Di Anna Toniolo
A quasi un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin, lunedì 23 settembre è iniziato a Venezia il processo a Filippo Turetta, ex fidanzato della vittima e suo assassino, che non era presente in aula e la cui sentenza dovrebbe arrivare il prossimo 3 dicembre. Proprio pochi giorni prima dell’inizio del procedimento giudiziale l’opinione pubblica era tornata a parlare del femminicida, dopo che il 20 settembre la trasmissione Quarto Grado, in onda su Mediaset, aveva reso pubblico per la prima volta e in esclusiva il video del suo interrogatorio – avvenuto il 1° dicembre 2023 e durato circa sette ore – nel carcere Montorio di Verona, durante il quale il ragazzo aveva raccontato agli inquirenti tutti i dettagli dell’omicidio.
Da quel momento la maggior parte dei media mainstream ha condiviso immagini, clip e citazioni estrapolate dal video dell’interrogatorio e varie foto dell’assassino reo confesso hanno iniziato a circolare sui social, spesso collegate ad alcune teorie del complotto secondo cui Turetta non esisterebbe davvero e che continuano a circolare da un anno in maniera ininterrotta. Ma c’è davvero bisogno di avere informazioni di questo tipo, o si tratta di sensazionalismo e pornografia del dolore?
Un altro recente caso che suscita domande simili è quello che riguarda la puntata di lunedì 23 settembre di Pomeriggio Cinque, in onda su Canale 5, in cui il cinquantenne Lorenzo Carbone ha confessato di fronte alle telecamere di aver ucciso la madre ottantenne, Loretta Levrini, che era stata trovata il giorno prima deceduta nella sua casa. Fabio Giuffrida, l’inviato della trasmissione, è riuscito ad avvicinare l’uomo che si trovava disorientato e in evidente stato di shock, incalzandolo con alcune domande. Da queste è poi scaturita l’ammissione di colpa, andata poi in onda durante il programma, in cui si vede anche Giuffrida chiamare le forze dell’ordine per denunciare l’accaduto. La scelta della conduttrice Myrta Merlino di trasmettere quelle immagini ha scatenato un acceso dibattito tra chi come Gaia Tortora, vicedirettrice del Tg La7, afferma che si tratti di un fatto gravissimo, che non doveva essere diffuso e che va contro la deontologia giornalistica, e chi invece, come la stessa Merlino, assicura di aver rispettato la professionalità perché le notizie devono sempre essere date e l’unico limite da porsi è non intralciare le indagini.
Soprattutto quando si parla di cronaca nera il limite tra cosa dire e cosa non dire, tra cosa mostrare e cosa evitare, è spesso poco chiaro e la tentazione di spettacolarizzare il dolore altrui per attirare lettori o spettatori è molto forte. Anche se questo, nella maggior parte dei casi, riporta conseguenze sulle persone coinvolte.
Il video di Quarto grado ha alimentato la disinformazione
Come già detto, dopo la diffusione del video dell’interrogatorio di Filippo Turetta, alcune immagini del femminicida hanno iniziato a circolare sui social come prova a supporto del fatto che il ragazzo, in realtà, non esisterebbe. Chi ha condiviso contenuti di questo tipo mette in evidenza che Turetta sarebbe troppo diverso nelle varie foto diffuse dai media e non sarebbe, quindi, sempre la stessa persona. Qualcuno addirittura sostiene che nelle immagini dell’interrogatorio mancherebbero dei nei sul viso, che invece sarebbero presenti in altri scatti: dimostrazione del fatto che vengono usate sempre controfigure diverse per far credere all’opinione pubblica che si tratti sempre della stessa persona. In realtà questa narrazione rientra in una teoria del complotto diffusa ormai da vari mesi secondo cui Turetta e Cecchettin non sarebbero persone esistenti, ma una montatura dei media per creare allarmismo rispetto a una falsa “emergenza femminicidi”.
