Ma davvero i giovani non hanno più voglia di lavorare? - Facta
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Ma davvero i giovani non hanno più voglia di lavorare?

di Anna Toniolo

«I giovani non hanno più voglia di lavorare» è diventato un mantra che ciclicamente torna a modellare la discussione pubblica. Questa tesi è sostenuta principalmente dalle generazioni dei cosiddetti boomer e baby boomer e da imprenditori e imprenditrici alla ricerca di personale che puntano il dito contro dei generici “giovani”. 

Negli ultimi anni imprenditori, grandi chef e vari personaggi pubblici hanno contribuito a creare allarmismo sul tema. Nel 2022, ad esempio, il cuoco e volto noto della televisione Alessandro Borghese aveva denunciato in un’intervista al Corriere della Sera le difficoltà nel trovare personale da inserire in uno dei suoi team, dichiarando che i giovani «preferiscono tenersi stretto il fine settimana per divertirsi con gli amici», aggiungendo che «lavorare per imparare non significa essere per forza pagati». Lo stesso allarme era stato confermato poco dopo anche dall’imprenditore Flavio Briatore, che aveva dato ragione a Borghese sostenendo che «molti ragazzi cercano lavoro sperando quasi di non trovarlo». Ma la lista è lunghissima e i media straripano di articoli che riportano storie di imprenditori che cercano personale, ma non lo trovano, scagliandosi contro la svogliatezza dei giovani. Anche se, a uno sguardo più attento, si scopre nella maggior parte dei casi che in realtà erano le condizioni lavorative a non essere particolarmente attraenti, quando non addirittura del tutto inaccettabili

Questo refrain non è però una moda recente, ma una dinamica che va avanti da decenni. La giornalista Charlotte Matteini l’8 giugno 2023 aveva raccolto per il Fatto Quotidiano una serie di vecchi articoli giornalistici pubblicati nel corso degli anni da la Stampa e Repubblica, dimostrando come già più di 60 anni fa i quotidiani accusassero le giovani generazioni di non aver alcuna predisposizione al duro lavoro. A partire da La Stampa che l’8 settembre 1959 – quasi 65 anni fa – titolava “Pochi giovani vogliono apprendere l’oscura e raffinata arte del cuoco” e nel novembre 1978 lo stesso quotidiano si domandava “Perché molti giovani rispondono negativamente alle offerte di lavoro dell’Ufficio di collocamento?”. Fino a Repubblica, che nel 2003 riportava le lamentele del preside di un istituto salesiano secondo cui il problema non era solo di mercato, «ma di mentalità dei giovani che, in molti casi, non sanno accontentarsi del primo impiego per poi guardarsi attorno».

Se è vero che questo ritornello accusatorio nei confronti di una generica platea di “giovani” si ripropone da decenni, vale la pena specificare che oggi la situazione lavorativa delle persone con meno di 35 anni in Italia è complicata e il quadro generale ben più complesso di un semplice «non hanno voglia di lavorare». La fotografia del mercato del lavoro, oggi, descrive infatti un contesto che si regge anche su precariato, stipendi in nero, paghe molto basse e ore di straordinario non retribuite. E coloro che sono chiamati a farsi carico di queste condizioni sono principalmente loro, i cosiddetti “giovani”. 

Salari bassi e precarietà: la vulnerabilità delle condizioni lavorative 
Le giovani generazioni in Italia sono spesso costrette ad accettare lavori che offrono retribuzioni insufficienti, con contratti discontinui e condizioni che li espongono allo sfruttamento e all’insicurezza. Per comprendere appieno la situazione occupazionale dei giovani in Italia è fondamentale andare oltre una singola analisi statistica che misuri i flussi di ingresso e uscita dal mercato del lavoro in base a età, genere e settore di attività. È cruciale, invece, valutare la capacità del mercato del lavoro di fornire stabilità e salari adeguati ai giovani, garantendo loro prospettive future e sicurezza occupazionale. 

Secondo i dati Istat, nel 2023 il tasso di occupazione dei giovani tra i 15 e i 29 anni era del 34,7 per cento, ricordando che Istat considera occupato chi, nella settimana di raccolta dei dati, ha detto di aver lavorato almeno un’ora retribuita o chi è momentaneamente assente dal lavoro. Il tasso di disoccupazione, invece, cioè le persone che non hanno un lavoro e lo stanno attivamente cercando, sempre per la stessa fascia d’età, era del 16,7 per cento, in calo di 1,3 punti percentuali rispetto all’anno precedente. Esiste poi un’altra categoria, i cosiddetti “Neet” (Not [engaged] in education, employment or training), che Istat definisce come giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione. Secondo quanto riportato dall’istituto nazionale di statistica, nel 2023 i Neet in questa fascia d’età in Italia erano circa 1,4 milioni. Se si considerano tra i “giovani”, invece, anche i cittadini fino a 34 anni di età, allora il numero sale a circa 2,1 milioni. L’entrata in questa condizione molto spesso è profondamente determinata, più che altro, da disuguaglianze e divari territoriali. 

