Kamala Harris è già finita al centro della stessa teoria razzista che ha perseguitato Obama - Facta
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Kamala Harris è già finita al centro della stessa teoria razzista che ha perseguitato Obama

di Leonardo Bianchi

A quasi un mese dal disastroso dibattito televisivo contro Donald Trump – e dopo le innumerevoli pressioni di media progressisti, membri del Partito Democratico e donatori – Joe Biden ha annunciato il ritiro della sua candidatura presidenziale con un post su X pubblicato il 21 luglio del 2024. In un altro post ha fatto sapere che sosterrà la vicepresidente Kamala Harris.

Lei stessa ha ringraziato il presidente e si è detta pronta a vincere la nomina a candidata del partito, che sarà sancita alla convention democratica che si terrà a Chicago tra il 19 e il 22 agosto. I risultati dovrebbero essere scontati, visto che già adesso ha il sostegno della maggior parte dei delegati.

La candidatura di Harris ha oggettivamente galvanizzato un partito impantanato sulla questione politica dell’età di Joe Biden, che stava drenando risorse ed energie. Come ha scritto il New York Times, «ora i democratici scorgono l’opportunità di riscattarsi [dalle] battaglie interne e da una corsa che sembrava indirizzata verso risultati catastrofici, dalla Casa Bianca fino a quelle nei singoli stati».

Il Partito Repubblicano – che stando a un lungo articolo della rivista The Atlantic aveva puntato tutto sullo scontro diretto con Biden, considerato un candidato debole – dovrà invece rivedere la sua strategia comunicativa e ricalibrare i propri messaggi.

Per ora la propaganda ufficiale dei repubblicani sta riciclando accuse già mosse nei confronti di Harris durante gli ultimi quattro anni: quelle cioè di essere un’incompetente, di avere posizioni estremiste (mentre in realtà è piuttosto moderata) e di avere un atteggiamento frivolo o fuori luogo. A tal proposito, Donald Trump in un recente comizio l’ha definita «Laughing Kamala» (traducibile come «Kamala sghignazzante»), dicendo che ha una risata «da pazza».

Nei circuiti estremisti, complottisti e trumpiani – attivi soprattutto sui social network – sono invece tornate in auge notizie false e teorie del complotto di vario tipo.

Su X, l’influencer trumpiana Laura Loomer ha scritto che Harris «non è una nera» ma una «indiano-americana che finge di essere nera per rientrare a forza nella quota DEI democratica» (DEI è l’acronimo di «diversità, equità e inclusione»). Non è così: la vicepresidente ha spiegato in più occasioni – tra cui nella sua autobiografia – che si identifica come donna nera e sud-asiatica, in ossequio alle origini giamaicane del padre e indiane della madre.

Altri utenti su X hanno affermato che Kamala Harris sarebbe in realtà un uomo libico di nome «Kamal Aroush». Questa tesi misogina e omolesbobitransfobica gira da tempo, e fa parte del più ampio filo complottista dell’«inversione di genere delle élite» che ha colpito – tra le varie – Michelle Obama, Brigitte Macron e Begoña Gomez (moglie del premier spagnolo Pedro Sánchez).

La teoria falsa che sta riscontrando più successo, almeno a livello di interazioni e visualizzazioni, è però un’altra: Harris non può candidarsi alla presidenza perché non sarebbe una vera cittadina statunitense, visto che entrambi i suoi genitori sono stranieri.

Anche in questo caso non siamo di fronte a una novità: se ne era parlato già nella sua campagna presidenziale del 2020. In generale, poi, questa speculazione rientra nel cosiddetto «birtherism» (da «birth», nascita) – una corrente complottista che punta a negare la legittimità di alcuni candidati presidenziali mettendo in dubbio la loro cittadinanza.

I precedenti: da Chester A. Arthur a Barack Obama
Anzitutto, l’articolo 2 della Costituzione degli Stati Uniti richiede che il presidente abbia almeno 35 anni di età, sia residente nel paese da almeno 14 anni e sia nato negli Stati Uniti (l’espressione specifica è «natural born Citizen»). Come prevede il 14esimo emendamento, approvato dopo la fine della guerra civile per garantire eguali diritti alla popolazione nera, viene legalmente considerato un cittadino chiunque «nasce o è naturalizzato negli Stati Uniti».