Come avevamo spiegato in un precedente approfondimento su Facta, si tratta di una narrazione generata da influencer della disinformazione come Cesare Sacchetti o lo youtuber Gian Luca Gregis (professionista del complottismo noto come “Il Greg”) e dalla cerchia dei cosiddetti “mattonisti”, ovvero troll impegnati a produrre materiale in grado di squalificare la causa del contrasto alla violenza di genere. La maggior parte dei contenuti che rientrano in questa narrazione si basano su un presupposto che non è corretto, cioè quello secondo cui nessuno avrebbe mai visto Filippo Turetta dopo l’omicidio. In realtà non è così: Turetta è stato riportato in Italia dalla Germania, dove era stato arrestato, il 25 novembre 2023 con un volo dell’Aeronautica militare, e i media hanno diffuso le foto del 21enne mentre si trovava con le forze dell’ordine italiane.
Si tratta di una rappresentazione che cerca di scagionare un reo confesso per arrivare a negare l’esistenza stessa dei femminicidi, che sono in realtà un fenomeno concreto, verificabile e drammaticamente tangibile. Tra il 1° gennaio e il 22 settembre 2024 in Italia sono state uccise 76 donne, di cui 68 in ambito familiare e affettivo e 41 da partner o ex partner.
L’informazione che si trasforma in pornografia del dolore
Quando si parla di pornografia del dolore nel giornalismo, si intende un servizio, un articolo, o più in generale un contenuto, progettato per scatenare una intensa risposta emotiva, per produrre un coinvolgimento rapido e superficiale, spettacolarizzando il dolore altrui. Si tratta di una tecnica che può funzionare per coinvolgere immediatamente il maggior numero di persone, ma non offre alcuna notizia particolarmente rilevante né una comprensione effettiva di ciò che viene mostrato.
Nel 2008 l’Agcom, cioè l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, aveva emanato una delibera sulla rappresentazione di temi di cronaca nera e giudiziaria nelle trasmissioni radiotelevisive. In questa si evidenziava l’importanza di evitare di «trasformare il dolore privato in uno spettacolo pubblico che amplifichi le sofferenze delle vittime» e di sottrarsi alla pratica di rendere i soggetti del processo celebrità o personaggi pubblici.
In un report elaborato nel 2015 dal consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e dall’Osservatorio di Pavia, un istituto di ricerca indipendente specializzato nell’analisi dei media, emergeva come già quasi dieci anni fa nei programmi tv l’attenzione alla cronaca nera fosse molto ampia e trasmissioni come Pomeriggio Cinque o Chi l’ha visto? raffigurassero il dolore in maniera strumentale, con un’intensità emotiva estrema e utilizzando la logica assorbente dell’infotainment, cioè una forma di comunicazione che combina informazione e intrattenimento.
Serena Bersani, presidente di Giornaliste unite libere autonome (Giulia), associazione di giornaliste che si batte per una corretta rappresentazione di genere sui media e contro il gender gap nelle redazioni, ha spiegato a Facta che ad oggi questa tecnica «è sempre più utilizzata», in particolare quando si parla di cronaca nera o giudiziaria. Nella maggior parte dei casi, però, il mix tra informazione e intrattenimento ha come risultato «la violazione delle carte deontologiche» e «la diffusione di informazioni fuorvianti e di processi sommari» che hanno come obiettivo l’aumento dell’audience o dei click attraverso presunti scoop o particolari morbosi.
Dentro questo tipo di narrazione del dolore, infatti, la notizia si trasforma in storia. Lo spettacolo è riempito di dettagli superflui che non hanno realmente una valenza di interesse pubblico e di pertinenza con l’indagine e la cronaca del fatto. Sempre secondo Bersani, le conseguenze di questo tipo di informazione sono varie: prima di tutto il rischio di assuefazione al dolore del pubblico, ma anche la mancanza di rispetto sia per le vittime sia per le altre persone coinvolte, fino al rischio di «arrivare a ai processi con pregiudizi fortissimi, perché colpevoli e presunti sono già stati giudicati e valutati dall’opinione pubblica». E, ancora una volta, il rischio di diffondere disinformazione è molto alto perché spesso, per questioni di spazio e di tempo, alcuni dettagli vengono riportati senza un’analisi dettagliata del contesto in cui dovrebbero essere inseriti e questo provoca confusione. «È importante ricordare», ha continuato la presidente di Giulia, che spesso le informazioni spettacolarizzate dai media «vengono messe in giro da chi ha un particolare interesse che questo materiale, o queste informazioni, siano diffuse», ad esempio per migliorare o peggiorare l’immagine di una delle persone coinvolte nel caso.
