
Lo scetticismo climatico ha davvero poco a che fare con la scienza
Studi hanno dimostrato che il livello di istruzione di un individuo è solo debolmente correlato alla credenza nel cambiamento climatico
A Fuoco è una newsletter su clima e disinformazione. Ogni settimana esperti, divulgatori, giornalisti scientifici indagano un tema del dibattito legato alla crisi climatica. Pubblichiamo qui la puntata di questa settimana, firmata da Maurizio Mascitti, dottorando in filosofia all’università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Per ricevere le prossime puntate direttamente nella vostra casella di posta elettronica, ogni mercoledì mattina, ci si iscrive qui.
Siamo soliti pensare alla disinformazione sul clima come a un problema di sfiducia nella scienza, o di una sua incomprensione. Scorri la tua home di Facebook e ti imbatti in un articolo che parla dell’ennesimo record di temperature registrato dall’osservatorio Copernicus per l’anno 2024. Sotto il post, una sfilza di commenti: c’è chi nega apertamente l’innalzamento delle temperature globali, chi lo minimizza dicendo che “il clima è sempre cambiato” e chi sostiene che Copernicus sia l’ennesimo tentativo dell’Unione europea di imporre la transizione ecologica e le “follie green” (sic!).
Forse la prima tentazione è di pensare che questi utenti non conoscano i risultati della scienza climatica, che siano male informati o che semplicemente si rifiutino di accettare la realtà. Il motivo del loro scetticismo, si dice, va ricercato nella loro scarsa alfabetizzazione scientifica; qualcuno direbbe, in termini meno diplomatici, nella loro “ignoranza”.
Tuttavia, questa maniera di formulare il problema dello scetticismo climatico, e della disinformazione che vi gravita attorno, è potenzialmente fuorviante, e rischia di confondere le acque. Ci sono diversi motivi per pensarlo. Il primo è che diversi studi sulle variabili demografiche ci dicono che, di solito, il livello di istruzione di un individuo è solo debolmente correlato alla credenza nel cambiamento climatico. Lo stesso vale per sesso, etnia ed età; sebbene le analisi che hanno come campione la popolazione statunitense abbiano trovato nel “maschio bianco conservatore” un pattern demografico ricorrente fra coloro che negano la crisi climatica. E tuttavia, se si prendono in considerazione anche gli altri Paesi, l’unica variabile demografica diagnostica a rimanere costante è l’ultima di quella triade: il conservatorismo. L’esatto opposto accade con i progressisti, che invece tendono a credere molto di più ai risultati della scienza climatica.
E arriviamo così al secondo punto. Interpretare lo scetticismo climatico come un problema di sfiducia nei risultati della scienza significa scambiare la causa con l’effetto: in molti casi, infatti, questa diffidenza non rappresenta la causa primaria dello scetticismo climatico, bensì la sua conseguenza. Il vero motore di questa resistenza risiede altrove: nelle ideologie, nei valori culturali e nelle visioni economiche che determinano il modo in cui le persone interpretano la realtà sociale. Per capirlo può tornarci utile un esperimento del 2014 di due psicologi sociali, Troy Campbell (Università dell’Oregon) e Aaron Kay (Università Duke). In questa ricerca, Campbell e Kay si sono chiesti se la desiderabilità di una soluzione a un problema noto – come la criminalità, l’inquinamento atmosferico o lo stesso cambiamento climatico – influisse sulla credenza nell’esistenza del problema associato. I due ricercatori hanno battezzato questa ipotesi come solution aversion (avversione alla soluzione): la soluzione a un problema a volte può essere più indigesta del problema stesso, con la conseguenza che si preferisce negare l’esistenza del secondo.
Quando si tratta di cambiamento climatico, i due ricercatori si sono chiesti perché in USA un numero maggiore di Repubblicani rispetto ai Democratici tenda a negarne o minimizzarne l’esistenza, nonostante le solide evidenze scientifiche. La loro analisi suggerisce che la radice del problema non sia tanto la scienza in sé, quanto l’opposizione dei conservatori alla soluzione più frequentemente proposta: un rafforzamento della regolamentazione governativa. Questa resistenza, per i Repubblicani, sembra pesare più di eventuali differenze nella percezione della gravità della crisi climatica.
Durante l’esperimento, ai partecipanti, sia Repubblicani che Democratici, è stata presentata una previsione scientifica secondo cui le temperature globali aumenteranno di 3,2 gradi nel XXI secolo. Subito dopo, è stata loro proposta una possibile soluzione al problema. Quando questa consisteva in una tassa sulle emissioni di carbonio o in altre forme di regolamentazione statale, solo il 22 per cento dei Repubblicani ha dichiarato di credere che le temperature sarebbero aumentate almeno quanto indicato dalla previsione. Tuttavia, quando la soluzione era presentata in termini di politiche di libero mercato, come il sostegno allo sviluppo di tecnologie sostenibili e orientate alla tutela dell’ambiente, la percentuale di Repubblicani che accettava il dato scientifico saliva al 55 per cento. Per i Democratici, invece, in entrambi i casi non è stata rilevata nessuna variazione significativa.
Questo fenomeno, ovviamente, vale anche all’inverso e influenza allo stesso modo l’elettorato più progressista. Anche questi individui mostrano una tendenza simile quando si trovano di fronte a soluzioni che percepiscono come politicamente indesiderabili. Testando il problema della criminalità, Campbell e Kay hanno visto come i Democratici favorevoli a un maggiore controllo delle armi tendevano a ridimensionare la frequenza delle effrazioni violente quando la soluzione proposta prevedeva un allentamento delle restrizioni sul possesso di armi, mentre la percezione del problema risultava più marcata quando venivano suggerite normative più severe.
Ma per quel che riguarda il cambiamento climatico è ormai noto da tempo che sono i conservatori, e in generale i partiti più a destra nello spettro politico, a manifestare maggiore resistenza. Il punto, però, è che la resistenza non è dovuta al rapporto che questi gruppi intrattengono con la climatologia, ma a ideologie con valori che apparentemente non hanno nulla a che fare con la scienza o con il clima. Ad esempio, secondo questa prospettiva, le persone che aderiscono a valori relativamente individualisti e gerarchici tendono a vedere l’industria e il mercato come pilastri della società, e quindi sono meno inclini ad accettare il cambiamento climatico come un problema serio, perché ciò implicherebbe restrizioni normative. Al contrario, chi ha una visione egualitaria e comunitaria tende invece a essere più scettico nei confronti delle grandi aziende e delle élite economiche, e dunque percepisce il cambiamento climatico come un problema reale che richiede regolamentazioni.
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