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Le pandemie sono una conseguenza di quanto stiamo facendo all’ambiente

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28 luglio 2021
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di Massimo Sandal

Finora la discussione sull’origine dell’attuale pandemia si è concentrata su una falsa dicotomia: da un lato, l’ipotesi a oggi ritenuta più probabile di un evento di spillover, ovvero il passaggio diretto del virus da un animale (come pipistrelli e pangolini, ospiti naturali di coronavirus simili a Sars-CoV-2). D’altra parte la possibilità di un lab leak, ovvero il rilascio accidentale del virus da un laboratorio di ricerca: ipotesi di per sé non impossibile, ma che fino ad ora sfuma nelle più volte smentite teorie del complotto che vorrebbero Sars-CoV-2 creato in laboratorio.

In entrambi i casi la discussione si è concentrata sull’evento finale che ha diffuso il virus tra gli esseri umani, perdendo di vista però il quadro generale. Ovvero: che cosa porta virus e altri patogeni finora sconosciuti a venire in contatto con gli esseri umani e a causare epidemie o pandemie? Come ha fatto un virus che, con ogni probabilità, fino a due anni fa era diffuso solo in una piccola popolazione di pipistrelli di una remota regione della Cina a diventare una catastrofe planetaria? E cosa possiamo fare per evitare che accada di nuovo?

Sull’onda della pandemia da Covid-19, sono stati pubblicati nel 2020 almeno due report ufficiali che hanno condensato i numerosissimi studi e dati prodotti in passato dalla comunità scientifica sul rischio di nuove pandemie. Il primo è stato pubblicato il 6 luglio 2020 dal Programma ambientale delle Nazioni unite (Unep) in occasione del World Zoonoses Day, la giornata mondiale delle zoonosi, le malattie trasmesse da animali all’uomo.

Il secondo è stato invece pubblicato il 29 ottobre 2020 dalla Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem (Ipbes), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di monitorare e preservare gli ecosistemi.

Entrambi i documenti hanno delineato un consenso scientifico chiaro e netto: l’origine delle pandemie, inclusa quella da Covid-19, risiede nel nostro rapporto con la biodiversità e nei sempre più rapidi sconvolgimenti che la civiltà sta portando agli ecosistemi. Perché? Scopriamolo insieme.

L’origine dei virus pandemici

Le pandemie sono quasi sempre originate da malattie infettive emergenti, ovvero passate solo di recente da un ospite animale all’uomo, anche se in una minoranza di casi possono essere causate da patogeni con cui l’umanità ha già convissuto da qualche secolo. La pandemia da Covid-19 è quella che ha sconvolto di più, negli ultimi cento anni, la nostra vita quotidiana, ma non è l’unica: ricordiamo la pandemia da Hiv, tuttora in corso, ma anche la pandemia di Sars nel 2002-2003 e le pandemie influenzali. Senza contare virus non ufficialmente dichiarati pandemici ma che si sono diffusi più o meno ampiamente con conseguenze gravi, quali Zika e Ebola. Molti dei virus coinvolti sono virus a Rna, come Sars-CoV-2: questo perché sono in grado di mutare ed evolversi più in fretta e adattarsi quindi a nuovi ospiti.

Ricordiamoci che la diversità virale che esiste sul pianeta è così enorme da sfidare la nostra immaginazione. A oggi conosciamo meno di 2.000 tipi di virus in natura potenzialmente capaci di infettare l’essere umano, ma le stime dei ricercatori puntano a un numero compreso tra 631 mila e 827 mila. Esiste quindi un enorme lavoro da fare anche solo per comprendere l’ampiezza del rischio pandemico.

In ogni caso, solo negli ultimi cinquant’anni sono stati identificati oltre 300 microrganismi che dagli animali sono passati agli esseri umani. Per nostra fortuna, la grande maggioranza di questi non è in grado di trasmettersi facilmente da persona a persona e quindi non causa epidemie o pandemie.

