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La truffa social internazionale dei negozi “che stanno per chiudere”
“Brand italiani” e non solo promettono grandi sconti attraverso post falsi sui social, ma la qualità della merce venduta non corrisponde alla descrizione
Saldi, sconti e promozioni sono una buona strategia di marketing per smaltire le scorte di magazzino, attirare nuovi clienti e aumentare le vendite. Per i consumatori, è molto facile farsi attrarre dai prezzi competitivi proposti dalle aziende. Ma non tutte le offerte che si incontrano online e sui social network sono affidabili.
Negli ultimi mesi su Facebook e Instagram sono comparsi post sponsorizzati di presunte gioiellerie e negozi di abbigliamento artigianali – italiani e internazionali – che annunciano la chiusura definitiva dopo anni di attività, e la conseguente liquidazione totale della merce.
Questi post rimandano ai rispettivi siti web dove è possibile acquistare i loro prodotti a prezzi competitivi, con sconti fino all’80 per cento. L’offerta, oltre a essere molto allettante, sembra anche credibile e i siti piuttosto affidabili. Ma, in realtà, ci troviamo di fronte a una truffa ben organizzata.
Un sistema credibile
I post social sponsorizzati che annunciano la chiusura dei negozi sembrano attendibili. Nella descrizione, i presunti titolari comunicano con dispiacere la chiusura dell’impresa artigianale dopo anni di attività.
In uno di questi, pubblicato il 18 dicembre 2024 da “Raffaelli Milano”, si legge ad esempio che l’attività non è più «economicamente sostenibile» a causa dei «giganti del settore» la cui influenza relega «sempre più ai margini le piccole attività come la nostra». Inoltre, nello stesso post si spiega che la decisione dipende anche da motivazioni personali, poiché le presunte proprietarie sono recentemente «diventate nonne». Una storia praticamente identica a quella raccontata a inizio gennaio 2025 dalla pagina Facebook di “Tagliabue Moda”, una presunta impresa a gestione familiare che si lamenta di aver combattuto «contro dei giganti, i cui enormi budget e potere ci hanno messo sempre più in difficoltà». Curiosamente, anche Marco e Luca, i fratelli Tagliabue alla guida dell’azienda, annunciano nello stesso post di essere diventati nonni.
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Tutti gli annunci sono sempre accompagnati da foto dei presunti proprietari che posano di fronte ai propri negozi, accanto alla merce: un dettaglio che fornisce un senso di familiarità e autenticità al racconto.
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In altri casi, invece, la promozione sui social si sofferma su un determinato prodotto, che viene presentato come se fosse di alta qualità, e dunque costoso, ma venduto a un prezzo scontatissimo grazie alla liquidazione della merce a seguito della prossima chiusura dell’attività.
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Dando per scontato che questi post siano veritieri – per via delle caratteristiche appena citate –, l’utente è facilmente portato a cliccare sul link che reindirizza al sito web del presunto marchio. Anche i vari siti, come i post social, sono molto ben curati e hanno tutte le caratteristiche che riconosciamo nei classici store online di brand italiani.
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Qui è possibile visitare il catalogo dell’azienda – suddiviso per genere e categoria merceologica – dove ogni prodotto è corredato da tutte le informazioni utili a un possibile acquirente. Si possono inoltre consultare le policy aziendali in merito ai resi (qui un esempio delle policy di “Raffaelli Milano”), e avere maggiori informazioni sulla spedizione, dove viene offerta anche la possibilità di tenere traccia dell’ordine. Non manca poi la pagina dedicata alla storia del brand, e il form per contattare l’azienda.
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Tra l’altro, la descrizione fa sempre leva sul “made in Italy” e sul fatto che i negozi siano a Milano, a Firenze o a Bologna, città italiane leader nella moda e nell’artigianato. Un indice dell’alta qualità dei prodotti. Insomma, questi siti sembrano avere tutte le carte in regola per essere veri e propri shop online, ma è navigando più attentamente che si notano i primi dettagli sospetti.
