Domenica 15 agosto 2021, i miliziani del gruppo radicale islamista dei talebani hanno completato la conquista dell’Afghanistan, prendendo il controllo della capitale Kabul e chiudendo ufficialmente un esilio durato quasi vent’anni, che era iniziato nel 2001 con l’operazione Enduring Freedom (Libertà duratura) guidata dagli Stati Uniti dell’allora presidente George W. Bush.
Quando nel novembre del 2001 lasciarono Kabul, i talebani erano terrorizzati all’idea che l’accesso a internet potesse aprire l’Afghanistan alla corruzione e all’immoralità dell’Occidente, al punto da averlo reso illegale in tutto il Paese durante il loro regime. Venti anni più tardi, l’organizzazione islamista è tornata al potere con un volto profondamente diverso e tra i primi segnali di discontinuità c’è proprio internet, divenuto nel tempo uno strumento efficace per dispiegare la propaganda di regime.
Come già sperimentato nel 2014 dallo Stato Islamico, la viralizzazione delle operazioni militari e l’utilizzo consapevole dei social network hanno permesso ai talebani di relazionarsi con i media stranieri e di cercare il consenso tra la popolazione civile. Adesso i talebani controllano fino in fondo la propria comunicazione e la disinformazione sembra essere una delle armi più raffinate del loro arsenale.
Una strategia studiata nel tempo
Come ha rivelato una recente analisi condotta dal centro studi americano Atlantic Council, l’apparato comunicativo dei talebani non è stato improvvisato da un momento all’altro, ma è il frutto di un percorso iniziato all’indomani della sconfitta militare del 2001. Al tempo l’organizzazione islamista non aveva ancora sviluppato una presenza sul web, ma la sua agenda mediatica si focalizzò ben presto sulla delegittimazione della presenza americana in Afghanistan e del governo sostenuto dalle forze atlantiche.
L’iniziale ritrosia per il web era anche dettata dalle condizioni oggettive nelle quali i talebani avevano lasciato l’Afghanistan, che all’alba del nuovo millennio era un Paese prevalentemente rurale e scarsamente alfabetizzato. Lo strumento propagandistico più efficace era allora quello che poteva essere fruito dalla più vasta fetta di popolazione possibile, nel caso specifico le shabnamah (missive consegnate di notte, in particolare nei villaggi) e le audiocassette.
La svolta è avvenuta già nella seconda metà del 2002, quando l’organizzazione sospese il divieto di diffondere “immagini viventi” (ossia fotografie e video) e iniziò a servirsi del potere della multimedialità per denunciare le presunte uccisioni di civili per mano delle forze armate filo-americane. Prendendo a modello la comunicazione di Al-Qaeda – che in quegli anni filmava decapitazioni di stranieri per diffonderli attraverso i Dvd – i talebani compresero a fondo l’importanza della testimonianza filmata e nel 2005 diedero vita ad Al-Emarah, il proprio sito ufficiale tradotto in cinque lingue: inglese, arabo, pashtu e dari (queste ultime sono le due lingue ufficialmente parlate in Afghanistan) e urdu (parlato in Pakistan e in alcune regioni dell’Afghanistan confinanti con il Pakistan).
Sfruttando il neonato portale, l’organizzazione dei talebani poteva così sfidare la narrazione giornalistica mainstream attraverso comunicati che contestavano esiti delle battaglie e numero di feriti riportati da fonti giornalistiche accreditate, arrivando fino al punto di denunciare apertamente il trattamento discriminatorio subito dalle testate d’informazione.
La comunicazione dei talebani si concentrò ben presto nelle mani di pochi esperti del settore, tra i quali spiccava il nome di Zabihullah Mujahid, molto probabilmente uno pseudonimo utilizzato dal portavoce che nell’agosto del 2021 ha annunciato in conferenza stampa la riconquista dell’Afghanistan. Questo nome era già stato usato in passato dalla comunicazione talebana e secondo molti storici corrispondenti dall’Afghanistan non indicherebbe una persona singola, ma diverse personalità succedutesi nel tempo.
I talebani e i social media
Il definitivo salto di qualità nella comunicazione talebana è giunto tra il 2009 e il 2011, con l’approdo su YouTube, Facebook e Twitter. Proprio Twitter è il social network dove i talebani hanno iniziato a coltivare una vera e propria rete di voci islamiste, mentre nel frattempo la campagna militare procedeva lenta ma inesorabile, installando governi ombra in diverse province afgane.