Questa situazione può essere spiegata con l’assunto secondo cui i giovani non abbiano «voglia di lavorare», ma descrivono un quadro ben più complesso. È, infatti, conseguenza del fatto che la condizione occupazionale dei e delle giovani in Italia è caratterizzata da un alto livello di vulnerabilità: difficoltà di inserimento e di permanenza nel mercato del lavoro, forme contrattuali che non garantiscono rapporti di lavoro di lungo periodo, salari più bassi di quelli delle generazioni precedenti e lavoro irregolare.

Un rapporto realizzato dal Consiglio nazionale dei giovani (Cng), cioè l’organo consultivo che rappresenta i giovani italiani nel dialogo con la presidenza del Consiglio e, più in generale, con le istituzioni, con il supporto dei Servizi europei per l’impiego (Eures), riporta un’indagine condotta su un campione di 960 giovani della fascia 18-35 anni rivelando che, nei cinque anni dal completamento degli studi, il 33,3 per cento degli intervistati viveva una situazione di elevata discontinuità lavorativa, cioè una durata della disoccupazione superiore al 40 per cento del tempo. Inoltre, un’ampia maggioranza dei giovani coinvolti ha indicato di ricevere una retribuzione inferiore ai 10mila euro annui, il 23,9 per cento addirittura inferiore ai 5mila euro.  

I dati riportati in un documento pubblicato nel novembre 2023 dall’​​Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato dell’Inps mostra che nel 2022 la retribuzione media annua per questa tipologia di lavoratori fino a 19 anni era di 3.995 euro, tra i 20 e i 24 anni era di 10.859 euro – meno di mille euro al mese –, mentre arrivava a 16.645 per i lavoratori tra i 25 e i 29 anni, toccando poco più di 20 mila euro medi annui per i lavoratori tra i 30 e i 34 anni. E se scomponiamo questi dati per genere, le donne guadagnano ancora meno degli uomini, con una retribuzione media annua di 8.523 euro tra i 20 e i 24 anni, contro i 12.527 euro annui dei coetanei maschi, e di 14.407 euro tra i 25 e i 29 anni, circa quattromila euro di differenza rispetto ai maschi nella stessa fascia di età.  

Il rapporto redatto dal Cng con il supporto di Eures ha fatto luce anche su un altro aspetto che riguarda i salari. Sul campione di 960 giovani considerati, il 61,5 per cento ha dichiarato di aver accettato un lavoro sottopagato, il 37,5 per cento di aver ricevuto pagamenti inferiori a quelli pattuiti e il 32,5 per cento di non essere stato pagato affatto per il lavoro svolto, in assenza di garanzie a loro tutela.

È importante evidenziare anche che i giovani di oggi hanno stipendi più bassi rispetto ai loro genitori. Nel 1985 il salario annuo mediano –  cioè quello che si trova a metà della distribuzione dei salari – di un lavoratore con più di 55 anni di età era più alto del 15 per cento rispetto a quello di un lavoratore con meno di 35 anni. Nel 2019 questo divario era superiore al 30 per cento. E la spiegazione di questo fenomeno è la stessa che sta dietro a molti altri problemi del nostro Paese: la mancanza di mobilità economica e sociale negli ultimi decenni.

Secondo i dati più aggiornati forniti da Eurostat, in Italia nel 2022 l’8,6 per cento dei giovani tra i 20 e i 29 anni viveva sotto la soglia di povertà relativa, cioè ha dichiarato di lavorare come dipendenti o come lavoratori autonomi, pur disponendo di un reddito inferiore alla soglia di rischio di povertà. 

Ma il problema non riguarda solo gli stipendi. A rendere ancora più vulnerabili le fasce giovani della forza lavoro contribuisce la precarietà dell’occupazione. L’Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato nel 2023 ha evidenziato, infatti, che il differenziale retributivo per età è strettamente connesso alla presenza di lavoro stagionale o a termine, e questo è rilevante soprattutto per le fasce di età più giovani. 

Per favorire la transizione verso la vita adulta – e di conseguenza poter strutturare progetti di medio-lungo periodo – l’occupazione dei giovani dovrebbe essere caratterizzata da stabilità e livelli retributivi adeguati. Le analisi statistiche pubblicate in una ricerca condotta dal Cng, Eures e l’Agenzia italiana per la gioventù (AIG) nell’aprile 2024, però, indicano una situazione diametralmente opposta. Secondo l’analisi, nel 2022 i lavoratori dipendenti del settore privato non agricolo, i cui rapporti di lavoro erano determinati da un contratto a tempo indeterminato, erano 12,4 milioni, ovvero il 73,1 per cento del totale. I cosiddetti contratti “atipici” erano invece 4,6 milioni, di cui il 23,1 per cento a tempo determinato e il 3,8 per cento stagionali. Se però si concentra l’attenzione sui giovani, cioè sulla fascia 15-34 anni, lo scenario assume una connotazione più critica: i dipendenti a tempo indeterminato scendono al 59,1 per cento, mentre quelli con contratti atipici diventano il 40,9 per cento del totale, il 34,8 per cento dei quali con contratti a tempo determinato e la restante parte con contratti stagionali. Se si scompongono ancora di più le categorie e si guarda alla fascia ancora più giovane, cioè quella tra i 15 e i 24 anni, la percentuale di contratti a tempo indeterminato si abbassa ulteriormente, arrivando al 42,3 per cento, mentre i contratti determinati e stagionali sono maggioritari. 

