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La straordinaria complessità della disinformazione

La disinformazione è un caos di fenomeni diversi, ma l’unico modo per contrastarla è ancora quello di affidarsi alle persone

22 ottobre 2024
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C’è un diffuso desiderio di semplificare cosa sia e come funzioni la disinformazione. Cittadini, imprese, istituzioni, media e governi sono infatti spesso chiamati a occuparsi – a vario titolo – di disinformazione, a riconoscerla, a contrastarla. Di qui viene una comprensibile voglia di semplificare, per capire cosa fare e per capire se quel che si è fatto ha funzionato oppure no. Purtroppo però la disinformazione non è un fenomeno, e nemmeno una somma di fenomeni. È un caos di fenomeni diversi, che vanno in tutte le direzioni, a volte razionalmente, a volte irrazionalmente come schegge impazzite. Senza la pretesa di spiegare e chiarire tutto, proviamo quantomeno a dare conto di questa enorme complessità.

Disinformazione e misinformazione
Una prima distinzione che si può fare è quella tra disinformazione e misinformazione, intendendo con la prima le falsità create per fuorviare gli altri e deliberatamente diffuse con l’intento di confondere fatti e finzione, e con la seconda la diffusione involontaria di false informazioni senza intento di nuocere. Questa distinzione è molto importante quando si cerca di attribuire la responsabilità di determinate campagne di manipolazione dello spazio informativo, ad esempio se vedono il coinvolgimento di attori esterni e Stati stranieri. A volte, però, è quasi impossibile ricostruire nel dettaglio la catena di azioni e di responsabilità che ha portato un certo contenuto falso a diventare virale e ad avere un impatto nel mondo reale: chi l’ha creato per primo, chi l’ha diffuso, chi e come l’ha reso virale, che ruolo hanno avuto i vari attori nelle varie fasi del processo e via dicendo. L’esistenza di gruppi nascosti, chat protette, canali di comunicazione privati e via dicendo può rivelarsi un ostacolo insormontabile nel lavoro di attribuzione di una certa falsità a un determinato soggetto. Altre volte, in compenso, la responsabilità è chiara e facilmente ricostruibile.

In qualità di fact-checker abbiamo in ogni caso come primo dovere quello di verificare se un certo contenuto è veritiero oppure no. Alle persone che lo leggono e che vengono influenzate da eventuali falsità, infatti, può legittimamente non interessare se chi ha inquinato lo spazio informativo lo ha fatto apposta oppure no. Le conseguenze finali, spesso, sono le medesime. 

Il triangolo della disinformazione domestica
La circolazione della dis- e mis-informazione generata e diffusa dai vari attori domestici di uno Stato (parleremo tra poco degli attori esterni) si può semplificare immaginando un triangolo i cui vertici sono collegati da frecce che vanno in tutte le direzioni.

I vertici rappresentano le tre principali categorie di attori che vengono coinvolti in questo fenomeno: i politici, i social network e i media tradizionali. All’interno dei social network c’è poi una vasta gamma di attori diversi, dai singoli utenti ai gruppi, dagli influencer alle pagine, e via dicendo. La dis- e mis-informazione può prendere qualsiasi strada: può nascere ad esempio dalla dichiarazione errata di un politico, che viene riportata dai media tradizionali senza verificarne la correttezza e che finisce poi per diventare virale sui social network grazie a meme e altri contenuti analoghi. Oppure può nascere su un social network per l’azione di un utente o di un gruppo di utenti, e qui diventare virale, prima di essere ripresa da un politico e così finire sulle pagine dei giornali (o viceversa). O, ancora, può essere un quotidiano o una trasmissione televisiva a fornire una notizia sbagliata, che viene poi ripresa e commentata dai politici, finendo per diventare virale sui social network. 

Facciamo alcuni esempi. Durante la pandemia, nel novembre 2021, il quotidiano il Tempo pubblicò una prima pagina in cui si sosteneva, erroneamente, che i “veri” morti di Covid-19 fossero 3.783, e non gli oltre 130 mila riportati dall’Istituto superiore di sanità (ISS). Il quotidiano aveva male interpretato un rapporto dell’ISS e, nonostante il fact-checking avesse chiaramente dimostrato l’errore, quel numero è presto diventato un tormentone ripetuto dai cosiddetti no-vax sui social e durante le loro manifestazioni dei mesi successivi, arrivando anche nel resto d’Europa e del mondo.

