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I falsi miti sulle foibe che tornano ogni 10 febbraio

Sulle foibe girano molte inesattezze e versioni parziali, che ogni anno circolano con maggior frequenza con l’avvicinarsi del Giorno del ricordo

9 febbraio 2024
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di Leonardo Bianchi

Ogni 10 febbraio si commemora il Giorno del Ricordo, una solennità civile istituita nel 2004 per «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».

Per «vittime delle foibe» si intendono tutti quei militari e civili italiani uccisi dal movimento di liberazione jugoslavo durante e subito dopo la Seconda guerra mondiale nella zona dell’Alto Adriatico, che all’epoca era occupata dall’esercito fascista e nazista. 

Tuttavia – come ricorda lo storico Eric Gobetti nel saggio “E allora le foibe?” – invece di unire la popolazione italiana nel ricordo di quella «complessa vicenda», il tema delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata è diventato qualcosa di «fortemente divisivo, fonte di continue tensioni non solo all’estero, ma anche all’interno del nostro Paese».

Nel corso degli anni, infatti, si sono accumulate versioni forzate e decontestualizzate della storia, fiction e film zeppi di imprecisioni e stereotipi razzisti, falsi fotografici di vario tipo e una sequela di slogan che non hanno alcuna corrispondenza con la realtà. Molti di questi sono frutto di una martellante propaganda neofascista, realizzata anche attraverso fumetti pubblicati da case editrici di estrema destra e distribuiti nelle scuole in Veneto e Piemonte.

In occasione della ricorrenza abbiamo selezionato i miti più diffusi e li abbiamo verificati con l’aiuto di Gobetti, nonché dei testi di altri esperti che si sono occupati della questione.

“Le foibe sono successe all’improvviso”
Partiamo dal contesto storico, spesso volutamente ignorato. Secondo un certo tipo di narrazione, avanzata ad esempio nei film Rosso Istria o La rosa dell’Istria, quello legato alle foibe è un massacro immotivato che avviene all’improvviso, quasi senza spiegazione – se non per la brutalità insita nella popolazione slava e nei partigiani comunisti jugoslavi. Tutto quello che è accaduto prima semplicemente non esiste. Ma è proprio tra la Prima e la Seconda guerra mondiale che si sono gettate le basi della successiva esplosione di violenza.

Nel 1918 l’area dell’Alto Adriatico – un’area mistilingue e multietnica da secoli, e non «italiana da sempre» come ripete la propaganda di destra – viene annessa al Regno d’Italia. Tuttavia, scrive lo storico Raoul Pupo nel libro “Il lungo esodo”, l’Italia si dimostra subito «uno stato nazionale poco esperto e poco attento ai problemi delle aree mistilingue». Non mancano neppure gravi episodi di intolleranza: tra questi spicca l’incendio del Narodni dom – la sede delle organizzazioni della minoranza slovena – a Trieste nel 1920.

Con l’avvento del fascismo la situazione precipita. L’antislavismo del regime si concretizza nel tentativo di «snazionalizzare» tutte le minoranze. Vengono così eliminate le istituzioni slovene e croate, messi fuorilegge partiti e stampa, italianizzati cognomi e toponimi, e proibite tutte le lingue che non fossero l’italiano.

Il risultato di questa politica – si legge nel rapporto finale del 2001 della commissione congiunta italo-slovena, formata da storici dei due Paesi – è quello di «consolidare, agli occhi degli sloveni, l’equivalenza fra Italia e fascismo e di condurre la maggior parte degli sloveni al rifiuto di quasi tutto ciò che appariva italiano».

La mappa dei cambiamenti nell’Alto Adriatico tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, via Wikimedia Commons.

Nel 1941 il processo di «snazionalizzazione» raggiunge l’apice con l’invasione nazifascista della Jugoslavia. Di fronte alla tenace resistenza dei partigiani guidati da Josip Broz Tito, l’esercito italiano brucia decine di villaggi, fucila sommariamente prigionieri e ostaggi e deporta decine di migliaia di civili nei campi di concentramento. Il più tristemente noto è quello nell’isola di Rab, dove muoiono almeno 1.500 persone – in gran parte donne e bambini.