Il ruolo degli allevamenti

Le attività umane che riducono la biodiversità (come l’uso del suolo per l’agricoltura, l’allevamento e l’urbanizzazione), sono le stesse che, fin dall’antichità, hanno portato al sorgere e alla diffusione di nuovi patogeni. La rivoluzione culturale più importante da questo punto di vista è stata probabilmente l’addomesticamento del bestiame: dal Neolitico i primi allevamenti hanno messo in contatto masse di animali sia tra loro – capaci quindi di far divampare focolai di patogeni – sia con le persone, che a loro volta cominciavano a vivere in comunità densamente popolate come i primi villaggi. È in quest’epoca che dagli animali di allevamento si evolvono, passano agli esseri umani e si diffondono, patogeni come i virus di morbillo e vaiolo o il bacillo della tubercolosi.

Gli allevamenti animali sono ancora oggi degli incubatori di patogeni: ad esempio i ceppi influenzali nascono dalla ricombinazione e diffusione di virus influenzali di diversi animali d’allevamento, come pollame o suini, che entrano in contatto tra loro e con gli allevatori. Un altro coronavirus pericoloso per l’uomo, Mers-CoV (responsabile della sindrome respiratoria Mers), è nato con ogni probabilità nei pipistrelli ma si è poi diffuso in Medio Oriente negli allevamenti di cammelli da cui poi occasionalmente viene trasmesso alle persone.

Secondo la Fao oggi il costante aumento della domanda di carne rischia di essere uno dei fattori più importanti nell’aumentare la probabilità di future pandemie. Non solo perché, come abbiamo accennato prima, gli allevamenti creano occasioni per i virus animali di riprodursi, evolversi e passare agli esseri umani, ma anche perché per fare spazio a nuovi pascoli e allevamenti, a causa della crescente domanda, siamo costretti a eliminare foreste e modificare il territorio, con conseguenze di cui parleremo più sotto. Una domanda di carne più alta porta anche all’intensificazione degli allevamenti e a una convivenza più serrata tra aree agricole e aree adibite ad allevamento, circostanza che per esempio in Malesia ha permesso di emergere al virus Nipah – fortunatamente in modo poco diffuso – con polmoniti ed encefaliti spesso letali. Proprio per episodi come questo l’Ipbes ha proposto di controllare il consumo tramite delle apposite tasse, una ipotesi di cui si è parlato spesso sui media, a volte anche in modo distorto.

Come si intrecciano ecosistemi e pandemie

Le alterazioni del territorio indotte dall’uomo (come la deforestazione per lasciar spazio all’attività agricola o l’urbanizzazione) agiscono sulla biodiversità portando più facilmente all’emergere di nuove malattie infettive. Uno studio del 2017 ha stimato che tali alterazioni abbiano contribuito alla comparsa di oltre il 30 per cento dei nuovi patogeni a partire dal 1960.

In generale, le specie animali che fungono da ospite per molte malattie umane tendono a concentrarsi in ecosistemi umanizzati, come coltivazioni agricole o città. Stiamo parlando in particolare di roditori come ratti e topi (vettori storici della peste), pipistrelli e alcune specie di uccelli passeriformi. La deforestazione ad esempio ha portato all’aumento della popolazione delle specie-riserva (principalmente roditori come i ratti) dell’Hantavirus, un patogeno che causa seri disturbi respiratori e gastrointestinali nelle Americhe.

In generale, le attività umane che alterano gli ecosistemi portano le persone, sia direttamente sia indirettamente tramite gli allevamenti, in contatto con specie che prima erano confinate in ambienti remoti e raramente a contatto con l’uomo, ad esempio penetrando in ecosistemi vergini per la costruzione di strade, lo sfruttamento agricolo o minerario. Le miniere di rame nello Yunnan (Cina) hanno ad esempio messo in contatto persone e pipistrelli portatori di numerosi virus, inclusi i coronavirus simili a Sars-CoV-2. Il virus Hiv è passato dagli animali all’essere umano più volte, ma da infezione locale è diventato pandemico grazie alla crescita dei trasporti intorno all’area di Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, tra gli anni ‘20 e ‘40 del XX secolo, il che gli ha permesso di diffondersi prima in Africa e poi nel resto del pianeta.

