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Pokémon e fantasmi: la leggenda metropolitana della “Sindrome di Lavandonia”

Nonostante la palese falsità della leggeda, ancora adesso ci sono persone convinte che i primi videogiochi dei Pokémon siano in qualche modo “maledetti”

7 maggio 2024
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di Leonardo Bianchi

Nella primavera del 1996, il Giappone sarebbe stato investito da un fenomeno spaventoso e inquietante: centinaia di adolescenti si sarebbero uccisi dopo aver giocato a Pokémon Rosso e Blu, i primi due videogiochi della celeberrima serie usciti per il Game Boy.

Le cause non sarebbero state chiarissime. C’è chi imputava la colpa a un glitch – un errore di programmazione – inserito malevolmente dagli sviluppatori, che avrebbe causato disturbi neurologici, sbalzi d’umore, dipendenza, isolamento e tendenze suicide.

Altri invece puntavano il dito verso una particolare canzone che accompagna l’esplorazione di Lavandonia, la sinistra città che ospita la Torre Pokémon dentro la quale sono sepolti i Pokémon defunti. La melodia conteneva delle speciali «frequenze» o «toni binaurali» udibili soltanto dai bambini e non dagli adulti. Sarebbero stati questi suoni ad aver provocato gravi patologie e comportamenti anomali, che gli esperti avevano racchiuso nell’espressione «Sindrome di Lavandonia».

Fortunatamente però, nulla di tutto ciò è vero. Nessun bambino giapponese si è tolto la vita dopo aver giocato a Pokémon Rosso e Blu; né tanto meno esiste una fantomatica sindrome provocata da questi giochi.

Si tratta infatti di una leggenda metropolitana nata all’inizio degli anni Dieci, che rientra in un preciso filone della cultura di Internet: quello dei cosiddetti creepypasta, una parola dello slang internettiano che deriva dall’unione di creepy («pauroso») e copypasta, cioè «copia-incolla». In sostanza, sono racconti horror che vengono copiati e incollati da singoli utenti e diffusi su forum e social network.

Nonostante sia inventata, per l’appunto, la «sindrome di Lavandonia» è stata talvolta scambiata online come una malattia reale; o comunque, è ancora adesso considerata una storia con un qualche fondo di verità. Questo è dovuto a una serie di fattori piuttosto peculiari – a partire dalla popolarità dei Pokémon per arrivare allo stile di scrittura dei creepypasta in questione – che hanno contribuito a renderla una delle leggende di Internet più affascinanti, popolari e longeve degli ultimi anni.

Cosa contengono i creepypasta sui Pokémon
La prima versione della leggenda è apparsa il 21 febbraio del 2010 su 4chan, la imageboard anonima fondata nel 2003 e conosciuta come la «fabbrica dei meme di Internet», nonché il luogo in cui sono nate molte sottoculture digitali – da Anonymous a QAnon.

Il testo in questione si chiamava “Come Follow Me” (“Seguimi” in italiano) e sosteneva che i suicidi erano causati da un glitch inserito volontariamente dai programmatori. Anche il poliziotto giapponese che indagava sulle morti misteriose si sarebbe imbattuto in questo errore: giocando ai Pokémon avrebbe infatti visto i fantasmi degli altri giocatori morti, e si sarebbe ucciso a sua volta non potendo sostenere quella visione.

Secondo il creepypasta, inoltre, la maggior parte delle cartucce che contenevano il glitch sarebbero state ritirate. Tuttavia, una parte del codice corrotto sarebbe in qualche modo sopravvissuto e si sarebbe diffuso – come un virus – attraverso le varie edizioni localizzate del gioco.  

Nel corso degli anni sono apparse altre cinque versioni del creepypasta, basate non sul glitch ma sulla canzone di sottofondo di Lavandonia: sarebbe questa melodia a causare i suicidi. In alcuni testi compaiono altri dettagli e storie secondarie: si fa infatti riferimento a Pokémon segreti ma inesistenti, come il «Pokémon 731», a nuove misteriose e disturbanti creature e addirittura a una cospirazione per lavare il cervello degli adolescenti e addestrarli a diventare i soldati di una futura «Grande Nazione Imperiale Giapponese».

Secondo il ricercatore indipendente Eymeric Manzinali, autore del paper “Lavender Town Syndrome Creepypasta: a Rational Narration of the Supernatural” (in italiano, “Il creepypasta della Sindrome di Lavandonia: una narrazione razionale del supernaturale”), questi testi hanno avuto successo per motivi narrativi, stilistici e sociologici.