Cosa non torna
Solitamente la storia che viene raccontata è molto generica. Il racconto non entra mai nel dettaglio e non fornisce particolari caratteristici di quell’azienda specifica: in queste descrizioni non viene mai detto chi ha fondato l’azienda, quando, dove, e cosa caratterizza veramente il marchio.
Ad esempio, Raffaelli Milano si presenta come un’azienda che «si impegna a mettere in risalto la bellezza e l’unicità delle donne», e che «in breve tempo è diventato leader nel settore della moda femminile, offrendo capi di abbigliamento eleganti e confortevoli per le donne e uomini». Anche quanto scritto sulla pagina “chi siamo” di Bellucci Moda è molto simile: «Bellucci nasce dall’amore per l’eleganza italiana e dalla passione per uno stile unico e autentico. La nostra missione è offrire capi che uniscono tradizione e modernità, celebrando la raffinatezza senza tempo del nostro paese». Testi che sembrano prodotti con l’ausilio dell’intelligenza artificiale.
Sui siti manca anche un dettaglio non poco rilevante: la via del presunto negozio che starebbe chiudendo. L’indirizzo infatti non è indicato da nessuna parte, una circostanza piuttosto sospetta per un sito web che si pone come vetrina di un’attività commerciale.
Contattata da Facta in merito, “Bellucci Moda” ha risposto che «ora vendiamo esclusivamente online e non abbiamo più un negozio fisico a Milano». Dopo che gli è stato nuovamente chiesto dove si trovasse il negozio prima della chiusura, il brand ha risposto con lo stesso identico messaggio già inviato, evitando di fornire una risposta precisa.
Anche “Sorenzo”, un’altra delle attività individuate da Facta come parte di questa dinamica, ha affermato che «la nostra sede non c’è più», senza fornire informazioni sulla posizione dell’ex negozio. Il messaggio, tra l’altro, è scritto in un italiano macchinoso, come se fosse il risultato di una traduzione online. “Raffaelli Milano” ha invece spiegato di essere «uno store esclusivamente online» e non avere al momento un negozio fisico, nonostante su Facebook abbia parlato della chiusura della propria boutique.
Digitando il nome delle varie attività sui motori di ricerca e sulle mappe online, non si ottiene alcun risultato: questi negozi sponsorizzati su Facebook sembrano non essere mai esistiti.
E le fotografie pubblicate sui social per corredare gli annunci, allora? Le strategie in questi casi sono due: una parte delle immagini viene realizzata con dei software di intelligenza artificiale, come nel caso di questi due anziani che riempiono scatoloni fuori dal loro presunto negozio.
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Altre immagini, invece, vengono semplicemente “rubate” da negozi reali e successivamente modificate. È il caso, ad esempio, della gioielleria “Gemme di Lucia”, che su Instagram sponsorizza, con tanto di foto del negozio, la svendita di alcuni gioielli per via della «chiusura del laboratorio dopo 20 anni di passione e creatività».
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Il negozio indicato nelle foto esiste realmente: si trova a Londra, nel quartiere Covent Garden, in Floral Street numero 33, ma appartiene al brand inglese di gioielli di lusso “Alex Monroe Jewellery”. In questo caso specifico, l’insegna “Alex Monroe” è stata sostituita digitalmente con “Gemme di Lucia”.
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I prodotti venduti
A questo punto, la domanda sorge spontanea: se i negozi sono finti, lo sono anche i suoi prodotti?
Prendiamo ad esempio “Gemme di Lucia”. Sul profilo Instagram attualmente sono stati pubblicati 9 post di foto-collage di gioielli (sul sito c’è solo un comunicato di chiusura dell’attività). Guardando attentamente i singoli post, si può notare come le foto dei vari gioielli siano sempre le stesse, solo posizionate diversamente nel collage. Oltre a ripetersi, queste foto compaiono anche su altri store online – tra cui Amazon, Aliexpress, Shein – alcuni dei quali vendono esclusivamente gioielli, ma “Gemme di Lucia” non viene mai indicata come l’azienda produttrice. Il prezzo di vendita, tra l’altro, cambia notevolmente a seconda dei siti in cui viene venduta la merce. In questo marasma di venditori, è difficile capire e risalire al reale produttore della merce.
