Di Antonio Scalari
Il 14 agosto 2024 l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha dichiarato che l’epidemia di Mpox nella Repubblica Democratica del Congo e in altri Paesi dell’Africa centrale è una «emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale», una PHEIC, secondo la definizione adottata dall’OMS, un acronimo che sta per “public health emergency of international concern”.
È la seconda volta in due anni che l’OMS dichiara un’emergenza riguardo all’Mpox. Era accaduto nel luglio del 2022, quando la malattia si stava propagando rapidamente in diversi continenti. Nel maggio del 2023, dopo un declino del numero di nuovi casi, l’emergenza era stata dichiarata conclusa. Dal 2022 ad oggi i casi registrati sono stati più di 99mila e le vittime più di 200.
A spingere l’OMS a intervenire una seconda volta è stata la comparsa di una variante del virus, nella parte orientale nella Repubblica Democratica del Congo e la sua diffusione in alcuni Paesi confinanti. Un evento che Tedros Ghebreyesus, il direttore dell’OMS, ha definito «molto preoccupante».
Sebbene se ne sia parlato diffusamente solo negli ultimi anni, l’Mpox ha una storia più lontana.
L’ennesima zoonosi
Durante l’estate e l’autunno del 1958 una malattia fece la sua comparsa all’interno di una colonia di macachi nei laboratori dello Statens Serum Institut di Copenhagen, un importante centro di ricerca danese che si occupa di malattie infettive e sviluppo di vaccini. Gli animali malati presentavano un’eruzione cutanea, un rash maculopapulare secondo la terminologia medica. Si manifesta con lesioni che si presentano, inizialmente, come macchie, per poi evolvere fino a diventare pustole piene di liquido.
Preben von Magnus, un virologo che lavorava all’istituto, isolò l’agente patogeno e, insieme ad alcuni colleghi, riportò la scoperta in un articolo pubblicato l’anno successivo. Lo studio parlava di un virus che causava una malattia «simile al vaiolo» che, date le circostanze della sua scoperta, fu battezzata “vaiolo delle scimmie”.
Il virus responsabile di questa malattia (Monkeypox virus, MPXV) è un membro della famiglia Poxviridae, il cui rappresentante più celebre è l’agente eziologico del vaiolo umano (Variola virus). Si tratta di virus con un genoma a DNA (a differenza di quello del Covid-19, che è costituito da RNA), caratterizzati da dimensioni piuttosto grandi, le maggiori tra i virus animali.
Anni dopo la sua scoperta, nel 1964, il virus ricomparve all’interno di un zoo di Rotterdam, nei Paesi Bassi, dove accese un focolaio tra primati non umani: oranghi, scimpanzé, gorilla, macachi, e altre specie. La scoperta dei primi casi umani risale al 1970 nella Repubblica Democratica del Congo, durante le campagne epidemiologiche per l’eradicazione del vaiolo.
Nei 30 anni successivi il virus MPXV è rimasto confinato in remote aree rurali e boschive dell’Africa centrale e occidentale. Fino al 2003, quando una bambina di tre anni del Wisconsin, negli Stati Uniti, contrasse un’infezione da un cane delle praterie. Il mammifero, una specie di roditore, era stato acquistato da un negozio di animali domestici, che vendeva roditori di altre specie provenienti dal Ghana, nell’Africa occidentale. Tra maggio e luglio di quell’anno si contarono 47 casi umani di Mpox, sparsi nel Midwest degli Stati Uniti. Tutte persone che presero il virus da cani delle praterie che, a loro volta, erano stati infettati da roditori della stessa partita importata dall’Africa.
Come la maggior parte delle malattie infettive conosciute, anche Mpox rappresenta, dunque, un esempio di zoonosi. Malattie il cui serbatoio originario si trova nel corpo di specie animali. Come i virus dell’AIDS, di Ebola, della SARS, dell’influenza aviaria. Come il virus che ha causato la pandemia di Covid-19 e come diversi altri patogeni emergenti, le zoonosi possono trovare la via per riversarsi negli esseri umani. E diventare un serio problema per la salute pubblica.
Un campanello d’allarme
Nel settembre del 2017 il dottor Dimie Ogoina, uno specialista in malattie infettive della Niger Delta University, in Nigeria, si trovò di fronte a qualcosa che fino a quel momento era considerata una rarità. Un bambino di 11 anni presentava lesioni diffuse sul viso e sul corpo. A prima vista poteva sembrare varicella, ma quel bambino l’aveva già contratta in passato. Perciò, doveva essere qualcos’altro. Le analisi lo confermarono: non si trattava di varicella, ma di Mpox.
