternativa). Si tratta di un movimento politico eterogeneo che riunisce al suo interno molte anime: paleoconservatori, misogini, estremisti di destra, suprematisti bianchi, neonazisti, complottisti, islamofobi, antisemiti e persone contrarie al “politicamente corretto”, troll di vario tipo e sostenitori di Donald Trump, che nel frattempo ha lanciato la candidatura presidenziale.  

Pepe diventa così uno dei simboli dell’alt-right e viene associato alla campagna di Trump. Lo stesso candidato repubblicano retwitta dal suo profilo Twitter un meme di lui stesso con le fattezze della rana antropomorfa, dando dunque legittimazione politica alla versione estremista del meme. Nel settembre del 2016 il cerchio si chiude: sia la campagna di Hillary Clinton, l’allora sfidante democratica di Trump, che l’ONG Anti-Defamation League lo descrivono come un «simbolo d’odio» usato dai suprematisti bianchi. A nulla servono i tentativi dell’ideatore Matt Furie di “uccidere” figurativamente il suo personaggio: ormai è sfuggito totalmente al suo controllo.

La trasformazione di Pepe è indicativa di una più ampia strategia comunicativa che è riassumibile con la formula del «just joking», ossia «stavo solo scherzando», che l’alt-right ha sempre impiegato a piene mani. Così facendo si può infatti invocare il cosiddetto «diniego plausibile»: si promuovono discorsi xenofobi ed estremisti in modo “ironico”, lasciandosi aperta la possibilità di negare di averlo fatto di fronte alle critiche.

Il metodo è esplicitamente rivendicato e caldeggiato da uno dei principali animatori del movimento: Andrew Anglin, un neonazista statunitense che nel 2013 ha fondato il sito The Daily Stormer (il titolo è un omaggio al settimanale nazista Der Stürmer).

In una guida all’alt-right scritta e pubblicata da lui nel 2016, Anglin mette nero su bianco che «quando si usano insulti razzisti, lo si dovrebbe fare con aria semischerzosa, come quando si fa una battuta razzista di cui tutti ridono perché è vera. […] Il tono dovrebbe essere leggero. La maggior parte delle persone non si sente a suo agio con materiale che appare come puro odio al vetriolo, senza l’ombra di ironia. Il lettore profano non dovrebbe essere in grado di dire se stiamo scherzando o no».

E ancora: «dovrebbe esserci anche consapevolezza degli stereotipi sui razzisti odiosi. Di solito considero questo umorismo come una forma di autoironia – sono un razzista che si prende gioco degli stereotipi sui razzisti perché non mi prendo troppo sul serio. Questo è ovviamente uno stratagemma perché in realtà è vero che voglio gassare gli ebrei. Ma questo è irrilevante».

L’obiettivo finale, chiosa Anglin, è quello di promuovere una forma di «nazismo non ironico mascherato da nazismo ironico».

Il «nazismo ironico» sulla Shoah
Per la semiologa Valentina Pisanty, docente all’Università di Bergamo e autrice del saggio “I guardiani della memoria”, questo tipo di ironia è «un formidabile cavallo di Troia con cui riportare in circolo contenuti ferocemente razzisti fino a poco fa ritenuti impronunciabili in pubblico». E ciò vale anche per quello che dovrebbe essere l’argomento più tabù nell’intero Occidente: la Shoah.

Nel 2019, ad esempio, Nick Fuentes – un estremista di destra che conduce il videopodcast America First – aveva messo in dubbio la stima ufficiale delle vittime dell’Olocausto comparando in modo “scherzoso” gli ebrei a dei biscotti, e sostenendo che fosse impossibile «cucinarne» così tanti in così pochi forni (quelli, cioè, presenti nei campi di sterminio nazisti). Il discorso negazionista si chiudeva con la solita formula del «stavo solo scherzando».

Anche in Italia si sono verificati casi simili. Nell’ottobre del 2018 una militante di Forza Nuova, Selene Ticchi, era stata fotografata durante una marcia neofascista a Predappio mentre indossava una maglietta con la scritta «Auschwitzland» e la riproduzione del logo di Disneyland con l’ingresso del lager di Auschwitz al posto di quello del parco a tema Disney.

L’anno precedente, durante una partita della Serie A di calcio, gli ultras della Lazio avevano affisso all’interno della curva dei rivali romanisti degli adesivi che riportavano il volto di Anna Frank con indosso la maglia della Roma (gli stessi adesivi circolano almeno dal 2013).

In entrambi i casi, annota Pisanty nel saggio, alla «profanazione dei simboli della Shoah» si accompagna «la rete di impliciti che […] i due messaggi facevano trapelare: in un caso, la tesi negazionista standard (Auschwitz come parco a tema e dunque finzione di massa a scopo di lucro). Nell’altro […] l’idea stessa che il paragone con Anna Frank possa essere inteso come un insulto».

In entrambi gli episodi, per l’appunto, ci si era trincerati dietro “l’ironia”. Ticchi, intervistata a Predappio da Repubblica, aveva parlato di «humour nero»; la Curva Nord della Lazio, dal canto suo, aveva scritto in un comunicato che «tutto deve rimanere nell’ambito del nulla» poiché «si tratta di scherno e sfottò da parte di qualche ragazzo».

L’insinuazione funziona perché, evidenzia Pisanty, «dietro il paravento dello scherzo insolente si lascia all’interprete la responsabilità di esplicitare ciò che il discorso mantiene vago e implicito». Tant’è che, «se messi alle strette, gli insinuatori possono sempre negare di avere voluto intendere ciò che il messaggio sembrava dire».

Da Pepe the Frog a “L’amour toujours”, insomma, la promozione dei contenuti razzisti e antisemiti da parte dell’estrema destra contemporanea è piuttosto sofisticata e avviene a diversi livelli. «Con chi la pensa [come gli estremisti]», spiega la semiologa, «si comunica a livello letterale; con chi non è completamente convinto, invece, si rimettono in circolo frammenti di discorso antisemita [ed estremista] ammantandoli di umorismo, facendo così abbassare le difese e rendendoli più accettabili».

Immagine di copertina generata con il software di intelligenza artificiale ChatGPT-4o.

Potrebbero interessarti
Segnala su Whatsapp