Un altro rapporto diretto tra biodiversità e pandemia potrebbe essere quello che, in gergo scientifico, viene chiamato fenomeno di diluizione. In un ecosistema intatto un patogeno può essere distribuito (“diluito”) tra diverse specie animali, di cui solo alcune hanno la possibilità concreta di trasmetterlo all’essere umano e sono normalmente in equilibrio con altre. Se l’ecosistema viene alterato, le specie più capaci di trasmettere il patogeno possono aumentare di numero a scapito delle altre e quindi rendere più probabile il salto di specie all’essere umano. Sebbene l’importanza dell’effetto di diluizione nel mitigare il rischio di pandemie sia ancora controversa, è certo che, per esempio, quando scompaiono i predatori che controllano la popolazione di piccoli mammiferi come i ratti, questi ultimi possono aumentare di numero e portare infezioni alle comunità umane.

L’incognita del cambiamento climatico

Al momento non esistono casi noti di nuove malattie infettive correlate senza dubbio al cambiamento climatico, ma i ricercatori studiano il tema da oltre venticinque anni e ci sono forti sospetti che in futuro il riscaldamento globale potrà contribuire al sorgere o all’espandersi di malattie infettive, se non di pandemie.

Il clima ha un ruolo importante nella diffusione di malattie infettive, a volte anche con correlazioni sorprendenti. Le oscillazioni di temperatura dell’Oceano Pacifico note come El Niño incidono con le proprie conseguenze climatiche fino ai territori africani e, alterando le piogge, influenzano la diffusione del virus della febbre della Rift Valley in Mauritania. La fusione del suolo fino a quel momento permanentemente ghiacciato (permafrost) in Siberia, influenzata anche dal riscaldamento globale, nel 2016 ha portato alla luce spore del bacillo dell’antrace, una malattia respiratoria molto grave, altrimenti sepolte nel terreno ghiacciato: ciò ha causato un’epidemia che ha ucciso circa duemila cervi e almeno una persona.

Sappiamo che il cambiamento climatico sta già ampliando il raggio d’azione di alcuni noti vettori di malattie infettive. Facciamo un esempio: il riscaldamento globale ha reso più miti le condizioni nel nord dell’America e dell’Europa e questo ha permesso alle zecche delle specie Ixodes ricinus e Ixodes scapularis, portatrici entrambe della malattia di Lyme e dell’encefalite da zecca, di trovare condizioni favorevoli in regioni dove prima non c’erano. Questi animali hanno poi accelerato il loro tasso di sviluppo e riproduzione. Le zecche capaci di portare la febbre emorragica della Crimea-Congo, che arrivano occasionalmente in Europa dall’Africa con le migrazioni degli uccelli, sono ora capaci di raggiungere l’età adulta e, quindi, potenzialmente riprodursi anche nell’Europa settentrionale, probabilmente a causa degli inverni più miti.

Il consumo e traffico di animali selvatici

Molte delle zoonosi più diffuse e purtroppo celebri oggi, dalla Sars, all’Hiv o all’Ebola, sono state trasmesse all’uomo anche grazie al consumo di animali selvatici. Tuttora il mercato di animali di Wuhan, diventato celebre con la pandemia da Covid-19, è considerato uno suoi primi epicentri, anche se non necessariamente la sua origine.

Il traffico di animali selvatici (in cui viene incluso anche il commercio di animali allevati talvolta in cattività ma che normalmente non si considerano addomesticati, come ad esempio i coccodrilli) è aumentato di cinque volte di valore tra il 2005 e il 2020, con un giro d’affari attuale di circa 100 miliardi di dollari all’anno, a cui si deve aggiungere il valore del mercato illegale stimato in 7-23 miliardi di dollari. Oltre ai rischi dovuti alla cattura e traffico di animali selvatici che possono essere serbatoio di virus (come per lo zibetto delle palme, un piccolo carnivoro del sud-est asiatico simile a una martora o una faina, che viene mangiato in Cina e che potrebbe aver fatto da tramite tra i pipistrelli e l’uomo nella pandemia da Sars), le condizioni di trasporto in cui gli animali sono spesso ammassati tra loro in spazi ristretti, magari mettendo insieme animali provenienti da aree geografiche differenti, favoriscono la diffusione e l’evoluzione di ceppi virali.