Ogoina pensò di essersi imbattuto in un evento isolato. Del resto, l’ultimo caso di Mpox in Nigeria risaliva al 1978. Ma nelle settimane successive si iniziò ad osservare un numero crescente di casi (saranno più di un centinaio, tra quelli confermati e sospetti). Cosa ancora più notevole, i nuovi pazienti non erano più bambini, ma giovani adulti. Ventenni, trentenni. «Uomini giovani e attivi affetti da vaiolo delle scimmie», una cosa «molto insolita in quel momento», come ha riferito il medico in un articolo sul sito della National Public Radio americana.
Il profilo sociale e clinico di questi malati era inusuale. Non erano abitanti di isolate zone rurali, dedite alla caccia o al contatto con animali selvatici potenziali serbatoi del virus, ma provenivano da città affollate, dove le abitudini sociali erano diverse. Anche le manifestazioni della malattia erano differenti da quelle del “paziente zero”. Invece di concentrarsi sul viso e sul resto del corpo, le lesioni in queste persone colpivano con particolare severità le aree genitali.
Ogoina si mise a indagare sulle storie personali di questi pazienti. Le informazioni che ne ricavò, unite alle evidenze cliniche, suggerivano l’ipotesi che avessero contratto l’Mpox durante attività sessuali ad alto rischio. Non necessariamente a causa di un vero contagio sessuale (non è ancora chiaro se Mpox si trasmetta attraverso lo sperma e i fluidi vaginali), ma attraverso il contatto fisico stretto. L’Mpox si trasmette, infatti, anche con la condivisione di oggetti contaminati. «La trasmissione sessuale è plausibile in alcuni di questi pazienti attraverso un contatto ravvicinato pelle a pelle durante i rapporti sessuali», scrisse Ogoina, insieme a un gruppo di colleghi, in uno studio pubblicato nel 2019.
L’epidemia scoppiata in Nigeria nel 2017 ha segnato un punto di svolta nella storia dell’Mpox. Un campanello d’allarme – forse non abbastanza ascoltato – di una sua potenziale espansione globale. Tra il 2018 e il 2019 si registrarono quattro infezioni tra Regno Unito, Singapore e Israele. Tutte persone che erano state in Nigeria.
Nel 1964 il virus è uscito dal continente africano trasportato all’interno del corpo dei roditori. Questa volta a portarlo fuori sono stati gli esseri umani.
Una “malattia trascurata”
All’interno della specie virale MPXV si distinguono due principali cladi. In biologia un clado è un gruppo di organismi che condividono un antenato comune e che si possono distinguere sulla base del loro genoma. Il primo, denominato I (o 1), noto anche come clado del bacino del Congo, è endemico nell’Africa Centrale e provoca una malattia più severa e potenzialmente più letale. La linea chiamata Ib è all’origine dell’epidemia di Mpox nella Repubblica Democratica del Congo, per la quale l’OMS lo scorso 14 agosto ha dichiarato una nuova emergenza internazionale. Il clado II (o 2), diffuso nell’Africa occidentale, è il responsabile dell’epidemia del 2017 in Nigeria e dell’epidemia globale iniziata nel 2022.
L’emergenza del virus del “vaiolo delle scimmie” sta, dunque, attraversando una fase di accelerazione. Non siamo di fronte a una pandemia, ma gli eventi degli ultimi anni dimostrano che è necessario aumentare l’attenzione e migliorare la nostra comprensione della biologia del virus MPXV.
Una domanda a cui rispondere è: perché l’incidenza del virus è cresciuta negli ultimi 50 anni, passando dall’essere una rarità medica a un’emergenza internazionale? La risposta più semplice, si potrebbe pensare, è che nel frattempo è cresciuta la sorveglianza epidemiologica. Cioè, si trovano più casi perché si cercano di più. Ma c’è un altro fattore oggettivo che fornisce una spiegazione plausibile.
Il 1980 è stato l’anno in cui l’umanità è riuscita, per la prima volta, a eradicare una malattia infettiva, responsabile di epidemie devastanti fino a pochi decenni prima: il vaiolo, causato da un virus parente di quello di Mpox. Proprio questa familiarità è alla base della capacità del vaccino anti-vaiolo di fornire una parziale protezione anche contro Mpox.
Un’indagine nella Repubblica Democratica del Congo (all’epoca chiamata ancora Zaire), svolta tra il 1980 e il 1984, ha mostrato che il vaccino anti-vaiolo è capace di conferire una protezione dell’85 per cento contro Mpox. Uno studio del 2010 afferma che trent’anni dopo la cessazione delle campagne di vaccinazione di massa contro il vaiolo, l’incidenza di Mpox è aumentata drasticamente nelle zone rurali del Paese. Un numero crescente di persone, che comprende tutte quelle nate dalla fine degli anni ’70, non è coperto dal vaccino anti-vaiolo.
