I disturbi del comportamento alimentare hanno poco di “alimentare” e tanto da raccontare - Facta
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I disturbi del comportamento alimentare hanno poco di “alimentare” e tanto da raccontare

di Marta Abbà

Per rientrare tra coloro che soffrono di disturbi del comportamento alimentare (DCA), sembra sia necessario essere giovani donne sottopeso. Si può rischiare di pensarla così, se ci si limita alla narrazione che ne fanno mediamente la TV, i giornali e i social. Ma tra i disturbi del comportamento alimentare non rientra solo l’anoressia nervosa. Dietro all’acronimo c’è un ampio gruppo di patologie che, da definizione del Journal of Psychopathology, comprende anche la bulimia nervosa, il binge-eating e altri vari disordini non altrimenti specificati e non per forza legati alla magrezza.

Se ci fosse sempre un evidente sintomo come l’estremo sottopeso, quando una persona soffre di questo tipo di disturbi, sarebbe più semplice riconoscerli e curarli. E invece la magrezza, lo specifica anche il ministero della Salute, non può essere considerata come marcatore unico e specifico: anche condizioni di normopeso e sovrappeso, fino all’obesità, possono essere associate alla presenza di disturbi del comportamento alimentare. 

L’anoressia nervosa nelle statistiche globali rappresenta una percentuale a una sola cifra delle persone che soffrono di DCA. Il resto della torta è composto da bulimia nervosa, binge eating e altri altri disturbi invisibili e sicuramente meno impattanti da sbandierare in prima pagina o sui social. Ma esistono, e non sono “di nicchia”, anzi, mostrano che i DCA non si manifestano solo con “estremi” di peso evidenti ma possono avere tante diverse sintomatologie e conseguenze. 

In Italia, secondo i dati riportati dall’Istituto Superiore della Sanità (ISS), la prevalenza dell’anoressia sarebbe dello 0.2-0.8 per cento con una incidenza di 4-8 nuovi casi per anno su 100 mila individui, mentre quella della bulimia di circa il 3 per cento, con 9-12 nuovi casi su 100 mila individui. 

Prima di entrare nel merito della varietà del fenomeno, va messo in luce il vero principale ostacolo alla sua comprensione. «Il problema è il termine stesso usato per definirli, decisamente fuorviante: ‘alimentari’ sono solo i sintomi, ma esprimono un dolore che ha ben poco di alimentare», ha spiegato a Facta Aurora Caporossi co-founder di Animenta, associazione che si occupa di DCA in Italia 

Un’altra criticità sono le associazioni con cui vengono spesso rappresentate le persone che soffrono di DCA. Come spiega a Facta la psicoterapeuta Anna Maria Speranza, spesso chi soffre di anoressia ed è in evidente sottopeso viene visto come una persona con una grande forza di volontà, un esempio di coerenza e tenacia nel perseguire un obiettivo. Allo stesso tempo, il suo aspetto magro rende esplicito ed evidente il pericolo che corre per la propria salute e spinge le persone a preoccuparsi e, a volte, anche a intervenire. «La bulimia è vista invece come mancanza di determinazione» aggiunge Speranza, «chi ne soffre viene considerato spesso una persona debole, che non ha voglia di fare. Se non è sottopeso, pochi si accorgono che la sua salute è a rischio e che è ugualmente necessario un percorso di cura adeguato».

La prima conseguenza di questa generalizzazione è l’errata percezione della gravità della condizione fisica in cui una persona che soffre di un DCA si può trovare. «La bulimia ha una incidenza di mortalità simile all’anoressia restrittiva, a causa per esempio dello squilibrio elettrolitico che induce e che può portare a un arresto cardiaco o per altre ragioni», continua Speranza. «Questa condizione spesso non si percepisce dall’esterno e rischia quindi di essere sottovalutata o ignorata». 

I rischi di raccontare in 2D un fenomeno multiforme 
Di fronte a tutte queste complessità, chi si trova a raccontare i DCA su media o social può rischiare di cedere alla tentazione di farne una narrazione univoca e limitata, usando solo un certo tipo di immagine e parlando solo dei sintomi legati all’alimentazione. È più semplice, ma non è corretto, ed è anche profondamente pericoloso sia per chi ci è dentro che per chi cerca di tirarlo fuori. E anche per chi è in bilico e non sa di esserlo. 