Questa serie di dati mette in evidenza le difficoltà che il mondo del lavoro riserva alle nuove generazioni, dove l’occupazione è per lo più trainata da contratti a termine, stagionali o intermittenti, e poco sicuri. Prima di affermare che i giovani non hanno voglia di lavorare è dunque fondamentale comprendere la realtà delle loro condizioni lavorative, caratterizzate principalmente da precarietà e salari bassi. Analizzare questi fattori offre una visione più chiara del panorama occupazionale italiano. 

La “fuga” all’estero
A indebolire ancora di più lo stereotipo secondo cui i giovani di oggi non avrebbero voglia di lavorare si inseriscono i dati sull’emigrazione giovanile dall’Italia verso altri Paesi. Una conseguenza dei problemi strutturali che affliggono la cultura economica e sociale italiana, che si riflette nella scarsa disponibilità di opportunità e retribuzioni adeguate. 

Secondo Istat, ha un’età compresa tra 25 e 34 anni un emigrato italiano su tre. In totale, nel 2021 i giovani in questa fascia di età che hanno lasciato l’Italia sono stati 31mila, di cui oltre 14 mila con una laurea o un titolo superiore alla laurea. Il rapporto “Italiani nel mondo” del 2023, redatto da Fondazione Migrantes, ha evidenziato come il 44 per cento delle partenze per espatrio, avvenute da gennaio a dicembre 2022, abbia riguardato giovani italiani tra i 18 e i 34 anni. Sempre secondo lo stesso rapporto, che rielabora i dati dell’Anagrafe italiana, gli espatri di questa specifica classe di età continuano a crescere, nonostante in generale, nel 2022, si sia rilevato un decremento delle partenze ufficiali – e quindi con iscrizione all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) – dei nostri e delle nostre connazionali oltre i confini italiani.

Uno studio realizzato dalla Fondazione nord est insieme all’associazione Talented Italians in the UK, pubblicato nell’ottobre 2023 e basato sull’osservazione di fenomeni statistici, ha rivelato che l’ondata migratoria dei giovani registra dimensioni che la rendono paragonabile a quelle del passato. Secondo questa ricerca, la presenza di giovani italiani negli altri Paesi europei sarebbe superiore a quella che le statistiche Istat mostrano. La causa della sottostima risiederebbe nel divario che si crea tra il numero dei giovani emigrati che si iscrivono all’Aire, e che poi risultano conteggiati nei dati Istat, e quelli risultanti invece dagli uffici statistici dei Paesi europei di arrivo, più vicini a quelli effettivi. 

Come hanno evidenziato i colleghi di Pagella Politica, negli ultimi vent’anni gli italiani che sono tornati nel nostro Paese sono stati 810 mila, in media oltre 40 mila ogni anno. A fronte degli espatri, tra il 2002 e il 2021 l’Italia ha perso dunque circa 600 mila persone, in media 30 mila ogni anno. 

I fattori che influenzano la presenza dei giovani nel mercato del lavoro sono vari
Elevati tassi di disoccupazione giovanile, contratti precari e bassi salari sono fattori che spesso rendono difficile realizzare le proprie ambizioni professionali e garantirsi un futuro stabile. Di conseguenza, molti giovani italiani vedono nell’emigrazione una possibilità per trovare migliori prospettive lavorative, salari più alti e un ambiente più favorevole allo sviluppo professionale e personale. Ma la presenza nel mondo del lavoro delle generazioni più giovani è influenzata da altri molteplici fattori e le loro scelte sono guidate, anche, da nuove consapevolezze e valori. Ad esempio, come riferisce un report dell’azienda di consulenza Deloitte intitolato “2023 Gen Z and Millennial Survey”, molti giovani appartenenti alla Generazione Z e millennial prendono decisioni di carriera basate sui loro valori e vogliono avere il potere di guidare il cambiamento all’interno delle loro organizzazioni. La stessa analisi riporta la testimonianza di un giovane appartenente alla Gen Z e proveniente dal Sudafrica, che ha dichiarato: «credo nella sostenibilità ambientale e mi rifiuto di far parte di qualcosa che non tenga conto dell’ambiente». Sostenibilità ambientale, inclusività, ma anche salute mentale, carichi di lavoro pesanti, scarso equilibrio con la vita privata e culture aziendali malsane sono elementi che le nuove generazioni considerano e valutano quando si trovano di fronte a un’offerta di lavoro. Tutti valori importanti, che hanno un impatto sulla loro vita, sulle vite degli altri e addirittura sul Pianeta, ma che spesso le generazioni più “anziane” considerano solo come dettagli insignificanti.

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