Oppure, a settembre 2020 diversi esponenti dell’allora opposizione di destra, inclusi i leader di Lega e Fdi Matteo Salvini e Giorgia Meloni, commentarono l’approvazione da parte del Parlamento della Convenzione di Faro sui beni culturali, paventando – a torto – «il rischio di dover censurare statue e opere d’arte», in quanto queste potrebbero «confliggere con la “sensibilità” di altre culture, vedi quella islamica». Questa interpretazione errata fu ripresa da diversi quotidiani, come Libero, il Tempo e il Giornale, e finì poi per essere ripresa e commentata anche sui social network.

Infine prendiamo un esempio dall’estero: negli Stati Uniti nell’estate del 2024 ha iniziato a circolare sui social media una teoria del complotto, infondata, secondo cui gli immigrati haitiani regolarmente residenti a Springfield, Ohio, rubano e uccidono cani e gatti dei residenti per mangiarseli. Questa falsità, rilanciata da alcuni tabloid, è poi arrivata addirittura nell’unico dibattito presidenziale tra Donald Trump e Kamala Harris, con il candidato repubblicano che l’ha rilanciata in diretta televisiva.

In questa dinamica di circolazione delle falsità è possibile che alcuni dei soggetti coinvolti agiscano in mala fede – ad esempio il politico che sa di dire una cosa scorretta ma che ritiene sia vantaggiosa per la sua popolarità, o la pagina social che consapevolmente diffonde contenuti fuorvianti che generano molto traffico al fine di monetizzarlo – ma il più delle volte, anche se la creazione della falsità è stata intenzionale o lo sono stati i primi passi nella sua diffusione, la grande maggioranza delle persone che ha contribuito a farla diventare virale ha agito nella convinzione di avere a che fare con un contenuto reale. 

Gli attori esterni
In questo scenario, già intricato, si inserisce poi come elemento di ulteriore complicazione quello delle influenze esterne. Se ne parla moltissimo dall’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, ma il tema è noto e dibattuto sin dal 2016, quando Mosca cercò di influenzare le elezioni presidenziali americane poi vinte da Donald Trump.

Che queste operazioni di interferenza esistano, in particolare da parte del Cremlino, è ormai pacifico ed è stato rivendicato anche da parte della stessa Russia. Nella maggior parte dei casi vanno a incidere sul vertice del triangolo che rappresenta i social network (ma ci sono anche casi di influenza diretta su politici o su media tradizionali). Qui, attraverso un sistema di scatole cinesi che varia di volta in volta (siti web, canali Telegram, profili finti, troll, bot) vengono diffusi contenuti social creati apposta per avvantaggiare gli interessi di Mosca, vengono resi virali e finiscono infine con l’impattare le opinioni pubbliche occidentali. Nel nostro piccolo abbiamo contribuito come Pagella Politica e Facta, nel contesto dello European Digital Media Observatory (EDMO), a portare a conoscenza del pubblico un’operazione di influenza russa a ridosso delle elezioni europee, portata avanti tramite un network di siti che rilanciavano in tutte le lingue europee e in modo coordinato e automatizzato la propaganda e la disinformazione russa.

Il recente leak di documenti interni in un centro di propaganda russo controllato dal Cremlino, la Social Design Agency (SDA), ha poi dato uno spaccato molto interessante e dettagliato delle varie attività di interferenza da parte della Russia nelle opinioni pubbliche occidentali. In particolare risulta come venissero creati ad arte articoli di commento in lingue europee, meme, video, thread sui social, commenti, immagini (false) di street art, addirittura cartoni animati, che poi venivano rilanciati su diversi social media da migliaia di bot affinché diventassero virali. Lo scopo era sostenere le narrazioni di disinformazione della Russia sulla guerra in Ucraina e più in generale portare sostegno a quelle forze politiche che si oppongono agli aiuti militari ed economici a Kiev, danneggiando le altre.

Spesso, tuttavia, la Russia non ha nemmeno bisogno di creare autonomamente contenuti per influenzare le opinioni pubbliche occidentali: le è sufficiente aumentare la diffusione di quelle posizioni politiche, ideologiche o anche di comodo che sono favorevoli ai suoi interessi. In questo senso è particolarmente interessante la recente indagine del dipartimento di Giustizia americano, resa pubblica nel settembre 2024, su una compagnia americana che avrebbe ricevuto 10 milioni di dollari dall’emittente russa RT per diffondere contenuti che supportano gli interessi della Russia. Questa diffusione, secondo l’accusa, avveniva anche tramite influencer di estrema destra e simpatizzanti di Donald Trump, che erano probabilmente ignari di essere usati come pedine di Mosca. Le loro idee, infatti, sono quasi certamente genuine e non dicono le cose che dicono perché imbeccati dal Cremlino, ma perché le pensano davvero. In compenso il Cremlino ha tutto l’interesse affinché quelle cose siano viste e credute dal maggior numero possibile di persone, perché favorevoli agli interessi russi (in particolare, per spingere gli Stati Uniti ad abbandonare l’Ucraina al proprio destino).

