La narrazione distorta sulle occupazioni abusive
Di Anna Toniolo
L’11 settembre la Camera ha dato il via libera in prima lettura al ddl sicurezza voluto dal governo che all’articolo 10 introduce nell’ordinamento il nuovo reato di «occupazione arbitraria di un immobile destinato a domicilio altrui», prevedendo il carcere da due a sette anni per chi commette il reato.
Questa decisione ha rimesso al centro del dibattito un tema tornato in auge a partire dallo scorso 23 giugno, quando la neoeletta eurodeputata di Alleanza Verdi-Sinistra Ilaria Salis aveva pubblicato un post su Instagram in cui scriveva che «chi entra in una casa disabitata prende senza togliere a nessuno, se non al degrado, al racket e ai palazzinari».
Molti utenti dei social network sostengono che chi occupa le case si appropri indebitamente delle proprietà di persone anziane che si allontanano dalla propria abitazione per brevi periodi, ad esempio per andare a fare la spesa o a causa di ricoveri ospedalieri. Questa narrazione è attivamente sostenuta anche da una parte dell’informazione italiana e si fonda su presupposti aneddotici e casi isolati, ma non è supportata da dati reali.
La realtà è infatti un po’ più complessa e il fenomeno delle occupazioni abusive è legato principalmente al numero di edifici pubblici e privati sfitti, oltre che all’incapacità di molte persone di pagare un alloggio in affitto o in vendita.
Le occupazioni abusive hanno a che fare con le case sfitte
«Io sono contro le occupazioni abitative perché penso che alimentino una guerra tra poveri» ha spiegato a Facta Stefano Chiappelli, segretario generale di Sunia, organizzazione degli inquilini privati e degli assegnatari di edilizia pubblica, aggiungendo che però questo fenomeno esiste e non è possibile non considerarne le ragioni. In particolare Chiappelli ha sottolineato che nelle grandi aree urbane e metropolitane «è un fenomeno che non si è voluto affrontare a monte» perché non si fa niente per non lasciare sfitti gli alloggi.
Nonostante liste d’attesa infinite, infatti, su un totale di quasi 770 mila alloggi ERP, cioè di edilizia residenziale pubblica, gli alloggi sfitti in Italia sono oltre 60mila e quelli occupati abusivamente più di 16mila. Questo secondo le stime di Federcasa, l’associazione che riunisce le ottantaquattro aziende che in Italia gestiscono gli alloggi popolari, mentre la politica – da Matteo Salvini al Partito Democratico – parlano di 90 mila case popolari attualmente inutilizzate. Stime, appunto, perché sul tema non esiste alcun registro ufficiale.
Il fenomeno delle occupazioni abusive, sempre secondo Chiappelli, è presente principalmente nelle grandi città e nelle grandi aree metropolitane, dove «il disagio abitativo è pesante e forte e dove mancano le risposte da parte del governo e delle istituzioni». A occupare abusivamente, infatti, sono in molti casi persone o famiglie che vivono con difficoltà economiche, che non hanno un luogo dove vivere o in assenza di alternative disponibili. Una parte delle occupazioni è controllata da racket criminali che si sostituiscono alle autorità pubbliche e lucrano distribuendo appartamenti vuoti in condizioni fatiscenti, certo, ma si tratta di situazioni meno comuni, che non fotografano esaustivamente la realtà del fenomeno.
Quando nel 2017 l’allora sindaca di Roma Virginia Raggi avviò un’indagine sul fenomeno delle occupazioni nella capitale, si scontrò con l’assenza di un catasto degli immobili occupati. Come spiega il sito dell’Associazione nazionale dei comuni italiani, comunque, questi erano perlopiù alloggi pubblici e solo una minima parte di questi appartenevano a privati. Oggi come allora, lo scenario di chi prova a mettere in ordine i dati sulle occupazioni abusive è tutto fuorché roseo: nessun dato certo sul numero di immobili occupati, nessuna informazione circa la natura degli immobili – impossibile dunque sapere se al momento dell’occupazione le case fossero piene oppure no – e buio pesto anche sui proprietari degli immobili o precedenti inquilini.
