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Se la tua allergia è peggiorata la colpa è anche del cambiamento climatico

di Antonio Scalari

“Anticipo di primavera”. Sono parole che suoneranno dolci alle orecchie di tanti. L’espressione trasmette l’idea di un insperato e inatteso assaggio di “bel tempo”, la sensazione che i rigori dell’inverno siano ormai agli sgoccioli. Nella mentalità collettiva permane una sorta di cronoprogramma stagionale, per il quale l’arrivo della primavera è un evento atteso con trepidazione.

Fino a non tanti decenni fa, quando l’inverno era davvero inverno, non si vedeva l’ora che il freddo finisse. Non la vediamo tuttora, nonostante il fatto che gli inverni somiglino sempre più a lunghi autunni. Dunque, “anticipo di primavera” sembra ancora una bella notizia.

Ma nell’era del cambiamento climatico il significato di queste parole è completamente cambiato. Ne sanno qualcosa gli agricoltori, per i quali il procedere delle stagioni è ancora un riferimento naturale fondamentale, oggi come cent’anni fa. Per il settore agricolo un anticipo di primavera può essere sinonimo non di gite fuori porta, ma di raccolti danneggiati o, peggio, distrutti.

Alcune correlazioni
Sono scenari che si stanno ripetendo con sempre maggiore frequenza negli ultimi anni. Secondo l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del CNR, il febbraio del 2024 –  di fatto, l’ultimo mese invernale – è stato il più caldo registrato, anche in Italia. L’aumento della temperatura globale sta cambiando il volto delle stagioni e l’anticipo della primavera ne è un esempio. Si tratta di un fenomeno di cui, con un po’ di attenzione, potremmo accorgerci con i nostri stessi occhi, perché tra i suoi effetti più visibili ci sono quelli fenologici, che hanno a che vedere con il ciclo vegetale delle piante.

La fenologia vegetale studia le fasi dello sviluppo delle piante. Pur essendo determinata geneticamente, la sequenza degli stadi di crescita di un organismo vegetale è sensibile all’ambiente e i fattori climatici modulano la velocità con cui avviene questo sviluppo. Ci sono ormai segni lampanti che il cambiamento climatico abbia già modificato la fenologia di alcune piante, sia di interesse agricolo ed economico, come la vite, sia rilevanti per la salute umana. Come quelle che causano allergie. 

In Europa le piante della famiglia delle Poaceae, note a tutti come graminacee, sono la causa principale di reazioni allergiche scatenate dal polline rilasciato nell’aria. Tra i pollini più allergenici figurano anche quelli della betulla, dell’ulivo e del cipresso. Negli ultimi decenni è diventato un problema allergologico la diffusione dell’ambrosia (Ambrosia artemisiifolia), una specie considerata invasiva.

Più di uno studio ha dimostrato che la stagione pollinica di diverse piante sta cambiando, dalla sua data di inizio a quella di termine, passando per il suo picco. Nel complesso la stagione si è allungata. Una ricerca pubblicata nel 2019 ha esaminato 17 località sparse nell’emisfero settentrionale della Terra, Italia compresa, dimostrando che in 12 di queste si è verificato un aumento significativo dell’accumulo di polline stagionale e in 11 un allungamento della durata della stagione pollinica. Per gli esperti si tratta di una «chiara correlazione positiva tra il recente riscaldamento globale e l’aumento della durata stagionale e della quantità di polline per molte specie vegetali allergeniche».

Manifestazioni locali di questa correlazione si stanno ormai accumulando da anni. Già nel 2010 uno studio realizzato nel ponente ligure si era concentrato sull’evoluzione della stagione pollinica di alcune specie vegetali tra il 1981 e il 2007, scoprendo che si era verificato un progressivo aumento della durata delle stagioni dei pollini di Parietaria (ben 85 giorni), ulivo (18 giorni) e cipresso (18 giorni), con un anticipo generale del loro inizio. Il carico pollinico complessivo era aumentato, ad eccezione delle graminacee. Emergeva inoltre un dato eloquente: le percentuali di persone allergiche al polline erano aumentate nel corso degli anni, ma quella dei soggetti sensibili agli acari della polvere appariva stabile.

In uno studio più recente, pubblicato sulla rivista The Lancet, altri esperti hanno riportato che gli indicatori della stagione pollinica di almeno tre specie vegetali – betulla, ontano e ulivo –  mostrano la traccia del cambiamento climatico. L’aumento delle temperature tra il 1981 e il 2020 ha causato un anticipo di dieci, venti giorni dell’inizio della stagione.

Le prove sembrano ormai chiare.

Un futuro sempre più allergico
Ormai possiamo dirlo: il cambiamento climatico è un problema anche per la salute respiratoria – riniti, sinusiti, asma – e non è il suo unico impatto negativo sulla salute umana. Cosa ci riserva, dunque, il cambiamento climatico nei prossimi decenni per quanto riguarda questo problema?

Nel 2017 alcuni ricercatori avevano fatto qualche calcolo, provando a quantificare l’impatto diretto sulla salute umana dell’aumento della temperatura sulla diffusione di allergeni vegetali. Lo hanno fatto prendendo come caso di studio l’ambrosia. Si tratta di una specie che presenta due profili di interesse dal momento che non è solo una pianta allergica, ma anche, come già ricordato, invasiva.

Secondo queste stime, la sensibilizzazione allergica all’ambrosia nella popolazione europea potrebbe raddoppiare entro il 2041-2060, passando da 33 a 77 milioni di persone. L’aspetto interessante di queste proiezioni è che, nel caso dell’ambrosia, questa tendenza sarebbe anche il risultato dell’espansione della sua area di diffusione.

Come per altri impatti del cambiamento climatico, anche la sua influenza futura sulla biologia di specie vegetali importanti per noi umani dipenderà anche da ciò che faremo per contenerlo. Ma ciò che si sta verificando dovrebbe farci riflettere sulla profondità e la complessità degli impatti ecosistemici che abbiamo provocato. 

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