In Italia l’aborto è davvero libero e accessibile?
Di Anna Toniolo
«Tre mesi fa ho abortito. Ho iniziato la procedura all’ospedale San Paolo [di Napoli, ndr]: il ginecologo che mi ha visitato è partito chiedendomi se avessi un partner e quale lavoro facesse. Nessuno ha chiesto il mio nome». Inizia così un post di denuncia pubblicato su Instagram il 9 giugno 2024, in cui LNDFK, nome d’arte di Linda Feki, producer, compositrice e cantante, racconta l’esperienza atroce e discriminatoria della sua interruzione volontaria di gravidanza (IVG).
Secondo il racconto che Linda Feki ha condiviso con Facta, la sua esperienza si inserisce in una serie di testimonianze che dimostrano come in Italia, quello che dovrebbe essere un diritto, è spesso scoraggiato dal personale sanitario che, nel suo caso, le ha reso difficile l’accesso e la gestione di un momento tanto personale e intimo. «Ero serena nella mia decisione di abortire, così mi sono recata all’ospedale» ha raccontato la cantante e producer, «dove il ginecologo non mi ha chiesto né un documento né come mi chiamassi e al momento dell’ecografia mi ha riferito che ero di dieci settimane». Secondo il racconto di Feki il medico le avrebbe allora chiesto se, visto che «erano arrivati» così avanti con la gravidanza, «stavano pensando di tenerlo». In quel momento «nonostante io fossi sicura della mia decisione, ho vacillato» ha dichiarato, «anche perché ero spaventata, nella misura in cui non sapevo come funzionasse l’intera procedura». In quel momento Linda Feki ha avuto la sensazione di «aver subito una violenza», ha raccontato a Facta. «Sentivo di essere stata manipolata e che il medico non aveva rispettato del tutto il mio diritto».
A quel punto l’artista, che era sicura di non poter essere incinta di dieci settimane perché vive una relazione a distanza e aveva precisamente in mente le ultime volte in cui aveva passato del tempo insieme al suo compagno, aveva chiesto spiegazioni al ginecologo. Si era inoltre accorta che a voce il medico le aveva detto che la gravidanza era iniziata da dieci settimane, mentre sull’ecografia ne aveva indicate nove. Una differenza non di poco conto, considerato che il tempo è una componente cruciale nelle interruzioni di gravidanza. «Quando gli ho chiesto di firmare l’ecografia lui si è rifiutato», ha concluso. Linda Feki ha poi raccontato di essersi rivolta a un medico privato, che le ha spiegato come il collega dell’ospedale avesse inserito dei parametri errati: dal suo esame risultava che la gravidanza fosse iniziata da otto settimane.
Linda Feki si è poi rivolta a un altro ospedale, il Cardarelli, sempre a Napoli, scoprendo che la struttura accetta casi di IVG solo il mercoledì. «Da quel momento ho dovuto fare una serie di visite e analisi, tra cui l’incontro con l’assistente sociale e con l’anestesista» ha continuato, «ma per farle sono dovuta tornare più volte all’ospedale». La stessa Feki ha raccontato a Facta di essersi dovuta sottoporre all’aborto chirurgico in anestesia totale, in quanto «con i tempi d’attesa, dato il numero della domanda rispetto alla possibilità di soddisfarla, non ci stavo più dentro».
In Italia una persona può richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza entro i primi 90 giorni di gestazione attraverso due metodi: l’aborto farmacologico o chirurgico. L’IVG attraverso il metodo farmacologico è una procedura medica che si basa sull’assunzione di almeno due principi attivi diversi, il mifepristone (meglio conosciuto col nome di RU486) e una prostaglandina, a distanza di 48 ore l’uno dall’altro. Questa prassi può essere implementata fino a 63 giorni, pari a 9 settimane compiute, di età gestazionale. Una volta superato questo termine la persona che vuole abortire – sempre entro i 90 giorni di gestazione – deve sottoporsi al metodo chirurgico, che può essere effettuato in anestesia generale o locale. Inoltre, uno dei motivi per cui «non sono rientrata nell’aborto farmacologico è perché mi è stato comunicato che per legge devono darmi una settimana per riflettere». L’articolo 5 della legge 194/1978 che regola l’interruzione volontaria di gravidanza, infatti, sancisce che se non viene riscontrato il caso di urgenza, il medico rilascia un documento attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta, e «la invita a soprassedere per sette giorni».