I criteri costituzionali, insomma, sono piuttosto chiari. Tuttavia, nella storia ci sono stati diversi precedenti assimilabili all’odierno «birtherism». Nel 1881, ad esempio, girava la voce che Chester A. Arthur – che poi diventerà il 21esimo presidente degli Stati Uniti – non fosse candidabile perché sarebbe nato in Canada, e non nello stato del Vermont.

Durante la campagna elettorale del 1916, il politico nativista Breckinridge Long – assistente del presidente democratico Woodrow Wilson – aveva detto che il candidato repubblicano Charles Evans Hughes non era candidabile perché, pur essendo nato negli Stati Uniti, suo padre non era un cittadino statunitense.

E ancora: nel 1968 le speculazioni sulla candidabilità avevano riguardato il candidato alle primarie repubblicane George Romney (padre del senatore repubblicano Mitt Romney), visto che era nato in Messico da genitori statunitensi.

La vicenda più nota è sicuramente quella che ha coinvolto Barack Obama. A partire dalle primarie democratiche del 2008, su Internet e negli ambienti ultraconservatori erano circolate speculazioni sul fatto che l’ex presidente non fosse nato alle Hawaii ma in Kenya, e che la sua candidatura – e poi presidenza – fosse illegittima.

La teoria del complotto, come ha puntualizzato il giornalista Adam Serwer su The Atlantic, si accompagnava a una seconda tesi infondata: ossia che Obama fosse segretamente un musulmano e intendesse trasformare gli Stati Uniti in una nazione islamica.

Nulla di tutto ciò era vero; ma la teoria si era comunque diffusa a macchia d’olio nella base repubblicana (circa il 30 per cento non credeva che Obama fosse nato negli Stati Uniti), ed era esplosa quando Donald Trump – che all’epoca era ancora lontano dalla candidatura – l’aveva rilanciata su Fox News nella primavera del 2011.

Per cercare di fermare le speculazioni una volta per tutte, la Casa Bianca aveva diffuso il certificato di nascita integrale che dimostrava in modo inoppugnabile che Obama era nato nelle Hawaii. Nonostante ciò, il sospetto su Obama non si è mai dissipato del tutto e il «birtherism» è diventato parte integrante del trumpismo.

Lo stesso Trump, durante le primarie repubblicane del 2016, ha accusato il rivale Ted Cruz di non essere candidabile perché è nato in Canada da madre statunitense.

Il «birtherism» 2.0 su Kamala Harris
Arriviamo dunque a Kamala Harris. Nell’agosto del 2020 l’avvocato e professore repubblicano John Eastman – considerato uno degli architetti dell’assedio al Congresso – ha pubblicato un controverso editoriale su Newsweek in cui metteva in dubbio la candidabilità di Harris, che all’epoca era stata appena nominata vicecandidata da Biden.  

Per Eastman, la Costituzione non prevederebbe uno ius soli illimitato. E siccome i genitori di Harris non erano cittadini statunitensi al momento della nascita della figlia, quest’ultima sarebbe stata sottoposta all’autorità giuridica di due paesi stranieri – la Giamaica e l’India – e quindi non avrebbe potuto acquisire automaticamente la cittadinanza statunitense.

Sin dal giorno della pubblicazione, l’articolo di Eastman è stato usato dagli ambienti più estremisti per attaccare Harris. E non a caso, è stato immediatamente citato da Donald Trump. In una conferenza stampa, l’allora presidente aveva detto ai cronisti di «aver sentito che [Harris] non ha tutti i requisiti [per candidarsi]. Non so se è così, ma mi auguro che i democratici abbiano fatto le loro verifiche prima di sceglierla come vicepresidente».

Come hanno spiegato diversi giuristi, la teoria di Eastman giuridicamente e costituzionalmente non ha alcun senso. Dal punto di vista politico, però, ne ha eccome: serve a screditare Harris, minare le basi legali dello ius soli (uno degli obiettivi di Trump) e, soprattutto, fornire una giustificazione intellettuale a posizioni apertamente razziste.Il sottotesto di questa forma di «birtherism 2.0» è anche più subdolo della versione originaria, che si fondava su una circostanza falsa e inventata. Qui invece si usano argomentazioni apparentemente più raffinate per sostenere che una donna nera e sud-asiatica, nata da genitori stranieri, non può essere una cittadina statunitense al 100 per cento. In qualche modo è una cittadina di serie B, e in quanto tale non può assolutamente aspirare a ricoprire un incarico politico di seconda fascia – figuriamoci la presidenza degli Stati Uniti. 

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