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Per capire gli uragani la scienza del clima è più utile delle fantasie complottiste

Di Antonio Scalari

Helene e Milton. Sono i nomi che nella stagione atlantica degli uragani del 2024, iniziata ufficialmente il 1° giugno e ancora in corso, spiccano tra quelli dei sistemi ciclonici che si sono succeduti fino ad oggi. Due uragani, rispettivamente di categoria 4 e 5, che hanno inflitto pesanti danni alle comunità che hanno investito. Il passaggio di Helene ha lasciato dietro di sé inondazioni, distruzioni e morti negli Stati Uniti sud-orientali, accanendosi in particolare sullo Stato del North Carolina. Anche Milton, seppur meno catastrofico di quanto si fosse temuto, ha fatto alcune vittime in Florida.

La formazione di due uragani di questa portata, nello spazio di appena due settimane, ha riportato all’attenzione il rapporto tra questi fenomeni e il cambiamento climatico. Secondo due analisi di attribuzione, sia Helene che Milton recano l’impronta dell’aumento della temperatura globale.

Ma a interessarsene non sono stati solo gli scienziati. Gli Stati Uniti sono nella fase finale di una tumultuosa campagna per l’elezione presidenziale, che deciderà se nei prossimi quattro anni la Casa Bianca tornerà a essere occupata da Donald Trump, candidato ed espressione di un mondo che fa della disinformazione sul clima un’arma di propaganda.

Sull’origine dell’uragano Milton sono tornate a galla vecchie narrazioni cospirative, come quella sul programma HAARP, o altre, altrettanto fantasiose, che scomodano, nientemeno, che raggi laser spaziali. Non è mancata la disinformazione sulla geoingegneria e il cloud-seeding, un filone ormai classico che abbiamo visto in azione anche in occasione di altri eventi meteorologici recenti.

Queste ipotesi “alternative” hanno un denominatore comune, oltre a quello di essere tutte prive di fondamento: spostano la discussione dalla scienza che si occupa del clima e dell’atmosfera che, al contrario di ciò che affermano i sostenitori delle teorie complottiste, è l’unica che ci può aiutare a capire cosa sono gli uragani, come si originano e cosa sta cambiando sul nostro pianeta.

La ricetta di un uragano
Per fare un uragano servono diversi ingredienti. La sua preparazione prende il via in un’area di bassa pressione sulla superficie marina, lungo la quale si verificano temporali e rovesci ancora disorganizzati. Affinché la gestazione abbia inizio, la temperatura dell’acqua deve essere almeno di 26.5 gradi centigradi per una profondità di una cinquantina di metri. È un fattore essenziale e si ritrova nelle fasce tropicali, come nell’Oceano Atlantico al largo dell’Africa occidentale o nel Mar dei Caraibi.

L’acqua calda evapora dalla superficie marina e l’aria risale in quota, dove si raffredda e si condensa formando nuvole temporalesche. Il calore rilasciato in questo processo spinge l’aria verso l’esterno del sistema in formazione. Ciò, a sua volta, causa un abbassamento della pressione all’interno, che accelera il flusso di aria calda e umida. 

I grappoli di nubi temporalesche iniziano così a strutturarsi attorno un nucleo, l’occhio del ciclone, dove la pressione crolla. I venti circolanti aumentano sempre di più la loro velocità fino a quando, raggiunti i 119 chilometri all’ora, la tempesta tropicale diventa un uragano di categoria 1.

Un altro ingrediente fondamentale è la distanza dall’equatore, che deve essere abbastanza grande, circa 600 chilometri, perché il sistema risenta della forza di Coriolis, l’effetto causato dalla rotazione della Terra che imprime agli uragani una rotazione antioraria nell’emisfero settentrionale e oraria in quello meridionale. Al di sotto dei 5 gradi di latitudine gli uragani non riescono a formarsi.

I cicloni tropicali si indeboliscono una volta toccata la terraferma, dove non possono più trarre energia per sostenersi. Ciò non significa che smettano di essere pericolosi, come ha dimostrato l’uragano Helene. 

Macchine atmosferiche che traggono energia dal calore, questo sono in sostanza gli uragani. E il calore oggi sta abbondando sulla Terra.

Più calore, più energia
Il collegamento tra gli uragani e il cambiamento climatico è più complesso da decifrare rispetto a quello di altri fenomeni estremi, come le ondate di caldo e le siccità. Una delle ragioni è che si tratta di eventi relativamente rari, perciò è più difficile discernere una tendenza storica. Ma i principi della fisica dell’atmosfera, insieme alle evidenze emerse nella ricerca, ci suggeriscono alcuni meccanismi attraverso cui il cambiamento climatico può rendere gli uragani non più frequenti, ma più energetici, intensi e distruttivi.

Negli ultimi 50 anni la Terra ha continuato ad accumulare calore a causa dei gas serra. Il 90 per cento di questo calore in eccesso viene assorbito dagli oceani. Come abbiamo visto, questa è la principale benzina nel motore degli uragani. Le temperature decisamente alte, rispetto ai valori normali, che le acque del Golfo del Messico hanno toccato durante il mese di settembre hanno dato una mano agli uragani Helene e Milton

In uno studio pubblicato ad agosto alcuni esperti hanno osservato che nel Golfo del Messico un uragano ha una probabilità del 50 per cento in più di andare incontro a un’intensificazione rapida quando si sta sviluppando un’ondata di calore marina. Una ricerca precedente, apparsa nel 2023, rilevava che il tasso di intensificazione medio dei cicloni tropicali nell’Oceano Atlantico è già cambiato, diventando fino al 28,7 per cento più elevato nel periodo 2001-2020 rispetto a quello 1971-1990. 

Anche l’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel On Climate Change (IPCC) aveva riconosciuto che è probabile (dove “probabile” esprime una percentuale compresa tra il 66 e il 100 percento) che negli ultimi 40 anni sia aumentata la proporzione di uragani di categoria compresa tra 3 e 5 e anche la frequenza di cicloni a rapida intensificazione.

Un altro meccanismo attraverso cui il cambiamento climatico può intensificare un uragano coinvolge l’umidità che, come abbiamo visto, è un altro importante ingrediente per la formazione dei cicloni tropicali. Un’atmosfera più calda contiene più vapore acqueo, un principio stabilito da una nota equazione. Per un uragano questo significa più pioggia che può essere scaricata sui territori che vengono investiti. Nella stagione degli uragani atlantici del 2020 la quantità di precipitazioni è stata maggiore e questo è un effetto che si può attribuire all’aumento della temperatura, quindi alle emissioni antropiche di gas serra. 

C’è un terzo fattore che spiega perché il cambiamento climatico può rendere gli uragani più pericolosi: l’innalzamento del livello degli oceani. È un fenomeno in atto e che possiamo, senza dubbio, attribuire al riscaldamento globale attraverso la fusione delle calotte glaciali e dei ghiacciai e l’espansione termica dell’acqua marina. In un mondo più caldo, a parità di intensità, un uragano causa inondazioni delle aree costiere più distruttive. E in un mondo sempre più caldo le conseguenze sarebbero ancora più serie.

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