L’artista ha proseguito raccontando la sua esperienza all’ospedale il giorno dell’operazione, denunciando come il personale sanitario abbia reso «scoraggiante l’accesso a quello che dovrebbe essere un diritto di autodeterminarsi». Prima di tutto, Feki ha lamentato il fatto che nessuno le abbia fornito informazioni chiare su quanto le sarebbe successo: «ero molto in ansia per l’anestesia totale, ma penso che se il personale avesse avuto un approccio gentile, rassicurante e professionale io probabilmente non avrei avuto queste paure». Feki ha descritto nei dettagli come sia stata abbandonata dagli operatori sanitari, anche nei momenti in cui si è trovata in difficoltà e in cui lei e altre donne con cui condivideva la stanza avevano bisogno di essere soccorse. Ad esempio, ha raccontato che il medico le ha somministrato la pillola preoperatoria, cioè farmaci utilizzati al fine di indurre una dilatazione della cervice uterina per poter procedere successivamente con la chirurgia, avvisandola che avrebbe potuto avere nausea nell’ora successiva e, se avesse vomitato, di richiamarlo. «Ho iniziato a stare male e ho vomitato» ha raccontato Feki «ma in bagno non c’era la carta igienica e non sapevo come pulirmi», aggiungendo che il personale sanitario, nonostante le sue richieste di aiuto, non è intervenuto tempestivamente. «Inoltre ho chiamato il medico per chiedergli se avessi dovuto prendere un’altra pillola», ha continuato, «ma lui ha chiesto a me cosa volessi fare, se prenderne un’altra o se andava bene così, ma io non avevo idea di cosa dovessi fare».
«Mi sembrava di essere all’inferno», ha raccontato l’artista, aggiungendo che a lei e alle sue compagne di stanza non era permesso avere accanto il proprio compagno o una persona caregiver. Eppure avere la presenza di una persona fidata «sarebbe stato davvero di supporto», pratica permessa, al contrario, alle donne che partoriscono. Inoltre, nonostante stesse soffrendo a causa della pastiglia preoperatoria, non le è stato proposto di assumere antidolorifici.
Anche dopo l’operazione, la situazione non è migliorata. Feki ha riportato di aver chiesto all’infermiera di staccarle la flebo, ma questa si sarebbe rifiutata identificandosi come «obiettrice» e andando via. Inoltre, Feki ha descritto anche che il chirurgo le ha comunicato di non aver rimosso tutto completamente dal suo utero, costringendola ad assumere un farmaco per le settimane successive che le ha provocato dolore e disagio. E ancora, Linda Feki ha evidenziato come all’ospedale dove è stata sottoposta alla procedura chirurgica di aborto non le sia stata somministrata l’immunoprofilassi anti-Rh (D), una profilassi di routine per tutte le donne con Rh negativo alla 28° settimana di gravidanza, per evitare complicazioni. Queste misure preventive vanno somministrate entro 72 ore anche in caso di aborto (spontaneo o indotto), ad eccezione degli aborti spontanei che avvengono prima della 13° settimana senza un successivo intervento di revisione della cavità uterina, chiamato anche raschiamento. «Me ne sono accorta solo perché io sono molto precisa e un po’ paranoica» ha dichiarato «ma non deve essere compito mio accorgermi di queste cose, avrei potuto rischiare molto».