Anzitutto, fanno leva su uno dei pilastri del genere: la tecnologia maledetta. Nei creepypasta, gli errori della tecnologia – come i glitch, per l’appunto – sono «la porta d’ingresso per il mondo dei fantasmi e per la manipolazione della mente umana». In più, continua Manzinali, nel «mondo dematerializzato di Internet [c’è] una certa fascinazione per la musica, le immagini e i video perturbanti, ai quali vengono attribuiti poteri occulti».

A tal proposito, la coincidenza con il più ampio genere horror è pressoché totale: la pellicola originale di The Ring, giusto per fare un esempio, si basa proprio su una videocassetta maledetta. E come si legge in un articolo della testata Little White Lies, l’antagonista del film – Sadako in giapponese, Samara nella versione occidentale – è l’allegoria di tutte le angosce inespresse del passaggio dal mondo analogico del Ventesimo secolo a quello digitale del Ventunesimo secolo.

In secondo luogo, i creepypasta della «sindrome di Lavandonia» hanno uno stile distintivo: sono scritti come se fossero delle inchieste giornalistiche. I testi infatti contengono ricostruzioni che sembrano provenire da fonti qualificate, a conoscenza di informazioni non accessibili al pubblico, virgolettati di persone direttamente coinvolte e brani di documenti riservati delle aziende coinvolte nel complotto.

Ovviamente si tratta di materiale di fantasia, che però contribuisce a rendere più coinvolgente e plausibile il racconto – invogliando così altre persone ad arricchirlo. Come scrive Manzinali, del resto, «i creepypasta sono storie collettive e partecipative». E non è affatto un caso, dunque, che della stessa leggenda esistano più versioni.

Il “Pokémon shock” degli anni Novanta
Il creepypasta della «sindrome di Lavandonia» ha però una caratteristica piuttosto unica, che lo differenzia da altri racconti simili legati alle prime generazioni di videogiochi: si basa su un episodio reale avvenuto in Giappone nel 1997.

Nel tardo pomeriggio del 16 dicembre di quell’anno andò in onda l’episodio 38 della serie animata dei Pokémon, intitolata “Dennō senshi Porygon” (in italiano “Soldato elettrico Porygon”). Durante una battaglia tra Pikachu (il Pokémon simbolo della serie) e Porygon venne usato un effetto stroboscopico lampeggiante, in cui si alternavano molto rapidamente i colori rosso e blu.

Nell’arco di circa un’ora dalla messa in onda, 618 bambini vennero assistiti nei pronto soccorso di tutto il Giappone per crisi epilettiche, nausea, vomito, disturbi alla vista, mal di testa e altri sintomi. Due giorni dopo, il numero delle persone colpite salì addirittura a 12mila. La vicenda causò un enorme allarme sociale nel Paese, al punto tale da bloccare la messa in onda della serie per quattro mesi. Le azioni della Nintendo, la società di produzione del gioco, crollarono nella borsa di Tokyo.

Tuttavia, come ha ricostruito un articolo del giornalista Benjamin Radford pubblicato nel 2001 sulla rivista Skeptical Inquirer, i medici e gli epidemiologi giapponesi non riuscivano a spiegare fino in fondo le cause di un incidente sanitario senza precedenti nella storia giapponese.

Stando a uno studio del 2001, pubblicato dalla rivista scientifica Southern Medical Journal, solo pochi casi erano direttamente riconducibili all’effetto stroboscopico usato nell’episodio. Nella quasi totalità dei casi i sintomi non erano compatibili con l’epilessia fotosensibile: lo erano invece con la malattia psicogenica di massa – ossia l’«isteria di massa», di cui abbiamo già parlato nell’approfondimento sulla «sindrome dell’Avana».

Secondo Radford, insomma, a causare i sintomi non sarebbe stato tanto l’episodio in sé, quanto piuttosto un insieme di fattori intrecciati tra loro – lo stress, l’intesa copertura mediatica della vicenda, il panico morale alimentato dai giornali e dalle televisioni, e il passaparola nelle scuole.

Di sicuro, «l’episodio choc» dei Pokémon è rimasto impresso nell’immaginario popolare. In un certo senso, la leggenda della «sindrome di Lavandonia» è una rielaborazione horror di quella vicenda.  

Nel suo paper, Manzinali fa notare che i primi creepypasta in questione sono apparsi all’inizio degli anni Dieci del Ventunesimo secolo, quando cioè i giocatori di Pokémon Rosso e Blu ormai erano ormai entrati nell’età adulta. E uno degli aspetti più disturbanti della leggenda sta proprio nel contrasto tra le spensierate memorie infantili e i terribili pericoli nascosti in quei giochi. Poco importa, alla fine, che quei pericoli non esistano realmente.

Si tratta infatti di metafore che esprimono inquietudini, paure e fobie che tutti e tutte abbiamo nei confronti dei videogiochi – e più in generale, nei confronti della tecnologia con cui interagiamo quotidianamente.

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