In questo blackout informativo tutto ciò che resta sono le testimonianze di natura aneddotica, lunghi servizi dai toni emergenziali e interviste ad anziani che hanno visto la propria casa occupata da un giorno all’altro dopo essere usciti a fare la spesa. Casi reali, certo, ma che non fotografano correttamente un fenomeno costellato anche di alloggi sfitti, abbandonati o fatiscenti e liste d’attesa che non funzionano. E che rischia, soprattutto, di far dimenticare il contesto in cui tutto questo avviene, quello di una crisi abitativa che sta escludendo una larga parte della popolazione dal diritto di avere una casa.
La battaglia contro le occupazioni abusive intrapresa dal governo Meloni ha fin qui prediletto l’approccio securitario e, come abbiamo visto, arriva principalmente sull’onda dell’emotività e senza il sostegno di dati certi. È arrivato il momento di parlare delle cause profonde di una crisi abitativa che si sta prendendo tutto.
La crisi abitativa è reale
Diminuzione del potere d’acquisto dei salari, carenza di alloggi a prezzi accessibili, ma anche inflazione e aumento del costo della vita sono tra i fattori che alimentano quella che viene chiamata “crisi abitativa”. In Italia le famiglie che vivono sotto la soglia di povertà sono in aumento, ma lo sono anche i prezzi degli affitti e delle case, il numero degli sfratti e le locazioni destinate ai turisti, soprattutto nelle grandi città.
La crisi abitativa, secondo gli esperti, ma soprattutto secondo i dati, è reale e tangibile nel nostro Paese ed è una questione sfaccettata e complessa. «Ogni giorno si accresce il disagio abitativo» ha dichiarato a Facta Stefano Chiappelli, segretario generale di Sunia, evidenziando come si tratti di «una crisi permanente, che ormai ci portiamo dietro da decenni». Eppure, in molte occasioni, il dibattito sul diritto alla casa manca di considerare il quadro nella sua complessità, dimenticando una serie di problematiche e dinamiche legate alla disponibilità, all’accessibilità e alla qualità delle abitazioni, riempiendo invece di luoghi comuni la discussione.
Affitti, case di proprietà, costi e povertà: una situazione che parla chiaro
Il 6 settembre 2022 l’Istat ha presentato una relazione che espone e spiega alcune delle principali dimensioni della disuguaglianza abitativa in Italia. I dati forniti mettono in luce e confermano che il problema della casa è una questione di grande criticità per una parte significativa della popolazione. Inoltre, evidenziano come alcune condizioni sociali o di fragilità siano fortemente correlate alla possibilità di vivere in situazioni precarie, alle difficoltà nel mantenere il proprio alloggio e alla capacità di superare una condizione di emergenza abitativa.
Il resoconto mostra che per alcune categorie sociali e gruppi di cittadini, come le famiglie monoparentali, le famiglie di origine straniera e le giovani coppie, le difficoltà nel trovare e acquistare un’abitazione sono in crescita. Questo è dovuto principalmente alla richiesta di garanzie che sono spesso molto difficili o addirittura impossibili da fornire, nonché alla difficoltà di accedere a case in affitto a prezzi sostenibili, a causa della scarsità di opzioni di edilizia pubblica e di abitazioni a canone concordato o altre forme di agevolazione.
Secondo i dati riportati da Istat, nel 2021 in Italia 42,7 milioni di persone (cioè il 72,5 per cento del totale) vivevano in case di proprietà, mentre 11,8 milioni (il 20 per cento) viveva in affitto e 4,4 milioni di persone (il 7,6 per cento) in usufrutto o in case a uso gratuito. Le percentuali riferite al 2023, rilevate sempre dall’Istituto di statistica, sono simili, con il 19,4 per cento delle persone che vive in affitto e l’80,6 per cento che risiede, invece, in una casa di proprietà.