Anche se al momento è quasi certamente il fenomeno più rilevante nel suo ambito, le influenze esterne russe non sono le uniche. Sono stati riscontrati in passato, in particolare durante la pandemia, tentativi di influenza da parte della Cina e operazioni di propaganda da parte degli Stati Uniti

Le narrazioni di disinformazione
Prima di concludere vale la pena chiarire un concetto: quello di “narrazioni di disinformazione”, che è fondamentale per capire il funzionamento della disinformazione e il suo complesso rapporto con la libertà di espressione.

In ambito EDMO la definizione di “narrazione di disinformazione” che viene utilizzata è «il messaggio che emerge chiaramente da un insieme di contenuti dimostrabilmente falsi con la metodologia del fact-checking». Questo approccio dal basso verso l’alto, che si basa cioè sull’analisi di contenuti fattuali che non sono opinioni e la cui correttezza o meno può essere dimostrata, e che prescinde dallo stabilire se la falsità è stata creata intenzionalmente o meno, è una fondamentale garanzia contro qualsiasi eccesso di discrezionalità.

Che una certa foto sia stata manipolata, che un video sia stato modificato con l’intelligenza artificiale, che un dato contenuto in una dichiarazione sia errato, non sono questioni soggettive. Se poi questi contenuti veicolano, ad esempio, il messaggio che il governo ucraino è in larga parte composto e supportato da nazisti, si può dire che questa sia la narrazione di disinformazione.

Ma è qui che le cose si complicano. È possibile, e spesso accade, che una narrazione di disinformazione possa sovrapporsi a una legittima opinione, che in quanto tale non può essere considerata vera o falsa. Ad esempio, c’è indubbiamente una narrazione di disinformazione secondo cui gli immigrati, in particolare quelli di religione musulmana, non sarebbero compatibili con le società europee. Nel corso degli anni abbiamo infatti verificato una quantità enorme di contenuti dimostrabilmente falsi e fuorvianti che trasmettono questo messaggio. Ma questo messaggio è allo stesso tempo una legittima opinione. Quando diciamo, quindi, che esiste questa narrazione di disinformazione non stiamo dicendo che l’opinione sia sbagliata, diciamo più semplicemente che a sostegno di quell’opinione sono stati diffusi una serie di contenuti dimostrabilmente falsi.

Diffidare dalle semplificazioni senza cadere nel nichilismo
La disinformazione non è insomma un fenomeno semplice e lineare. È una nube tossica di particelle che sembrano, e spesso sono, impazzite. A volte si riesce a scovare un filo rosso che unisce vari punti e racconta una storia ben precisa, come quella di un’operazione di influenza russa durante la campagna elettorale per le elezioni americane, o come quella di una falsità diffusa sui social dall’estrema destra inglese, a proposito di un caso di cronaca, che porta poi a episodi di violenza contro la comunità musulmana nel Regno Unito. 

È importantissimo che queste storie vengano analizzate e raccontate. Ma non si deve cedere alla tentazione delle semplificazioni: è tutta colpa della Russia, è tutta colpa dei social network, è tutta colpa dell’estrema destra, e via dicendo. Molti di questi attori hanno grandi responsabilità, ma nessuno è da solo il demiurgo della disinformazione. È poi fondamentale non scoraggiarsi: la diffusa circolazione di falsità non vuol dire che sia tutto falso o che non ci si possa fidare più di nulla. Spingere le persone nel nichilismo e nell’apatia, far loro diffidare anche di ciò che è dimostrabilmente vero, è uno degli obiettivi principali di chi diffonde consapevolmente la disinformazione.

Gli attori più importanti nel contrasto alla disinformazione sono insomma le persone. Sono loro che hanno il potere, e quindi la responsabilità, di diffondere o meno un certo contenuto, di renderlo virale, di credere a quello che è vero e di non credere a quello che è falso. Per questo è fondamentale informarle correttamente, investigare e portare alla luce eventuali operazioni di propaganda e disinformazione, mettere a loro disposizione contenuti e strumenti di fact-checking, educarle alla “media literacy” – cioè la capacità di comprendere e valutare criticamente i diversi aspetti dei media a cominciare dai loro contenuti –, e in generale renderle consapevoli del ruolo centrale che ricoprono nella prevenzione e nel contrasto alla disinformazione.

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