Siamo dunque all’interno di «un contesto di estrema violenza; una violenza che in quel territorio è stata portata dagli italiani», precisa Eric Gobetti a Facta. Proprio per questo, come aveva avvertito lo scrittore Giani Stuparich (testimone oculare dell’incendio del Narodni dom), «il risentimento, l’odio degli slavi, suscitato e alimentato dal fascismo, doveva rovesciarsi presto o tardi sull’intera nazione italiana, come difatti è avvenuto».

“Nelle foibe ci è finito «un milione di italiani»”
Passiamo a un altro equivoco, forse il più clamoroso: il significato stesso che si dà al termine foiba. In senso letterale, le foibe sono voragini naturali carsiche. In senso simbolico, “le foibe” indicano le uccisioni perpetrate dai partigiani jugoslavi in modo estremamente barbaro – gettando cioè le vittime ancora vive dentro le cavità.

Un simile immaginario, alimentato da immagini propagandistiche e dai film citati in precedenza, ha scatenato quelle che lo storico Roberto Spazzali ha definito «incontrollate fantasie e presunte testimonianze». Non sono mancate neppure inesistenti leggende del tutto infondate, come quella del cane nero buttato insieme alle vittime per impedire all’anima degli infoibati di trovare pace.

Come spiega Gobetti, tradizionalmente le foibe sono state usate «dai contadini per gettare materiali che non servono: spazzatura, animali morti, eccetera». Durante la pandemia di influenza spagnola, invece, i corpi delle persone decedute finivano lì per ragioni igieniche, cioè «per evitare il contagio». E poi, per l’appunto, «sono state utilizzate nei contesti di guerra e di violenza, in tutte le epoche, potremmo dire per ragioni di terrorismo psicologico: fare sparire il corpo fa più impressione e paura».

L’operazione di recupero dei corpi dalla foiba di Monrupino, via Wikimedia Commons.

Per com’è passato nella vulgata comune, poi, il termine foibe accosta due ondate di violenza molto diverse tra loro. La prima è quella che avviene nell’Istria tra l’armistizio dell’8 settembre del 1943 e l’occupazione nazista, ed è animata principalmente dalla vendetta verso chi veniva ritenuto – a torto o ragione – fascista o collaborazionista con il regime. In questo contesto, racconta Gobetti, i corpi vengono gettati nelle foibe soprattutto «per evitare rappresaglie, che ci saranno comunque: quando i tedeschi prendono il controllo del territorio nell’ottobre del 1943 massacrano 2.500 persone».

La seconda ondata avviene in altre zone nella primavera-estate del 1945, al termine della Seconda guerra mondiale, ed è dettata da logiche militari, territoriali, politiche e ideologiche. «I partigiani jugoslavi conducono una resa dei conti in tutta la Jugoslavia nei confronti degli avversari politici e militari che hanno combattuto contro la resistenza e a fianco dei nazisti», dice Gobetti.

In tutto, sempre alla fine della guerra, vengono uccise circa centomila persone di varie nazionalità: serba, croata, slovena, tedesca e anche italiana, che non è nemmeno il gruppo più colpito. E contrariamente a quanto si crede, inoltre, la quasi totalità delle vittime non è morta nelle foibe ma in prigionia o dopo processi sommari.

Infine, la confusione regna sovrana quando si parla di cifre. Nel corso degli anni sono lievitate: da diecimila a centinaia di migliaia, fino ad arrivare ai «milioni di italiani gettati vivi [n.d.r., nelle foibe] solo per essere italiani», che un lancio di AdnKronos aveva attribuito a Maurizio Gasparri nel 2004 ma che il senatore forzista ha successivamente smentito. Per quanto non ci possano essere delle stime precise al 100 per cento, le cifre concordate dagli storici sono molto più basse: tra le quattrocento e cinquecento nel 1943 (di circa 200 ritrovate nelle foibe); e circa quattromila nel 1945. «Qualunque cifra superiore a questa è una pura invenzione propagandistica», afferma Gobetti.