Nonostante la tradizione italiana di possedere un immobile sia molto forte, i dati mostrano che l’affitto rimane la forma abitativa prevalente per le famiglie a basso reddito, con il 32 per cento dei nuclei appartenenti al primo quintile, cioè nel 20 per cento più basso per reddito o benessere rispetto alla popolazione totale, che vive, appunto, in affitto. Questa percentuale, invece, si abbassa man mano che il reddito aumenta, arrivando all’11,3 per cento per le famiglie che rientrano nell’ultimo quintile, cioè quelle con il reddito più alto.
Il legame tra reddito, povertà e condizioni abitative è molto stretto. L’incidenza di povertà assoluta, cioè le famiglie e le persone che non possono permettersi le spese minime per condurre una vita accettabile, varia infatti anche a seconda del tipo di casa in cui si abita, ad esempio se è di proprietà o in affitto. Nel 2022 l’Istat ha contato oltre 983 mila famiglie povere in affitto, pari al 45 per cento del totale delle famiglie in condizioni di povertà. L’incidenza della povertà assoluta tra queste famiglie è stata del 21,2 per cento, a fronte del 4,8 per cento di chi vive in una casa di proprietà ed entrambi questi valori sono maggiori rispetto all’anno precedente.
A peggiorare queste condizioni di diseguaglianza si inserisce anche il continuo aumento dei canoni che, secondo l’Osservatorio affitti di Immobiliare.it, a fine febbraio 2024 erano cresciuti del 10,1 per cento rispetto all’anno precedente. Per Antonio Intini, responsabile dello sviluppo del business di Immobiliare.it, i dati raccolti dall’Osservatorio evidenziano quanto il mercato delle locazioni in Italia sia in costante crescita. Intini ha dichiarato che «in un contesto di difficile congiuntura economica come quello che stiamo vivendo, con prezzi di vendita che non mostrano segni di arresto e tassi ancora alti seppur in calo, comprare casa diventa una scelta meno accessibile», aggiungendo che da questa situazione deriva una marcata predilezione per gli affitti, «che comportano meno vincoli e più flessibilità rispetto a un acquisto».
In queste condizioni l’accesso al mercato abitativo risulta un percorso in salita, costellato da notevoli difficoltà e non sempre accessibile per tutti.
L’incursione delle locazioni turistiche
A complicare la situazione si inserisce anche un trend che sta prendendo sempre più piede nella maggior parte delle grandi città in Italia, ma non solo: l’utilizzo delle case per locazioni di breve periodo. Negli ultimi anni la mancanza di una vera e propria regolamentazione del settore ha portato un numero crescente di privati ad affittare le proprie case ai turisti, togliendole così dal mercato degli affitti di lungo periodo, diventando «una parte preponderante tra gli elementi che creano il disagio abitativo», come ha spiegato a Facta il Segretario generale di Sunia Stefano Chiappelli.
A livello globale l’offerta di affitti brevi nel 2023 è cresciuta del 24 per cento rispetto all’anno precedente e anche in Italia il mercato è molto attivo, collocando il Paese al terzo posto dopo Stati Uniti e Francia per numero di unità immobiliari proposte in affitto breve su Airbnb. Il Centro studi Aigab, Associazione italiana affitti brevi ha rilevato che su 35 milioni di appartamenti residenziali nel nostro Paese sono 9,6 milioni le seconde case non utilizzate, e di queste solo 640 mila sono poste in affitto breve tramite annunci online.
