In generale, quando si parla di “reato universale” si fa riferimento a un crimine punibile ovunque e da chiunque sia stato commesso. È importante, però, fare una distinzione tra due concetti che spesso vengono confusi: giurisdizione internazionale e reati internazionali.
Nel primo caso si fa riferimento a un principio del diritto internazionale che permette a uno Stato di perseguire crimini particolarmente gravi, anche se commessi al di fuori dei suoi confini, indipendentemente dalla nazionalità dell’autore o delle vittime, e senza che vi sia un legame diretto tra il crimine e lo Stato che esercita tale giurisdizione. Questi crimini includono, ad esempio il genocidio, la tortura, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e la tratta di esseri umani e tale principio si basa sull’idea che alcuni illeciti siano così gravi da minacciare l’intera comunità internazionale. I “reati universali” (o “reati internazionali”), invece, non sono una categoria giuridica formalmente riconosciuta, ma è un concetto che si riferisce ai crimini internazionali che sono così gravi da essere perseguiti attraverso la giurisdizione universale, come quelli citati poco sopra. L’Unione europea considera la gravidanza per altre persone un reato riconducibile alla tratta di esseri umani quando la donna viene costretta o ingannata ad agire come surrogata.
Quando parliamo della gravidanza per altre persone «parliamo di un comportamento che in molti Paesi è legale» ha spiegato a Facta Eva Benelli, giornalista, fondatrice dell’agenzia di editoria scientifica Zadig, responsabile della redazione giornalistica del sito EpiCentro dell’Istituto superiore di sanità (ISS),e autrice del libro “Gravidanza per altre persone, tra disinformazione, discriminazioni e diritti negati” edito da Bollati Boringhieri. Secondo Benelli «le procedure cambiano da Paese a Paese», ma ci sono comunque più di 60 Stati in cui si può ricorrere alla GPA e questo, di fatto, rende impreciso parlare di questa pratica come un “reato universale”.
Marco Pelissero, professore ordinario di diritto penale all’Università di Torino, già nel 2023, quando la destra discuteva di punire la GPA anche all’estero, aveva spiegato a L’Espresso che «non ci troviamo né di fronte a quei crimini contro l’umanità – che ovunque e da chiunque sono commessi sono repressi – né fatti che presentano una dimensione di una gravità tale su quale c’è condivisione della comunità internazionale (come la tutela del minore rispetto al traffico della prostituzione)». Sempre Pelissero ha spiegato che in questo caso la norma penale sanziona comportamenti che, se tenuti in Ucraina, in Canada o in altri Paesi a determinate condizioni, sono ritenuti leciti e consentiti, ed è proprio qui si crea l’imprecisione per cui questo reato non è universale.
Dopo la recente approvazione del Senato del ddl Varchi anche l’ONG Amnesty International ha commentato che ritiene la caratterizzazione a “reato universale” della GPA «come una forzatura giuridica» poiché questi sono «di una gravità assoluta, come la tortura, il genocidio, la riduzione in schiavitù e i crimini contro l’umanità, e sono considerati come tali dalla comunità internazionale nel suo complesso», fattori che non sussistono per la gravidanza per altre persone.
Secondo Eva Benelli è impreciso parlare di “reato universale” anche per le conseguenze che questo realmente avrà, poiché anche su questo punto i dubbi sono molti e il dibattito è acceso.
Inapplicabilità, discriminazione e incostituzionalità
Uno dei punti più dibattuti della nuova legge sulla GPA riguarda la sua applicabilità. Marco Pelissero ha spiegato che il sistema penale italiano è fondato sul principio di territorialità, perciò come regola generale si perseguono i fatti commessi sul territorio nazionale. Ci sono però dei casi in cui la legge penale italiana si applica a fatti commessi all’estero, come nel caso della gravidanza per altre persone. Come ha spiegato il professore, la GPA era già perseguibile anche se commessa all’estero attraverso l’articolo 9 della legge del 2004, a condizione che le persone siano presenti sul territorio nazionale – quindi quando sono tornate – e a condizione che ci sia la richiesta del ministro di Grazia e Giustizia. «Dal 2004 questo non è mai capitato» ha continuato Pelissero, «evidentemente perché il ministro della Giustizia ha altro da fare che pensare di cominciare ad attivare delle richieste di procedimento penale per questo fatto». Il nuovo disegno di legge non fa altro che rendere perseguibile questo reato in assenza delle condizioni richieste dall’articolo 9, prescindendo dalla richiesta del ministro della Giustizia. «Mi rende difficile pensare che i magistrati riescano ad attivare tutta la procedura per richiedere la documentazione per acquisire gli atti» ha concluso il professore.
