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Continuare a parlare di “maschicidi” non lo renderà un fenomeno reale

Ogni 25 novembre riemerge la narrazione che mira a a squalificare la causa del contrasto alla violenza di genere. I dati Istat, come sempre, la smentiscono

25 novembre 2024
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Come ogni anno, la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne porta con sé il consueto carico di disinformazione che, camuffata da “controinformazione”, prova a squalificare la causa del contrasto alla violenza di genere. La parola d’ordine più diffusa in questi casi è sempre la stessa: maschicidio. Una narrazione che in Italia è stata cavalcata anche da testate giornalistiche locali, nazionali e trasmissioni televisive, ma che descrive una dinamica semplicemente inesistente.

Perché serve parlare dei femminicidi

La parola “femminicidio” ha una definizione complessa, che non ha equivalenti nel caso di donne che uccidono uomini. Il primo uso documentato del termine è stato ritrovato in un libro del 1802 scritto da John Corry e intitolato “A Satirical View of London at the Commencement of the Nineteenth Century”, dove la parola inglese “femicide” veniva usata per riferirsi a una precisa fattispecie di crimine, cioè l’uccisione di una donna. Fu solo nella seconda metà del ‘900 che lo stesso termine fu reintrodotto pubblicamente. La criminologa Diana H. Russell, infatti, nel 1976 usò la parola “femminicidio” presso il Tribunale internazionale dei crimini contro le donne per attirare l’attenzione sulla violenza di genere, e nel 1992 il termine comparve nel suo libro intitolato “Femicide: The Politics of woman killing” per indicare le uccisioni delle donne da parte degli uomini per il fatto di essere donne.

Attraverso l’utilizzo di questa nuova categoria criminologica, Russell ha dato un nome alla causa principale degli omicidi nei confronti delle donne: una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna perché donna. Secondo quanto formulato dalla criminologa, infatti, il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine.

Il termine è poi evoluto e nella sua accezione più moderna indica una forma di estrema brutalità che trova il suo fondamento nella violenza misogina e sessista dell’uomo radicata nelle nostre società. La casistica dei femminicidi è talmente vasta che, negli anni, è stato possibile definire le coordinate di un meccanismo che si ripete in modi sempre simili: donne uccise in quanto tali. L’antropologa messicana Marcela Lagarde ha definito il “femminicidio” come la forma estrema della violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato.

Nadia Somma, consigliera nazionale di D.i.Re, Donne in rete contro la violenza, gruppo di organizzazioni italiane che gestiscono centri antiviolenza e case rifugio per donne che hanno subito violenza, ha spiegato a Facta che «quando si parla di “maschicidio” si fa un’operazione manipolativa in mala fede, per depotenziare il concetto di “femminicidio” e far intendere alle persone che c’è un’assoluta simmetria nella violenza tra uomini e donne».

Somma, inoltre, ha aggiunto che non è possibile comparare i due termini poiché quando un uomo viene ucciso si parla di omicidio – e dunque non di “maschicidio” – poiché un uomo «non viene mai ucciso per motivi legati a una disubbidienza, al dominio della madre di famiglia o della moglie» come invece accade nel caso dei “femminicidi” in cui le donne sono soggette al dominio del padre, della famiglia, o del marito. Le uccisioni dei mariti da parte delle mogli sono «quasi sempre legate a motivi di interesse economico», ha sottolineato, in quanto non esiste un dominio dei corpi maschili da parte delle donne.

Infine, sempre secondo la consigliera nazionale di D.i.Re, «non è possibile parlare di “maschicidio” contrapponendolo al “femminicidio”» perché quest’ultimo concetto è legato a un contesto di asimmetria e disparità millenaria tra uomini e donne, che ha fatto sì che gli uomini avessero dalla loro parte leggi, consuetudini e approvazione sociale quando controllavano i corpi femminili e soprattutto le donne della famiglia, cosa che al contrario non è mai avvenuta. «Noi non veniamo da una cultura dove c’è stato un dominio di donne sui corpi maschili» ha concluso Somma, «dove c’erano leggi che scusavano la violenza delle donne sugli uomini, come è successo invece al contrario».

Dati a confronto

Il termine “femminicidio” connota dunque una violenza che ha radici culturali profonde, che affonda in un contesto di sopraffazione sistematica e largamente accettata. Un corrispettivo maschile di questa parola non può esistere, semplicemente perché non esiste un corrispettivo di questa dinamica a parti invertite. A dirlo sono i dati.

Nonostante la legislazione italiana non contempli ancora una chiara definizione di “femminicidio” – e il numero di casi accertati differisca dunque in base al soggetto rilevatore e ai criteri di classificazione seguiti – dal 2019 Istat ha iniziato a usare apertamente questo termine nei suoi rapporti. Secondo l’ultimo report di Istat, pubblicato il 20 novembre 2024 ma riferito all’anno 2023, le vittime di omicidio in Italia sono state in tutto 334, 117 donne e 217 uomini. Vengono uccisi più uomini che donne, dunque, la differenza sta nelle motivazioni e nel genere dell’omicida.

Dati Istat

Le donne uccise da partner o ex partner nel 2023 sono state in tutto 63, in 61 di questi casi l’omicida è stato un uomo. Sono 31 le donne uccise da un altro parente, 2 le donne uccise da un conoscente con movente passionale. In totale si tratta di 96 femminicidi presunti su 117 omicidi con una vittima donna.

Nel 2023 gli uomini uccisi da partner o ex partner sono stati 6 su 217, tutti uccisi da donne. Sono 40 gli uomini uccisi dai parenti, 37 dei quali sono stati assassinati da altri uomini.

I dati, insomma, evidenziano chiaramente l’esistenza di una fattispecie che riguarda le donne assassinate nell’ambito della coppia, in quello familiare o “passionale”, come viene definito in gergo, e di uomini che uccidono le donne in quegli stessi ambiti. Parliamo di 96 casi su 117 omicidi complessivi. È ciò che viene definito “femminicidio”. Gli stessi dati ci dicono che gli uomini uccisi dalle donne in quegli ambiti sono 9 su 217. Per questo motivo non esiste una dinamica che possa essere definita “maschicidio”.

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