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La stessa dinamica vale anche per altri brand che abbiamo menzionato. Molti capi presenti sul sito di Sorenzo, Tilma, Bellucci Moda, Raffaelli Milano, Essenza Italiana/Svenna Milano si possono ritrovare su altri negozi online, alcuni più conosciuti di altri (come, appunto, Amazon e Aliexpress).
Tutti questi presunti brand che si spacciano per aziende italiane di alta moda, dunque, oltre a non aver mai avuto un negozio fisico come dicono, vendono merce che non hanno prodotto loro e la cui provenienza è dubbia. Scorrendo i commenti sotto i post social dei falsi brand e sulla piattaforma di recensioni per consumatori Trustpilot emerge che i prodotti vengono effettivamente spediti, ma si rivelano essere di infima qualità e provenienti da diversi Paesi asiatici. Le false aziende non permettono a quel punto di effettuare il reso (qui la testimonianza di un utente che ha acquistato dal già citato “Tagliabue Moda”) oppure lo rendono particolarmente ostico e a carico del cliente. Tutte pratiche che violano le normative italiane ed europee sul tema.
Altri commenti sotto i post su Facebook delle presunte aziende che annunciano la chiusura, invece, affermano di essere molto affezionati ai prodotti e dispiaciuti per la cessazione dell’attività. Analizzando i profili da cui provengono tali messaggi, tuttavia, appare evidente che si tratti di account falsi illustrati con foto create artificialmente o rubate da altri profili.
Una truffa internazionale
La dinamica fin qui descritta evidenzia dunque l’esistenza di diversi finti brand artigianali che, puntando sull’attrattività del made in Italy, truffano i consumatori rifilando loro degli oggetti reperibili a pochi euro sulle più comuni piattaforme di e-commerce.
La pratica commerciale alla base di questo sistema viene comunemente definita drop shipping e consiste nel vendere un prodotto ad un utente finale senza possederlo materialmente. Una pratica che in Italia è lecita, ma che deve comunque rispettare degli obblighi legali riguardanti il diritto di recesso, la garanzia, la sicurezza dei dati personali e l’accuratezza delle informazioni sul prodotto venduto. Specifiche non rispettate nei casi che abbiamo descritto.
Tutte queste pagine – e i relativi siti web – sembrano essere collegate tra loro. Non solo, infatti, sfruttano la stessa strategia, testi molto simili e immagini comuni. Ma, in alcuni casi, i post di un finto brand vengono pubblicati per errore sulla pagina di un’altra presunta azienda in fase di chiusura. È il caso, ad esempio, di questo post pubblicato da Raffaelli Milano che annuncia per sbaglio la chiusura del negozio del brand Monova-Milano, a sua volta parte della stessa rete di negozi inesistenti.
Ma non è tutto, perché questo rimpallo tra finti negozi non è una storia solo italiana. La redazione di Facta è infatti risalita a diversi store online che replicano la stessa dinamica, utilizzando le stesse foto e testi simili a quelli fin qui descritti, ma in lingua inglese e francese. I nomi dei presunti negozi sono diversi (Bondi Cotton con sede a Sidney e Mila a Bordeaux) ma i prodotti sono gli stessi e sempre scontati con percentuali che variano tra il 70 e l’80 per cento. Il motivo? Sempre lo stesso: le aziende familiari sono state schiacciate dal peso dei colossi dell’e-commerce e stanno fallendo.
In almeno un caso, una di queste finte aziende – la già citata Tagliabue Moda – ha addirittura una sede in New Jersey, che proprio come la filiale italiana sta scontando tutta la sua merce per chiusura attività. Anche in questo caso le immagini presenti sul sito sono evidentemente state create con l’intelligenza artificiale – mostrano infatti delle discrepanze nella conformazione dello stesso negozio – e ritraggono persone diverse dai “fratelli Tagliabue” che compaiono nelle versione italiana del sito-truffa.
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