Ci sono poi i fattori che riguardano l’evoluzione del virus. A causa della struttura dei loro genomi (molto grandi, a doppia elica di DNA), i poxvirus tendono a evolvere più lentamente rispetto a virus a RNA e più piccoli, come SARS-CoV-2. Alcuni studi evidenziano tuttavia che il virus MPXV sta acquisendo mutazioni a una velocità maggiore di quella che ci si attenderebbe, come effetto di una trasmissione inter-umana sostenuta. Diverse linee virali sembrano essere circolate tra gli esseri umani in Nigeria dal 2016.
Ciò che in origine era una zoonosi, sta diventando sempre di più una malattia, anche, umana. Peraltro, la stessa identificazione del serbatoio naturale del virus rimane tuttora una questione in parte irrisolta. A dispetto della storica denominazione di “vaiolo delle scimmie”, i candidati più probabili ad essere gli ospiti principali del virus sono diverse specie di roditori – come quelle dell’epidemia del 1964 – e non i primati, che sono più probabilmente ospiti secondari.
Infine, un fattore che ha facilitato la sua diffusione è stata la sottovalutazione. Mpox ha le caratteristiche per essere considerata una “malattia tropicale trascurata” (neglected tropical disease). Sotto questa etichetta rientrano malattie causate da un’ampia varietà di agenti patogeni, ma che condividono il fatto di essere prevalenti o endemiche in Paesi poveri o in via di sviluppo. Affliggono comunità con sistemi sanitari assenti o deficitari, segnate da conflitti ricorrenti e altri problemi politici e sociali. Ristrette nel recinto dei “problemi del Terzo Mondo”, lontane dall’attenzione globale. Fintantoché non oltrepassano quei confini.
Come osservano alcuni esperti, è probabile che la diffusione internazionale dell’Mpox sia una conseguenza dell’incapacità di limitare la diffusione della malattia nelle regioni endemiche dell’Africa, nonostante decenni di epidemie.
Stigma e disinformazione
Dopo l’eradicazione del vaiolo i poxvirus hanno fatto parlare di sé, principalmente, per la discussione riguardo all’eventualità di preservare o distruggere i campioni di Variola virus ancora in vita. Impiegati a scopi di ricerca, i virus del vaiolo sono oggi conservati in due soli laboratori ad alta sicurezza, ad Atlanta, negli Stati Uniti, e a Koltsovo, in Russia.
Le notizie su Mpox hanno invece destato meno interesse. Probabilmente è significativo il fatto che la stessa letteratura scientifica su Mpox sia esplosa soltanto dal 2022, in seguito all’inizio dell’epidemia internazionale, nonostante la scoperta del virus risalga a più di 60 anni prima.
Nel frattempo, è aumentata anche la circolazione di contenuti disinformativi. Sulle piattaforme social c’è chi parla di «gayolo», per insinuare che l’Mpox sia una malattia che colpisce solo persone omosessuali, bisessuali o trans. Ma se è vero che la maggior parte dei contagi del 2022 è avvenuta tra uomini che hanno avuto rapporti sessuali con altri uomini, il virus può colpire chiunque, anche persone eterosessuali.
Attaccare uno stigma, cioè una marchio discriminatorio, a una malattia infettiva contagiosa è un errore, non soltanto per ragioni etiche, ma perché può danneggiare le azioni per contenere e prevenire la malattia. «Dato che l’omosessualità è proibita dalla legge nella maggior parte degli Stati africani, molte persone potrebbero non farsi avanti se pensano di essere state infettate», afferma il medico Dimie Ogoina.
L’OMS raccomanda di utilizzare il termine “Mpox”, al posto di “vaiolo delle scimmie”, perché la seconda espressione legittima etichette e battute razziste sull’origine geografica della malattia. Inoltre, come abbiamo visto, sebbene presente da tempo nella letteratura scientifica, il nome “vaiolo delle scimmie” dà una rappresentazione fuorviante della sua origine animale.
C’è anche chi accusa l’OMS di preparare nuovi lockdown. Secondo i sostenitori di questa tesi la stessa Mpox non sarebbe che una scusa per replicare quanto siamo stati costretti a fare durante la pandemia di Covid-19. Si tratta di affermazioni senza fondamento, dal momento che solo gli Stati nazionali possono decidere di adottare simili interventi.
Ma se vogliamo impedire che, in un futuro prossimo o lontano, si realizzino di nuovo tali scenari, è necessario agire con maggiore tempestività e investire sulla ricerca e sulla prevenzione. La storia delle zoonosi indica che il modello da seguire è quello riassunto nell’espressione One Health: un approccio alla prevenzione delle malattie infettive emergenti che tiene insieme la salute umana, quella animale e la tutela degli ecosistemi. Si tratti dell’Mpox, dell’influenza aviaria o di altri patogeni che abbiamo già scoperto o di altri la cui esistenza non siamo ancora a conoscenza.