Un tempo esistevano due età di esordio tipiche: i 14 e i 18 anni. Oggi emergono casi anche nella fascia degli 8-10 anni come in quelle sopra i 30. Lo conferma il report dell’Osservatorio ABA – ISTAT: i DCA non hanno età e non hanno nemmeno sesso. C’è infatti anche una crescente percentuale maschile tra chi ne soffre, in accelerazione negli ultimi 10 anni, ma difficile da cogliere, e forse anche da accettare socialmente e intimamente, dato il forte attrito con l’immagine di “macho italiano” che molti ancora coccolano nelle retrovie del proprio inconscio. Il problema dell’intercellattarli secondo Speranza è anche il fatto che «spesso gli uomini chiedono aiuto molto tardi e mostrano segnali più legati ai muscoli e all’uso di lassativi o di altre sostanze, più che alla magrezza in senso stretto»

Continuare a raccontare i DCA “a senso unico”, assegnando un solo volto, un solo sesso e una certa fascia di età a un fenomeno appena mostrato essere di ampio spettro, «può compromettere il percorso di guarigione e ritardare la diagnosi» spiega Viviana Valtucci, dietista e psicologa specializzata nel trattamento dei disturbi alimentari, vicepresidente associazione ADEPO (Associazione di Dietetica e Psicologia per i disturbi alimentari). E spiega perché: «Non riconoscendosi nella narrazione fatta da media e social, si è indotti a pensare di non essere abbastanza malati per dover chiedere aiuto, per meritarlo. Oppure di non averne affatto bisogno».

Lo stesso meccanismo che allontana la possibilità di un percorso di cura, vale anche per chi sta accanto o incrocia – a scuola o in strada, in palestra o in ufficio – persone che hanno un problema di comportamento alimentare. «Se non sono magre come le figure con cui lo si rappresenta, possono faticare a riconoscere in loro la presenza di un disturbo rischiano di non capire che serve intervenire, oppure di chiedere aiuto a professionisti non specializzati o a farlo con un ritardo di anni», aggiunge Caporossi.

Anche il mondo della ricerca e della cura può essere in parte influenzato dall’appiattimento narrativo dei media che riducono i DCA alla giovane ragazza triste e sottopeso. Secondo Speranza è soprattutto dovuto al fatto che dagli studi statistici non emergono i dati reali e un fitto sottobosco di persone rimane nel buio.  

Quelli a disposizione si riferiscono infatti a persone che hanno già chiesto aiuto o sono in qualche modo entrate in contatto con servizi sanitari “istituzionali”, “ufficializzando” la propria condizione. Tutte le altre, quelle che seguono percorsi di cura diversi o che non ne seguono ma che hanno un problema che scaturisce in un comportamento alimentare scorretto, non si ha la più pallida idea di quante siano e dove. Di certo non nelle cifre che l’Istituto della Sanità riporta e che non colgono la possibile diffusione di queste problematiche. 

Ancora più spaventoso e più realistico è quello che emerge effettuando studi epidemiologici sui comportamenti delle persone legati al cibo, che hanno il vantaggio di mettere in luce anche alcune forme subcliniche o sottosoglia. «Tante sono emerse da circa 20-30 anni, non rispecchiano nelle definizioni cliniche di DCA ma sono espressione di sofferenza» racconta Speranza, «soprattutto negli adolescenti, possono rappresentare un segnale di inizio di un problema più grave». 

L’attuale impossibilità di rappresentare i DCA e di stimarne correttamente la diffusione demografica e geografica «non solo induce un’errata percezione del fenomeno ma impatta fortemente anche sull’organizzazione dei servizi sanitari, sulla stesura delle policy e sulla pianificazione di iniziative che rischiano di risultare poco efficaci o di parziale utilità» conclude l’esperta.