Infine l’artista ha messo in luce anche altre difficoltà a cui è stata sottoposta durante questo percorso per abortire, durato circa due mesi tra visite preoperatorie e periodo post operatorio. «In bagno la porta non si chiudeva completamente» ha raccontato, aggiungendo come lei e le altre due donne abbiano dovuto aiutarsi da sole e tra di loro. «A un certo punto una di noi ha avuto un momento di difficoltà e io, già debole per la pillola preoperatoria non sapevo come aiutarla, ma nessuno è intervenuto», lasciando il sangue sul pavimento per molto tempo. O ancora, ha raccontato come quando è stata portata in sala operatoria abbia dovuto passare davanti alla sala d’attesa in cui aspettavano sua madre e il suo compagno «violando la mia intimità», oltre ad aver fatto attendere chi la accompagnava più di un’ora per avere informazioni sul suo conto dopo l’intervento. «Una volta terminata l’operazione» ha concluso Linda Feki, il personale medico le ha ribadito che poiché la pratica era risultata dolorosa, «ci avrei dovuto pensare bene la prossima volta e stare attenta».
«Dopo che ho condiviso la mia esperienza su Instagram, ho ricevuto molti messaggi di donne che hanno avuto esperienze simili e addirittura peggiori della mia», ha concluso Feki.
Contattati dalla redazione di Facta gli ospedali San Paolo e Cardarelli di Napoli non hanno fornito dichiarazioni in merito all’accaduto. Aggiorneremo l’articolo con le loro comunicazioni se e non appena saranno disponibili.
Da 46 anni, cioè dalla legalizzazione dell’aborto, in Italia è aperto un dibattito sul tema che non si è mai chiuso, alimentato dalla politica e da movimenti, soprattutto cattolici e conservatori, che tentano in tutti i modi di ostacolare un diritto sancito dalla legge. Racconti come quello di Linda Feki mettono in risalto come questo diritto, ad oggi, non sia di fatto disponibile e garantito come dovrebbe, ma molte persone che tentano di accedere all’interruzione volontaria di gravidanza si trovano ostacolate. Le questioni problematiche che queste storie portano all’attenzione pubblica riguardano, in particolare, l’obiezione di coscienza del personale medico e sanitario, causa delle carenze strutturali di personale, ma anche di azioni e discorsi discriminatori, della mancanza di assistenza adeguata e di tempi lunghi e farraginosi di accesso ai servizi.
Il personale obiettore
In Italia il diritto ad abortire è tutelato dalla legge 194 del 1978 intitolata “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. Approvata in un periodo in cui il dibattito sul tema era molto acceso, la norma contiene una serie di compromessi tra cui, all’articolo 9, la possibilità per il personale sanitario e addetto alle funzioni di supporto, di sollevare obiezione di coscienza e per questo rifiutare di sottoporre una paziente all’interruzione volontaria di gravidanza.
Ogni anno il ministero della Salute presenta al Parlamento una relazione sull’attuazione della legge, con l’obiettivo di fornire un quadro della situazione italiana rispetto alle interruzioni di gravidanza. L’ultima relazione, presentata il 12 settembre 2023, riporta i dati relativi al 2021 e, tra le altre informazioni, definisce anche la percentuale di personale sanitario obiettore. Nel 2021, secondo quanto riportato, i medici obiettori erano il 63,4 per cento del totale, mentre gli anestesisti erano il 40,5 per cento e il 32,8 per cento del personale non medico.
Secondo l’articolo 9 della legge 194 essere obiettore significa, comunque, che il personale sanitario può decidere di non prendere parte agli accertamenti sanitari necessari e agli interventi per l’interruzione della gravidanza, ma non rifiutarsi, ad esempio, di togliere una flebo finita come ha raccontato Linda Feki.