La presenza Twitter del gruppo iniziò così a focalizzarsi sul racconto delle battaglie, fornendo dettagli inediti e rilasciando dichiarazioni ai media occidentali (vero target della campagna propagandistica, dal momento che la diffusione della rete in Afghanistan è ancora molto limitata). Alimentando, insomma, l’idea che i talebani non fossero sconfitti, ma solo momentaneamente lontani dal potere (o, come recita una delle più celebri affermazioni attribuite ai talebani: «L’America ha gli orologi, noi abbiamo il tempo»). Questa narrazione condotta sui social si è intensificata a partire dal 2016, quando era ormai diventato piuttosto frequente assistere a guerriglieri talebani armati di smartphone durante una battaglia e ai relativi selfie trionfali pubblicati sui social network.
A questo punto la potenza di fuoco virtuale dei talebani era già ben superiore a quella a disposizione del governo afgano e così la fazione islamista ha cambiato il tono della sua voce sui social, adattandolo alla necessità di apparire più moderati agli occhi della comunità internazionale. Seguendo questa strategia, nel 2019 l’organizzazione ha condannato con un comunicato in lingua inglese l’attacco terroristico di Christchurch, Nuova Zelanda (dove 51 persone morirono a causa di un attentato islamofobo), chiedendo al governo neozelandese «un’indagine estesa per approfondire le radici» dell’accaduto. Più o meno nelle stesse ore, i leader dell’Isis e di Al-Qaeda invocavano una «vendetta di sangue» nei confronti dell’Occidente.
È l’esordio assoluto del volto istituzionale dei talebani, l’ultimo passo di una evoluzione comunicativa funzionale alla fase successiva della guerra, quella iniziata il 15 agosto scorso con la presa di Kabul.
Il nuovo corso talebano
Ad agosto 2021 i talebani hanno dovuto gestire la delicata transizione da forza di lotta a forza di governo e per l’occasione l’organizzazione ha dato vita a una vasta galassia di falsi account Twitter dedicati alla glorificazione del neo-insediato regime. Si tratta perlopiù di utenti che si autodefiniscono «giornalisti freelance» e «attivisti per la pace» spuntati dal nulla tra luglio e agosto 2021, che ancora mentre scriviamo twittano compulsivamente notizie relative ai miliziani utilizzando un tono istituzionale e accomodante.
La propaganda talebana si serve di questi account-civetta per comunicare fuori dall’Afghanistan l’idea di un Paese rinato e, come ha sottolineato su Twitter il corrispondente della Bbc Abdirahim Saeed, insiste su parole d’ordine relative a sicurezza, donne, libertà di stampa, ricostruzione e riconciliazione. Il tutto spesso tradotto in quattro lingue (pashtu, dari, arabo e inglese) e retwittato da pezzi grossi della comunicazione talebana come il già citato Mujahid, che su Twitter ha quasi 400 mila follower.
Una vera e propria campagna di marketing politico, insomma, che nei giorni precedenti alla presa di Kabul era stata in grado di mandare in tendenza l’hashtag #Kabulregimecrimes (dedicato ai presunti crimini di guerra perpetrati dal governo di Ashraf Ghani, sostenuto dalla comunità internazionale) e di spingere #westandwithTaliban (stiamo con i talebani) e #ﻧَﺼْﺮٌ_ﻣٌِﻦَ_اللهِ_ﻭَﻓَﺘْﺢٌ_ﻗَﺮِﻳﺐٌ (con l’aiuto di Dio la vittoria è vicina). Tutto questo, ha raccontato la Bbc, è stato possibile innanzitutto grazie al lavoro di Qari Saeed Khosty – social media manager del neonato Emirato islamico dell’Afghanistan, come i talebani hanno ribattezzato il Paese – ma anche a un budget dedicato all’acquisto di «pacchetti di dati» da impiegare nella «guerra online».
I talebani e la disinformazione
Gli effetti di un tale dispiegamento di forze sono oggi piuttosto evidenti, su Twitter e nella copertura mediatica riservata ai talebani. Uno degli account più attivi tra quelli riconducibili alle milizie islamiste è Muhammad Jalal (circa 36 mila follower), che nella bio di Twitter si presenta come «un normale afgano e un attivista per la pace» e che viene spesso ripreso e identificato dai media internazionali (ad esempio qui, qui e qui) come «membro della commissione cultura talebana».
Oltre a essere ben inserito nei gangli del nuovo corso talebano, però, Jalal è soprattutto uno dei principali diffusori di disinformazione sull’Afghanistan, particolarmente attivo fin dal 3 settembre nel raccontare la caduta della provincia afgana del Panjshir. Alla data del 10 settembre, mentre scriviamo, non esistono prove di una vittoria talebana nella provincia ribelle e secondo l’agenzia stampa di stato iraniana (Paese particolarmente interessato all’area e schierato in difesa del Panjshir) questa sarebbe ancora in mano all’Alleanza del nord, il fronte che dal 1996 combatte contro i talebani in Afghanistan.