I DCA “raccontati male” fanno male a tutti
La TV spesso punta sulla “pornografia del dolore”, privilegiando le storie drammatiche che non rispecchiano la varietà delle situazioni effettivamente esistenti, secondo Caporossi. I social, d’altro canto, «si concentrano spesso solo sull’aspetto alimentare, sui sintomi, anche arrivando a mimare meccanismi malati o lanciare trend legati alla forma dei corpi o a cosa si mangia in un giorno».

Questa focalizzazione sul cibo e le diete rappresenta un problema non solo per chi soffre di DCA. Secondo la co-founder di Animenta «una scorretta divisione dei cibi in “healthy” e non, e l’idealizzazione dei corpi magri, unico simbolo dell’essere in forma e dello stare bene con sé stessi, nuoce a tanti. Anzi, la diet culture non fa bene a nessuno».

«Non siamo obbligati a farci bombardare dai social» aggiunge Valtucci, spiegando che possiamo educare l’algoritmo seguendo le associazioni di riferimento ed eliminando chi parla di DCA per vendere “soluzioni” illusorie: «per trattare questi disturbi seriamente serve un’equipe specializzata e multidisciplinare».

Descrivendoli come «coperture che mascherano sofferenze diverse», Speranza sottolinea come concentrarsi sul sintomo possa spingere anche chi li cura ad agire solo su quello, trascurando le vere cause e definisce rischioso rompere un meccanismo senza sapere quali nuove dinamiche si possano innescare, «ma volte manca la capacità di approfondire».

Raddrizzare la narrazione con tante storie
La facilità con cui si tende ad associare un certo sintomo sempre e solo a un certo problema ha un impatto forte anche sull’intera società: la induce a esprimere giudizi e ne limita le opportunità di conoscere e rapportarsi in modo corretto con i DCA. Spesso, secondo Speranza, si tende a pensare che un certo tipo sintomo nasconda sempre le stesse sofferenze. Ogni persona vive invece situazioni completamente diverse dalle altre, anche se all’esterno lo manifesta in modo uguale a un’altra. Anche quando il sintomo cambia, non è detto sia cambiato il problema alla base. Ogni persona ha una storia a sé, Speranza ci tiene a ribadirlo, facendo poi anche notare come le diagnosi categoriali che pongono l’attenzione solo sul peso, e non sulla sofferenza che c’è dietro, non siano affatto di aiuto. 

Aiutano però le storie, quelle vere e diverse l’una dall’altra, meglio se affiancate dal parere di professionisti. Animenta sul suo sito ne ha raccolte finora oltre 600 per rappresentare la complessità e la diversità dei disturbi alimentari e favorire una maggiore consapevolezza: non sono quelli che si vedono sui social o sui media. È così che l’associazione fondata da Caporossi intende contrastare il grosso e attuale problema di validità della rappresentazione dei DCA nella società. Ne mostra la varietà ospitando le voci e le esperienze di chi ne soffre o ne ha sofferto. E staccandosi totalmente dall’ambito alimentare e dai sintomi legati al cibo. 

«I corpi vanno tolti dalla narrazione, dando invece spazio a ciò che non si racconta mai» aggiunge, «la comunicazione dovrebbe essere incentrata attorno alla domanda: che impatto può avere il nostro contenuto su chi riceve il messaggio? Deve aiutare a conoscere correttamente questi disturbi a chi non li ha mai approfonditi. Non deve spingere a restare nel disturbo chi ne soffre, ma a chiedere aiuto».

RIFERIMENTI UTILI

Mappa dei servizi per la cura dei DCA e delle associazioni a cura del Ministero della Salute

Raccomandazioni per i familiari a cura del Ministero della Salute 

Linee di indirizzo nazionale per la riabilitazione nei disturbi dell’alimentazione del Ministero della Salute

Piattaforma per il contrasto alla malnutrizione in tutte le sue forme realizzata da Regione Umbria, finanziata dal Ministero della Salute 

Informazioni sui Centri DCA a cura di Animenta

Risorse e risposte utili a cura di Animenta

Numero Verde 

SOS DISTURBI ALIMENTARI 

800.180.969 

(Servizio anonimo e gratuito)

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