Nonostante secondo Aigab il numero non sia così elevato, il problema principale di questo tipo di locazioni è il fatto che manca una regolamentazione chiara. Mentre le amministrazioni di città come Barcellona hanno iniziato a porre limiti al numero di licenze concesse per questo tipo di affitti, in Italia mancano regole definite che rendano davvero possibile controllare la proliferazione di questa tipologia di locazioni. Inoltre, i Comuni non hanno potere di legiferare su questo tema e molte amministrazioni locali chiedono di poter avere il controllo su questo tipo di competenze, in quanto ogni città è diversa e può gestire la situazione con strumenti e modalità differenti. Secondo Chiappelli è fondamentale che decidano i Comuni come regolamentare gli affitti brevi, in base «alla condizione abitativa, al numero di famiglie che sono in graduatoria per l’edilizia popolare, al fabbisogno abitativo» e ad altri elementi che compongono la fotografia del disagio abitativo in quello specifico luogo.
Uno dei casi italiani più esemplificativi è sicuramente la città di Venezia la cui popolazione è passata da oltre 360 mila abitanti nel 1970 a 252 mila nel 2023, dove a soffrire di più è il centro storico con le isole di Murano e Burano. Nel 2023, infatti, il numero dei posti letto per turisti ha superato quello dei residenti e dal 1997 al 2022 questa zona di Venezia ha perso in media 2,4 residenti al giorno a fronte di una crescita di 4,8 posti letto. Secondo Ocio, Osservatorio civico sulla casa e sulla residenza di Venezia, nel 2023 quasi due terzi, cioè il 64 per cento, dei posti letto dell’offerta ricettiva di Venezia, Murano e Burano era in strutture non alberghiere come locazioni turistiche, ostelli, bed and breakfast e simili e gli alloggi privati costituivano la quasi totalità delle strutture ricettive di Venezia insulare.
Sono aumentati gli sfratti
L’aumento del numero di famiglie in difficoltà economica che vive in affitto, la situazione legata alle locazioni turistiche e il disagio abitativo in generale sono strettamente collegati al fenomeno degli sfratti.
Secondo i dati del ministero degli Interni, nel 2022 gli sfratti esecutivi, cioè una procedura legale volta a liberare un locale affittato, sono stati più di 30mila su quasi 42 mila provvedimenti emessi. Questi numeri hanno fatto segnare un aumento annuo enorme rispetto all’anno precedente, con un incremento del 218,60 per cento. Antonio Mumolo, presidente dell’associazione Avvocato di strada, ha spiegato a Facta che è sicuramente importante guardare all’aumento del numero di sfratti per morosità, cioè che avvengono per mancato pagamento del canone di affitto alle scadenze, ma anche all’incremento esponenziale di quelli che avvengono per finita locazione. «E questo avviene principalmente perché i proprietari» ha chiarito Mumolo, «non solo nelle grandi città, tendono ad affittare le case per affitti brevi, perché frutta molto di più dell’affitto a famiglie o studenti». Questa situazione aumenta inevitabilmente le difficoltà che le persone che si trovano senza casa devono affrontare, considerando, inoltre, che in Italia solo il 4 per cento del patrimonio abitativo è in mano pubblica, contro il 36 per cento dei Paesi Bassi, ad esempio, o il 20 per cento della medie dell’Unione europea.
Il risultato è che da un lato si registra un numero sempre maggiore di sfratti, e quindi di famiglie in stato di grave emergenza abitativa, dall’altro lato l’offerta di edilizia residenziale pubblica si è ridotta negli anni e lo Stato non riesce a rispondere alle esigenze del sempre maggior numero di persone che si trova impossibilitata, per un motivo o per un altro, ad avere un tetto sopra la testa. La situazione dell’edilizia pubblica prevede lunghi tempi di attesa per la pubblicazione delle graduatorie e per l’assegnazione degli alloggi, a fronte di un fabbisogno abitativo stimato dagli Enti Gestori in almeno 600 mila unità immobiliari.
Una serie di fattori, quindi, che alimentano quella che viene chiamata crisi abitativa, ma che in pratica è l’impossibilità di interi gruppi di persone di accedere a un diritto fondamentale: quello alla casa.