Uno zibetto delle palme (Paradoxurus hermaphroditus). Photo Credit: Praveenp on Wikimedia Commons – licenza CC-BY-SA 3.0

Questo è confermato da dati secondo i quali, durante il trasporto, gli animali spesso acquisiscono patogeni. Secondo uno studio pubblicato nel 2020, la percentuale di ratti del bambù (piccoli mammiferi che vengono catturati o allevati come cibo in Vietnam) infetti da coronavirus passa dal 6 per cento negli allevamenti, al 21 per cento nei mercati dove vengono venduti vivi, fino al 56 per cento quando vengono macellati nei ristoranti.

Un ratto del bambù (Cannomys badius) in vendita in un mercato del Laos. Photo Credit: Roadnottaken per Wikimedia Commons – licenza CC-BY-SA 3.0

Che cosa fare per prevenire le prossime pandemie

Finora i piani per il controllo delle pandemie si sono focalizzati sul tamponare e mitigare la diffusione dei patogeni a contagio già in corso. Se così avevamo fermato la Sars, la pandemia da Covid-19 ha insegnato che questo approccio può fallire drammaticamente. È necessario quindi prevenire il salto di nuovi virus e altri patogeni all’essere umano.

Sia l’Ipbes sia il Cbd concordano sul fatto che sia necessario un approccio denominato One Health, “un’unica salute”, ovvero che tenga conto contemporaneamente della salute umana, animale e ambientale. Il rischio pandemico andrebbe valutato e tenuto in conto ogni volta che si pianifica un’alterazione significativa dell’ambiente, ad esempio per le coltivazioni e la costruzione di infrastrutture, e gli incentivi economici allo sviluppo dovrebbero tenere conto della possibilità di aumentare la probabilità di pandemie. Il commercio e l’allevamento di animali normalmente selvatici andrebbe regolato e controllato ulteriormente per minimizzare il rischio che queste specie custodiscano e trasmettano virus alle persone. È necessario infine sensibilizzare il pubblico e la politica sulle misure necessarie per mitigare il rischio pandemico con una serie di interventi che vanno dalla comunicazione alle politiche fiscali.

Dal punto di vista scientifico, resta inoltre molto lavoro da fare per catalogare e valutare la pericolosità della diversità di virus e patogeni, in gran parte a noi ancora sconosciuta; è però necessario anche comprendere meglio l’intreccio tra cambiamento climatico, alterazioni degli ecosistemi e rischio pandemico.

In conclusione
Negli accesi dibattiti sulla pandemia, la questione ecologica è importante ma spesso lasciata in ombra. Facendo riferimento alla condizione in cui il mondo si trova oggi, sappiamo che l’origine di Sars-CoV-2 è implicitamente considerata un accidente, vuoi causato dallo spillover di un virus per cause naturali, vuoi per un problema verificatosi nel laboratorio di Wuhan. Questa narrazione prende in considerazione le conseguenze più evidenti di quanto accaduto, senza analizzare quasi mai i fattori che causano oggi un rischio di pandemie sempre crescente.

Parte degli scienziati è concorde nel ritenere che la pandemia da Covid-19 non è che la conseguenza prevedibile di una serie più profonda di alterazioni che la nostra civiltà impone all’ecosistema: alterazioni che mettono l’essere umano sempre più a contatto con i virus che naturalmente si evolvono in altre specie e aumentano, quindi, il rischio di eventi pandemici. Centrale è quindi, per gli esperti, il ruolo del cambiamento climatico: in futuro rischierà di contribuire sempre più allo scoppio di nuove pandemie, alterando distribuzione e quantità di animali portatori di agenti patogeni.

È dunque necessario, per prevenire pandemie future, spostare il dibattito globale su questo punto, in cerca di soluzioni globali e coordinate a livello internazionale. La pandemia da Covid-19 non è che la più dirompente conseguenza, finora, della crisi generale della biosfera e degli ecosistemi, di cui la crisi climatica è solo un aspetto.

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