“Le foibe hanno causato l’esodo”
Secondo alcune interpretazioni, provenienti soprattutto da destra, l’esodo giuliano-dalmata sarebbe stata la diretta conseguenza delle “foibe”: per sfuggire alla violenza indiscriminata e alla «pulizia etnica» – un termine che Gobetti definisce profondamente «scorretto» – centinaia di migliaia di italiani sarebbero scappati all’istante dall’Alto Adriatico.

Anche in questo caso la situazione è molto più complessa. Anzitutto, gli unici a fuggire dall’Istria in tempo di guerra sono stati fascisti, militari e persone compromesse con il regime: è la cosiddetta «ondata nera», conclusasi prima del 1945. Un altro rilevante spostamento di popolazione ha riguardato la città di Zara, che fu praticamente rasa al suolo dai bombardamenti degli Alleati.

Le principali ondate sono avvenute tra il 1946 e il 1947, a seguito del Trattato di pace di Parigi che divideva l’Alto Adriatico in una zona A amministrata dagli alleati, e una zona B dagli jugoslavi. Poi sono riprese negli anni Cinquanta, e hanno l’ultimo picco nel 1954, quando la zona B passò definitivamente allo Stato jugoslavo dopo la firma del Memorandum d’Intesa di Londra. In pratica, le migrazioni furono dettate dagli spostamenti dei confini post-bellici.

Grafico tratta dal libro Storia di un esodo dell’Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia.

Anche le motivazioni degli esuli non sono affatto univoche. Per lo storico Raoul Pupo c’entrano la paura e il trauma della guerra, la presenza dello Stato italiano come «fattore oggettivo di attrazione per gli italiani perseguitati e impauriti, l’impoverimento generale; il sovvertimento delle gerarchie sociali, una crisi d’identità collettiva e le discriminazioni politiche delle nuove autorità comuniste jugoslave, che tra l’altro colpiscono indistintamente anche altri gruppi nazionali».

Tutto ciò, spiega Gobetti, ha provocato «una tragedia» e una «grande sofferenza alle persone che si sono viste costrette ad andarsene da quei territori», che in definitiva «sono le vittime ultime del nazionalismo italiano, del fascismo, delle violenze fasciste e della sconfitta dell’Italia nella guerra».

Per finire, anche qui le cifre sono state gonfiate. Il numero che circola di più, dato praticamente per assodato, è di 350mila italiani. Ma per Gobetti quella «è proprio una cifra inventata» perché in quei territori non c’erano così tanti italiani, come emerge dagli stessi censimenti. Le cifre dell’esodo appurate dagli storici, prosegue, sono di «circa cinquantamila sloveni e croati, circa sessantamila coloni italiani [che si erano trasferiti lì recentemente] e circa duecentomila italiani autoctoni».

“Le foibe sono state «l’Olocausto degli italiani»”
Una delle convinzioni più radicate – e infondate, come visto prima – è che gli italiani fossero stati colpiti in quanto italiani, e dunque sottoposti a una spietata «pulizia etnica».

Nella versione più estrema di questa tesi, propugnata anche dall’estrema destra, si arriva addirittura a parlare di «olocausto italiano». La vicinanza del Giorno del ricordo alla Giornata della memoria (27 gennaio) suggerisce del resto una qualche forma di comunanza.

Tuttavia, la cosiddetta «olocaustizzazione delle foibe» è sempre stata duramente contestata dagli storici, anche di diversa estrazione politica. Per Giovanni Miccoli dell’Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia (Irsml) si tratta di un accostamento «aberrante». Per Galliano Fogar, ex partigiano del CLN di Trieste e cofondatore dell’Irsml, si tratta di pura «speculazione politica […] priva di fondamento reale» e «non sostenibile alla luce delle ricerche storiche e degli studi fatti».