La violenza di genere non deve diventare voyeurismo
Quando si tratta di casi di violenza di genere, la forbice di rischi e benefici rispetto all’utilizzo e alla diffusione di immagini e dettagli che spettacolarizzano il dolore, si allarga ancora di più. Il video dell’interrogatorio di Filippo Turetta, ad esempio, ha alimentato una narrazione della disinformazione completamente infondata che ha come obiettivo sminuire la violenza di genere, anzi, addirittura negarla. Ma gli esempi di questo tipo sono tanti, dai femminicidi di Carol Maltesi e Giulia Tramontano, su cui non sono stati risparmiati i dettagli più macabri e aggiornamenti sulle vite degli omicidi come se fossero personaggi del gossip.
Recentemente la Repubblica ha pubblicato un articolo in cui descriveva come nella vita di Chiara Petrolini, donna accusata di omicidio premeditato e soppresione di cadavere dei due neonati morti e sepolti nel giardino della sua villetta a Traversetolo, in provincia di Parma, «potrebbe esserci una violenza sessuale non denunciata». La donna non ha mai parlato di questo episodio nelle sue dichiarazioni, ma l’informazione pubblicata dal media, e ripresa da altre testate, sarebbe stata riportata da «testimonianze di persone vicine alla ragazza», ma ancora non è stata confermata. Secondo la presidente di Giornaliste unite libere autonome, Serena Bersani, si tratta di un fatto molto grave prima di tutto perché «è una notizia che non esiste, visto che è una voce che non è stata accertata prima di riportarla nell’articolo» e in secondo luogo perché «a nostro modo di vedere, se si parla di uno stupro si deve in tutti i modi proteggere l’identità della vittima» come, invece, non è stato fatto in questo caso.
Eppure ci sono documenti e normative pensati per proteggere la dignità delle persone nei media, alcuni dei quali sono specificamente dedicati al modo in cui deve essere trattata la violenza di genere, per evitare di spettacolarizzare il dolore o causare conseguenze più gravi.
L’articolo 5-bis del testo unico dei doveri del giornalista prevede che nei casi di femminicidio, violenza, molestie, discriminazioni e fatti di cronaca, che coinvolgono aspetti legati all’orientamento e all’identità sessuale, il giornalista tra le altre cose si attenga «all’essenzialità della notizia e alla continenza» e presti attenzione «a non alimentare la spettacolarizzazione della violenza». Inoltre nel 2017 è stato creato il Manifesto di Venezia per il rispetto e la parità di genere nell’informazione, promosso ed elaborato dalle commissioni Pari Opportunità della Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi) e Usigrai, cioè il sindacato dei giornalisti Rai, insieme all’associazione Giulia e il Sindacato giornalisti Veneto. L’obiettivo è quello di orientare una informazione «attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere» e delle sue implicazioni poiché la descrizione della realtà al di fuori di stereotipi e pregiudizi, «è il primo passo per un profondo cambiamento culturale della società e per il raggiungimento di una reale parità».
I media hanno abituato il pubblico a sentirsi partecipe di drammi familiari, casi di cronaca nera, violenze, stupri e omicidi, trasformando il pubblico stesso in un giudice popolare pronto ad alimentare processi mediatici che spesso, però, non considerano il rispetto o l’attenzione per le vittime, i loro cari, e per tutte le persone coinvolte. Il diritto di cronaca è sicuramente il fondamento del giornalismo, ma questo non può e non deve trasformarsi in un abuso.