Un altro esempio di disinformazione operata dal regime è quella di cui Facta si è occupata lo scorso 1 settembre e riguarda la notizia dell’elicottero Blackhawk, rubato dai talebani agli americani, che avrebbe portato in giro il cadavere di un uomo impiccato. Come abbiamo ricostruito, si trattava di un video tagliato ad arte, che mostrava in realtà un uomo vivo e vegeto nel tentativo di issare una bandiera su un edificio pubblico (come si può verificare dal video completo). La notizia era stata in quel caso pubblicata da Talib Times, un account Twitter che affermava di essere la fonte ufficiale di notizie per l’Emirato Islamico dell’Afghanistan ed era stata prontamente ripresa da numerosi mezzi d’informazione in tutto il mondo (tra i quali il Sun, nel Regno Unito, e Libero in Italia) e da politici come il repubblicano Ted Cruz.
La reazione delle piattaforme
Ma cosa stanno facendo le compagnie di social network per combattere la disinformazione talebana? In questo caso la strada è particolarmente stretta, dal momento che gli Stati Uniti non hanno mai riconosciuto ufficialmente i talebani come un gruppo terroristico e non è dunque possibile perseguire la strategia aggressiva adottata in passato nei confronti dell’Isis.
Da tempo Facebook ha comunque scelto di designare i talebani come “organizzazione pericolosa”, etichetta che comporta una più stretta sorveglianza dei contenuti sul tema e il ban di account e pagine associate all’organizzazione. Come ulteriore misura precauzionale, ad agosto 2021 il social network fondato da Zuckerberg ha implementato in Afghanistan una funzione che permette di “bloccare” i propri account con un solo click (nascondendo i post della timeline e rendendo impossibile il download dell’immagine profilo) e ha eliminato ogni possibilità di fare ricerche all’interno della lista amici di un account.
Più difficile appare invece il lavoro di WhatsApp, che non può agire troppo invasivamente nelle chat private ma che, come ha precisato un portavoce della compagnia, può «agire» nel caso in cui fosse confermato che «una persona o un’organizzazione banditi sono presenti su WhatsApp». In tal caso WhatsApp potrebbe servirsi dell’ausilio di software di intelligenza artificiale per esaminare le informazioni dei gruppi che non possono essere criptate, come nomi, foto del profilo e descrizioni. Queste mosse sono state studiate dalla compagnia per proteggere gli utenti da eventuali profilazioni del regime e per il momento sembrano funzionare: riportando una dichiarazione del social media manager Qari Saeed Khosty, la Bbc ha infatti spiegato che i talebani «considerano insostenibile» la propria presenza su Facebook e hanno per questo motivo virato su Twitter.
E mentre Instagram ha deciso di informare i suoi utenti afgani sul modo più rapido per eliminare l’account in caso di pericolo e YouTube blocca da tempo ogni tentativo talebano di pubblicare sulla piattaforma, al momento Twitter non ha sviluppato una policy specifica per i contenuti pubblicati dai talebani. Mentre scriviamo, il portavoce Zabihullah Mujahid condivide regolarmente aggiornamenti sul regime e la macchina propagandistica talebana procede quanto mai spedita.
In conclusione
Il 15 agosto 2021 i talebani hanno riconquistato la capitale dell’Afghanistan Kabul, annunciando al mondo la nascita dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. L’organizzazione islamista è un soggetto molto diverso che quello che aveva governato il Paese tra il 1996 e il 2001, in primis per le sue modalità comunicative, ora totalmente incentrate su un consapevole utilizzo del web e dei social network.
Tra le armi più raffinate nell’arsenale talebano c’è anche la disinformazione, utilizzata dai miliziani per propagandare l’idea di un nuovo corso per l’Afghanistan, votato alla «ricostruzione» e alla «riconciliazione». A tal fine, l’organizzazione utilizza una vasta galassia di account-civetta, profili falsi utili alla glorificazione del neo-insediato regime.
Solo nelle ultime settimane la disinformazione talebana ha spinto molto sulla conquista militare della provincia del Panjshir (mentre scriviamo ancora ufficialmente in mano all’Alleanza del nord) e ha diffuso la falsa notizia di un elicottero americano utilizzato per esporre il cadavere di un uomo decapitato.
I social network hanno iniziato a studiare delle contromosse e Facebook continua a considerare i talebani “organizzazione pericolosa” (nonostante questa non compaia di fatto nella lista dell’antiterrorismo americana), implementando nel frattempo nuove strategie per aiutare gli utenti afgani a nascondere i propri dati da eventuali profilazioni di massa. Al momento Twitter non ha ancora sviluppato una policy sul tema e, di fatto, funge da strumento principale per la diffusione di notizie del regime talebano.