Questo punto, infatti, apre un ulteriore problema, quello che viene definito della “doppia incriminazione”. Secondo Amnesty International, infatti, manca una premessa fondamentale: per poter indagare e cercare prove contro una persona in Italia, è necessario che l’atto che ha commesso sia considerato un crimine anche nel Paese straniero dove è avvenuto. «I magistrati italiani dovrebbero farsi mandare i documenti dallo Stato in cui una persona si è recata per ricorrere alla GPA, in modo che questi testimonino che la procedura è avvenuta» ha chiarito Eva Benelli, «ma per quale motivo un Paese in cui questa pratica è legale e regolamentata dovrebbe trasferire cartelle cliniche e dati personali all’Italia?».
Nel 2023 l’Associazione Luca Coscioni, in un’audizione informale alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, aveva evidenziato che se l’Italia applicasse le sue leggi penali a fatti che non sono considerati reati nel Paese in cui sono stati commessi, si andrebbe a cancellare la distinzione tra i diversi sistemi legali dei vari Stati.
Altre incertezze sono nate attorno alla conformità alla Costituzione del disegno di legge appena approvato. La senatrice Ilaria Cucchi di Alleanza Verdi-Sinistra, ad esempio, ha definito il provvedimento «incostituzionale». Anche il senatore Ivan Scalfarotto, di Italia Viva, si è espresso sul tema sostenendo che la legge violerebbe, tra gli altri, l’articolo 3 della costituzione, secondo cui «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge» e l’articolo 31 sulla protezione dell’infanzia. Sulla costituzionalità o meno del ddl Varchi, però, sarà eventualmente la Corte costituzionale a pronunciarsi. La Consulta già nel 2021 aveva sollecitato il legislatore a trovare soluzioni per chiarire lo status legale dei bambini nati all’estero da genitori italiani tramite gestazione per altri, a causa della «scarsa protezione degli interessi del minore» e nel 2017 aveva definito la GPA una pratica «che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane».
Infine, il ddl Varchi e la sua approvazione da parte del Senato hanno sollevato molti dubbi e aperto un ampio dibattito sulla sua natura discriminatoria. Sempre secondo il senatore Scalfarotto di Italia Viva, il ddl discrimina tra etero e omosessuali, perché quando la coppia eterosessuale che ha utilizzato la gestazione per altre persone andrà al Comune per registrare il figlio, lo farà senza ricevere domande da parte dell’ufficiale dello stato civile. Se invece ci vanno due papà, è più probabile, secondo il senatore, che l’ufficiale chiederà come hanno fatto quel figlio o quella figlia e ci saranno più possibilità di denunciare dell’avvenuta GPA.
L’avvocata Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, ha spiegato a Wired che già trenta coppie si sono rivolte a lei per fare ricorso, di cui quattro dello stesso sesso e 26 eterosessuali. L’avvocata ha precisato che «ci sono dieci coppie che sono all’estero e stanno attendendo il parto, nella fase finale» e altre «venti coppie che hanno intrapreso il percorso, hanno firmato il consenso ed alcuni hanno già fatto il prelievo dei gameti». Secondo quanto riportato da Gallo la maggior parte delle coppie è formata da donne che sono sopravvissute al cancro e hanno conservato i loro gameti, o che soffrono di patologie che mettono a rischio la loro vita, rendendo impossibile affrontare una gravidanza. Una serie di condizioni difficili che la legge Varchi sembra ignorare del tutto.
Una questione terminologica
Quando si parla di gravidanza per altre persone i termini utilizzati sono vari, da “utero in affitto” a “maternità surrogata”. Anche se questi si sono diffusi nel tempo e sono diventati di uso comune, non è scontato che siano termini corretti, o meglio neutri e non discriminatori.
Quando si parla di “utero in affitto”, secondo Eva Benelli, è importante ricordare che si tratta di un termine discriminatorio e giudicante, «però non è scorretto, perché si tratta effettivamente di un utilizzo dell’utero di un’altra persona». “Maternità surrogata”, invece, sempre secondo Benelli, è un’espressione del tutto scorretta perché implica qualcosa che in realtà questa pratica non è. «La donna porta a termine solo la gravidanza, la gestazione» ha continuato la giornalista, «e non ha intenzione di essere madre di questo bambino o bambina».
In conclusione, la discussione sulla gestazione per altri non si combatte soltanto attraverso divieti o tentativi di cancellazione, ma anche, e forse soprattutto, sul piano linguistico. I termini scelti nel dibattito assumono spesso un peso discriminatorio e giudicante, trasformando il linguaggio in uno strumento di controllo e stigmatizzazione. Le parole influenzano la percezione pubblica e l’atteggiamento sociale verso chi sceglie questo percorso, creando divisioni e pregiudizi.