Le repressioni jugoslave dell’epoca, spiega Fogar in un’intervista registrata nel 1987, «non rientravano in piani di “sterminio etnico”, ma erano dovute a ragioni prevalentemente politiche». Dopotutto, l’esercito partigiano jugoslavo si era comportato nella stessa maniera in altre zone liberate dai nazisti. L’obiettivo era sempre lo stesso: smantellare le precedenti strutture di potere ed epurare potenziali oppositori al nuovo regime, a prescindere dalla loro nazionalità.

Ad avviso di Fogar, la parificazione tra le foibe e Shoah racchiude anche una tendenza molto più insidiosa: mettere sullo stesso piano nazisti, fascisti e comunisti jugoslavi. E quella, continua, è «una delle speculazioni più odiose dal punto di vista politico e morale […] perché non si possono mettere sullo stesso piano oppressori e oppressi, anche quando gli oppressi si vendicano selvaggiamente».

“Sulle foibe c’è stata una «congiura del silenzio»”
Un altro mito che ha incontrato una grande fortuna è quello sulla presunta «congiura del silenzio» intorno alle foibe. Siccome i comunisti hanno a lungo controllato la storiografia e la cultura italiana – così recita la teoria – hanno praticamente imposto una rigida censura sul tema, tenendo all’oscuro gli italiani per decenni.

Non è così: l’attenzione sulle foibe ha avuto un andamento altalenante, ma non è mai sparita del tutto. Anzitutto, come ha ricostruito il ricercatore Federico Tenca Montini nel saggio “Fenomenologia di un martirologio mediatico”, tra il 1943 e il 1945 il tema è stato sfruttato in chiave propagandistica dai nazisti, dal governo Badoglio e anche dagli angloamericani.

Nel dopoguerra, le logiche della Guerra fredda fanno oggettivamente finire il tema nel dimenticatoio – insieme a tante altre vicende scomode, su tutte quelle dei crimini di guerra italiani durante la Seconda guerra mondiale. I partiti di governo – tra cui non figurava il Partito comunista italiano – se ne disinteressarono, mentre la memoria venne portata avanti dagli storici, dagli istituti per la storia della Resistenza e dalle associazioni di esuli.

Le foibe tornarono alla ribalta dopo la caduta del muro di Berlino, il crollo dell’Unione Sovietica e la dissoluzione della Jugoslavia. Poi presero definitivamente quota all’inizio degli anni Duemila – anche grazie al centrosinistra – e sfociò nell’istituzione bipartisan del Giorno del Ricordo. Che tuttavia, come ha detto lo storico Carlo Spartaco Capogreco, con la sua «impostazione chiusa e nazionalistica» rischia di «legalizzare il ricordo di crimini (altrui) sull’oblio di altri crimini (i nostri)».

Questo rischio si concretizza, ad esempio, ogni volta che si usano immagini improprie che ribaltano completamente la realtà. Il caso più eclatante è quello della foto che ritrae la fucilazione di cinque civili sloveni da parte delle truppe italiane nel villaggio di Dane, spesso e volentieri scambiata per il suo esatto opposto – ossia l’esecuzione di cinque vittime italiane da parte dei partigiani jugoslavi.

La foto in questione.

Per Gobetti, il problema principale del Giorno del ricordo – almeno per come si è sviluppato in questi ultimi anni – sta nella sua totale rimozione del contesto pregresso e dei crimini di guerra fascisti. «Le giornate memoriali dovrebbero servire ad evitare che si ripetano violenze del genere», spiega. «Ma se non capiamo cos’è successo, non possiamo impedire che si ripetano».

Inoltre, conclude lo storico, il ricordo strumentale e unilaterale delle foibe sta portando sempre di più a forme di criminalizzazione della Resistenza italiana, che di fatto significa «criminalizzare le radici del nostro paese e la Costituzione, mettendo sotto accusa tutto ciò che fondato la nostra democrazia».

Immagine di copertina via Wikimedia Commons.

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