L’associazione di promozione sociale Luca Coscioni, che ha tra le sue priorità l’affermazione delle libertà civili e i diritti umani, nel 2021 ha pubblicato l’indagine “Mai dati” avviata per verificare l’effettiva applicazione della legge 194/78, andando oltre la relazione pubblicata dal ministero, e per evidenziare la necessità di avere dati aperti e per ogni struttura ospedaliera, invece che chiusi e aggregati solo per regione. I risultati del report chiariscono che la situazione, in alcune parti del Paese, è ancora peggiore, perché i dati della relazione ministeriale non sono del tutto aggiornati. L’indagine, curata da Chiara Lalli e Sonia Montegiove – e diventata un libro nel 2022 – ha mostrato che, secondo i dati ricevuti dalle strutture ospedaliere relativi al 2020, in Italia in quel periodo c’erano 72 ospedali che avevano tra l’80 e il 100 per cento di obiettori di coscienza. Ventidue gli ospedali e quattro i consultori con il 100 per cento di obiettori tra tutto il personale sanitario, 18 gli ospedali con il 100 per cento di ginecologi obiettori e infine 46 le strutture che hanno una percentuale di obiettori superiore all’80 per cento.
Nella sezione dedicata alle domande più frequenti, l’associazione Luca Coscioni ha evidenziato come questi dati siano in continuo cambiamento a causa di spostamenti di personale, pensionamenti o a cambiamenti burocratici. Il quadro che offre, però, resta un’istantanea di un Paese in cui l’alto tasso di obiezione tra il personale sanitario rende l’interruzione volontaria di gravidanza una pratica problematica o addirittura completamente inaccessibile.
Ma cosa dice la legge 194?
Per quanto importante sia la legge 194/78 in Italia oggi, questa non garantisce un vero e proprio diritto all’aborto, ma lo consente in determinati e specifici casi. Il suo obiettivo primario è garantire la tutela sociale della maternità e la prevenzione dell’aborto attraverso la rete dei consultori familiari. L’articolo 1 della legge stabilisce che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio». L’interruzione volontaria di gravidanza è prevista entro i primi novanta giorni di gestazione, e, secondo la stessa norma, i consultori dovrebbero, tra le altre cose, contribuire «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza».
Ci devono, inoltre, essere delle motivazioni valide per abortire che sono definite e chiarite dalla stessa legge. L’articolo 4, infatti, evidenzia che può sottoporsi a un’interruzione volontaria di gravidanza la donna che «accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica» o per il suo stato di salute, le sue sue condizioni economiche, sociali o familiari, o ancora per le «circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito». Questo comporta che ci sia sempre qualcuno autorizzato a chiedere le motivazioni dell’aborto e che il medico non solo certifichi lo stato di gravidanza, ma dia anche la sua autorizzazione per procedere con l’interruzione.
Nel maggio 2021, alcune attiviste e attivisti con il sostegno di realtà come Radicali italiani, hanno lanciato una campagna dal titolo “Libera di abortire” con l’obiettivo di garantire concretamente a ogni persona l’accesso all’aborto, attraverso informazione e sensibilizzazione, ma anche una raccolta firme per dare vita a una proposta di legge di iniziativa popolare. Nella proposta si legge che «l’attuale legge 194 non garantisce un vero diritto all’aborto ma lo consente in determinati e specifici casi» e per questo viene chiesto, tra le altre cose, anche il riconoscimento dell’aborto come vero e proprio diritto riproduttivo, ma anche il superamento dell’obiezione di coscienza e l’obbligatorietà per tutte le strutture pubbliche e private convenzionate di garantire il servizio di interruzione volontaria di gravidanza.
A fine novembre 2021 l’appello aveva raggiunto le 33 mila firme, ma le attiviste avevano denunciato come la loro richiesta di incontro fosse rimasta inascoltata da parte del ministero della Salute e dall’allora ministro Roberto Speranza e avevano organizzato un presidio di fronte al ministero, accusando la politica di negare «una cittadinanza attiva e responsabile a tutte le donne che hanno supportato il lavoro di #liberadiabortire».
I tentativi della destra al governo di ostacolare l’IVG
Recentemente, con la destra al governo, in Italia si è tornati a parlare ancora di aborto. Nonostante la presidente del Consiglio Giorgia Meloni abbia in più occasioni ribadito la sua volontà di mantenere in vita la legge 194 e, anzi, rafforzarne l’applicazione e implementarla in maniera ancora più efficace, alcune sue decisioni hanno scatenato indignazione e proteste.
