Se c’era un singolo evento che poteva scombussolare la politica climatica globale si è materializzato la sera del 5 novembre, quando è apparso chiaro che il candidato repubblicano, Donald Trump, era a un passo dal raggiungere il numero sufficiente di voti elettorali per vincere l’elezione presidenziale.
Il prossimo 20 gennaio Trump tornerà a essere il presidente degli Stati Uniti. A dispetto di una concatenazione di fatti, dall’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 ai guai con la giustizia (sarà il primo presidente della storia americana a essere stato condannato per un crimine), che sembrava rendere arduo e improbabile non solo che potesse trionfare in una competizione elettorale, ma perfino sopravvivere sulla scena pubblica.
Per immaginare quali possano essere le conseguenze di una seconda presidenza Trump per il futuro del clima non servirebbe fare grandi esercizi di immaginazione, basterebbe guardare quello che è successo durante la prima.
Trump ha fatto diverse affermazioni negazioniste sul cambiamento climatico, arrivando a definirlo, anche durante suoi recenti comizi elettorali, una “truffa”. In perfetta linea con questa visione, ha preso di mira più volte l’energia eolica con tesi prive di fondamento e ha ribadito che la sua politica energetica è trivellare, cioè estrarre combustibili fossili.
Durante il suo primo mandato, a dirigere l’Environmental Protection Agency (EPA), l’agenzia per la protezione dell’ambiente, è stato chiamato Scott Pruitt, un avvocato che condivideva la stessa ideologia negazionista del Presidente e si era distinto per le sue iniziative contro le regolamentazioni ambientali.
Nel novembre del 2020, in coincidenza con l’elezione presidenziale da cui Trump sarebbe uscito sconfitto, era entrato in vigore il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sul clima, poi annullato con la presidenza Biden. È prevedibile, per non dire scontato, che, dopo il suo insediamento, Trump farà partire di nuovo l’iter per il ritiro. E questa volta potrebbe correre più veloce.
Una differenza misurabile
Lo scorso marzo il sito di informazione Carbon Brief, specializzato nei temi del clima e dell’energia, aveva pubblicato un’analisi delle possibili conseguenze di una vittoria di Trump alle elezioni presidenziali del 2024. Era una valutazione quantitativa dell’impatto dei possibili provvedimenti di una seconda amministrazione Trump sulle emissioni di gas serra americane.
Secondo gli autori, il secondo mandato di Trump porterebbe a un aumento delle emissioni degli Stati Uniti pari a 4 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti entro il 2030, rispetto alle politiche dell’amministrazione Biden. Una quantità che equivale alle emissioni annuali combinate dell’Unione europea e del Giappone, o a quelle dei 140 Paesi con le emissioni più basse.
Queste emissioni aggiuntive, scriveva Carbon Brief, «annullerebbero – due volte – tutti i risparmi derivanti dall’implementazione di tecnologie eoliche, solari e altre tecnologie pulite in tutto il mondo negli ultimi cinque anni». Nello “scenario Trump” le emissioni di gas serra degli Stati Uniti scenderebbero entro il 2030 al 28 percento rispetto livelli del 2005, molto al di sotto dell’obiettivo del 50-52 per cento. Nello “scenario Biden” (o qualsiasi altro presidente che avesse mantenuto la sua linea) le emissioni si sarebbero piegate del 43 per cento, al di sotto dei livelli del 2005.
Nemmeno questo secondo scenario sarebbe stato in linea con gli obiettivi americani, secondo l’Accordo di Parigi, ma la differenza sarebbe stata significativa, abbastanza grande da produrre impatti globali. Gli Stati Uniti sono oggi il secondo Paese al mondo per emissioni annuali di gas serra, dopo la Cina. Un passo indietro americano non significherebbe solo più emissioni di gas serra, ma anche il venir meno di una leadership globale e di un esempio politico. La prima economia al mondo non può chiamarsi fuori nella corsa per fermare il riscaldamento globale. Se lo fa, significa che altri devono fare di più.
Motivi di cauto non pessimismo
L’“effetto Trump” sulle emissioni di gas serra degli Stati Uniti si basa in buona parte sull’assunto che la nuova amministrazione smantelli, almeno in parte, l’Inflation Reduction Act (IRA), approvato dal Congresso e firmato da Biden nel 2022.
L’IRA è un pacchetto di provvedimenti in diversi ambiti, tra cui anche una serie di misure fiscali per i settori delle energie rinnovabili e dei veicoli elettrici. È la più grande legislazione pro-clima nella storia degli Stati Uniti e, per questo motivo, Trump non ha nascosto la propria antipatia nei suoi confronti, in linea con il suo negazionismo climatico e la sua idea di politica energetica, fortemente pro-combustibili fossili.
Dall’anno prossimo il futuro dell’IRA sarà, dunque, quanto mai incerto. Ma in questa certezza si possono forse trovare alcuni motivi per non essere del tutto pessimisti. Uno riguarda l’impatto che ha già avuto l’IRA sull’economia e l’industria americane. Secondo un’analisi del Washington Post, nei distretti congressuali che nell’elezione presidenziale del 2020 avevano premiato Trump è arrivato nel complesso il triplo degli investimenti rispetto a quelli nei distretti che avevano favorito il candidato democratico, Joe Biden. «Dei primi 10 distretti che hanno attratto il maggior numero di investimenti in energia pulita, nove sono guidati da legislatori repubblicani», scrive il quotidiano americano. Nonostante il fatto che nessun parlamentare repubblicano avesse votato a favore dell’IRA.
Il fatto che molti investimenti siano arrivati nei collegi più repubblicani si spiega anche con la densità di popolazione: sono distretti tendenzialmente rurali dove ci sono più aree disponibili per la costruzione di impianti e stabilimenti. Ma ci sono anche ragioni economiche. Nonostante l’ideologia negazionista e la retorica anti-clima, le energie rinnovabili si stanno espandendo anche negli Stati repubblicani. Se non è la preoccupazione per il clima a spingerle, lo è però la convenienza economica.
«Gli Stati repubblicani non stanno costruendo energia pulita per risolvere il cambiamento climatico. Almeno, non è questa la ragione principale. Lo stanno facendo per l’economia», osserva Hannah Ritchie, esperta di dati del sito Our World in Data. «Molti stati repubblicani hanno grandi disponibilità di sole e vento. Si trovano nella “cintura del vento” degli Stati Uniti: il che significa fattori di capacità elevati e buoni ritorni degli investimenti».
La transizione energetica è un processo in atto, anche se non sta avvenendo con l’intensità che sarebbe necessaria. Ad esso stanno contribuendo azioni a tutti i livelli, non solo nazionali, ma anche locali, perciò neanche un presidente come Trump ha il potere di sbarrargli la strada negli Stati Uniti. Ma questo processo ha ancora bisogno di politiche che lo favoriscano e lo accelerino.
La temperatura della Terra continua ad aumentare e il ritorno di un negazionista climatico in una stanza dei bottoni molto potente e influente era l’ultima cosa di cui avevamo bisogno.