Il 12 aprile 2024 la Commissione di Bilancio della Camera ha approvato un emendamento al disegno di legge per la conversione in legge del decreto “Pnrr-quater” che contiene una serie di misure per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Questo emendamento chiedeva di inserire anche un articolo, proposto dal deputato di Fratelli d’Italia Lorenzo Malagola, in materia di servizi consultoriali secondo cui le Regioni che organizzano questi servizi nell’ambito dei finanziamenti del Pnrr «possono avvalersi senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche del coinvolgimento di soggetti del Terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità». L’emendamento proposto da Malagola è stato approvato dalla Camera e, successivamente, anche dal Senato.
In altre parole, l’emendamento permette alle Regioni di usare i fondi del Pnrr dedicati alla salute per organizzare servizi all’interno dei consultori promossi anche da movimenti e associazioni antiabortisti. Una mossa che potrebbe sembrare insignificante, considerando che la stessa legge 194 stabilisce che i consultori possono avvalersi della «collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita». Ma a settembre 2022 Malagola aveva rilasciato un’intervista all’associazione antiabortista Pro vita & famiglia in cui aveva dichiarato: «sarà nostro impegno sostenere i Centri di aiuto alla vita e tutte quelle forme di assistenza economica alle donne che si trovano di fronte a questa scelta». L’obiettivo del governo, quindi, appare chiaramente quello di garantire finanziamenti pubblici a una serie di organizzazioni vicine al governo che, sotto la pretesa di voler supportare le madri, portano avanti idee antiabortiste.
Mentre l’Unione europea nell’aprile 2024 approvava, con 336 voti a favore, 163 contrari e 39 astensioni, la risoluzione del Parlamento europeo sull’inclusione dell’aborto tra i diritti fondamentali dell’UE, qualche mese più tardi, nel giugno dello stesso anno, Giorgia Meloni è finita nell’occhio del ciclone per aver contribuito a rimuovere ogni riferimento all’aborto dal comunicato finale del G7 che si è svolto dal 13 al 15 giugno 2024 in Italia a Fasano, in provincia di Brindisi, presso il resort Borgo Egnazia. Nel documento vengono delineati importanti impegni politici che i leader dei sette Paesi si impegnano a rispettare.
Nonostante Palazzo Chigi e la stessa presidente del Consiglio abbiano smentito che si sia trattato di un gesto ostativo nei confronti dell’interruzione volontaria di gravidanza, nel testo finale la parola “aborto” non c’è. Secondo alcuni documenti visionati da Euronews, nel periodo prima del vertice Francia e Canada avevano insistito per inserire nel comunicato prodotto durante il G7 una frase specifica in riferimento all’aborto che impegnava i leader presenti al vertice ad «affermare l’importanza di preservare e garantire un accesso effettivo all’aborto sicuro e legale e alle cure post-aborto». Ciò, sempre secondo quanto ricostruito da Euronews, avrebbe rafforzato le conclusioni concordate dal gruppo l’anno scorso in Giappone, che avevano garantito il pieno impegno dei leader per raggiungere una salute e diritti sessuali e riproduttivi completi per tutti, anche affrontando l’accesso all’aborto sicuro e legale e alle cure post-aborto. Questa richiesta, però, era stata contrastata dall’Italia e secondo il sito web Politico sarebbe stata Meloni stessa a chiedere di rimuovere i riferimenti all’interruzione volontaria di gravidanza. Nel comunicato finale, quindi, non si parla esplicitamente di aborto ma di «diritti sessuali e riproduttivi legati alla salute per tutti».
La storia di Linda Feki e l’analisi della situazione italiana dimostrano una cosa: nonostante le garanzie legali, in Italia la piena libertà di abortire resta un miraggio. Le barriere burocratiche, la mancanza di strutture adeguate, l’alto numero di obiettori di coscienza e le azioni ostative del governo rendono difficile per molte donne accedere ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza, rendendo questa pratica di difficile accesso per molte persone.