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Che cosa sappiamo sulla storia della paziente Covid in Italia a novembre 2019

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14 gennaio 2021
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L’11 gennaio 2021 ha avuto molto risalto sui media italiani (ed è anche stata ripresa da alcuni media stranieri) la notizia secondo cui in Italia il virus Sars-CoV-2 era già diffuso in Italia, pe la precisione a Milano, a novembre 2019.

Stando a quanto riportato dalle diverse testate, la «paziente zero» (o «paziente uno») della pandemia di Covid-19 nel nostro Paese sarebbe una donna di 25 anni di Milano, positiva al Sars-CoV-2 nel mese di novembre. La notizia ha creato molto clamore, visto che il primo caso confermato di Covid-19 a Wuhan risale ad inizio dicembre.

In molti casi i media italiani hanno pubblicato la notizia come scientificamente assodata (qui e qui ad esempio). Ma siamo davanti a una verità scientifica indiscutibile, o le cose sono più complesse? Che cosa ci dice lo studio alla base di questa notizia? Abbiamo parlato con chi se ne è occupato ed ecco che cosa abbiamo scoperto.

Che cosa vuol dire «paziente zero»

«Paziente zero» è un’espressione che abbiamo spesso letto e sentito negli scorsi mesi ma che, in realtà, nasce per errore nel 1982 dalla ricostruzione dei Centers for Disease Control statunitensi delle prime fasi della pandemia di Aids in Nord America.

In realtà il «paziente zero» era stato identificato come «paziente O», la lettera dell’alfabeto, per abbreviare un caso identificato come Outside of California («Fuori dalla California»), ovvero Gaëtan Dugas, un assistente di volo canadese che sembrava all’origine di vari casi di Aids in California. La «O» venne erroneamente interpretata come uno zero, e da lì il termine rimase in uso.

Come spiegato dal ricercatore Richard McKay del Dipartimento di Storia e Filosofia della Scienza dell’Università di Cambridge e autore del libro Patient Zero and the Making of the Aids Epidemic, l’espressione «paziente zero» andrebbe evitata nell’ambito scientifico, perché ambigua e poco significativa. Può indicare infatti almeno tre cose diverse: il primo paziente di una epidemia a essere identificato, il primo caso noto in una regione geografica, o il primo caso in assoluto. Gli epidemiologi, per evitare questa ambiguità, preferiscono usare espressioni come «caso indice», il primo caso identificato di una epidemia o pandemia, e «caso primario», ovvero quello che ha scatenato il focolaio.

Guardando alla notizia presa in esame, l’unico significato ragionevole di «paziente zero» è quello di primo paziente identificato come affetto dalla malattia, perché non abbiamo modo di dimostrare che la paziente identificata sia stata il primo caso di Covid-19 in Italia o in Europa. L’espressione «paziente uno» invece sembra in uso solo sui media, in particolare italiani.

Ma da dove proviene la notizia secondo cui in Lombardia c’era già almeno una paziente Covid a novembre 2019?

Che cosa dice lo studio

La notizia che stiamo analizzando si basa su uno studio pubblicato il 7 gennaio 2021 dalla rivista medico-scientifica British Journal of Dermatology e intitolato “Covid‐19 related dermatosis in November 2019. Could this case be Italy’s patient zero?” (“Dermatosi correlata a Covid-19 a novembre 2019. Potrebbe essere il paziente zero per l’Italia?”, si noti il punto interrogativo). L’autore principale dello studio è Raffaele Gianotti, medico dermopatologo e affiliato al Dipartimento di Patofisiologia e Trapianti dell’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano.

Lo studio riporta che, nel novembre 2019, la paziente si sarebbe presentata con una dermatosi descritta come «orticaria a placche» e un leggero mal di gola. I medici fecero una biopsia della pelle e diagnosticarono un lupus eritematoso tumido, una rara ma benigna condizione cutanea.

A giugno 2020 i ricercatori realizzarono che le caratteristiche di questa biopsia erano simili a quelle di eruzioni cutanee indotte dalla Covid-19. Il dottor Raffaele Gianotti, contattato dalla redazione di Facta, ha spiegato di aver avuto l’idea di cercare tracce del virus Sars-CoV-2 in campioni del 2019 corrispondenti a casi di eruzioni cutanee la cui diagnosi era dubbia. L’idea era sensata, dato che durante il 2020 sia il gruppo di Raffaele Gianotti sia altri gruppi di ricerca avevano trovato il virus Sars-CoV-2 nelle biopsie cutanee di pazienti Covid-19.

Per cercare il virus lo studio ha sfruttato tre diverse tecniche. La prima è la cosiddetta immunoistochimica. In parole semplici, si tratta di cercare tracce del virus nel campione di pelle usando anticorpi capaci di riconoscerlo. Se questi anticorpi si legano al campione, vengono colorati chimicamente e sono visibili al microscopio. È molto simile al funzionamento dei tamponi rapidi.

La seconda è la Rna-Fish, che rintraccia il genoma del virus usando una molecola fluorescente di Dna. Se il genoma del virus è presente nel campione lo si può vedere al microscopio sotto forma di punti o chiazze fluorescenti.

La terza, infine, è la Pcr, che è la stessa tecnica usata per i tamponi molecolari e di cui abbiamo parlato varie volte in passato (qui, qui, qui). Le prime due tecniche avrebbero trovato evidenze del virus Sars-CoV-2, suggerendo quindi che il campione del novembre 2019 fosse effettivamente infetto. La Pcr invece non ha dato risultati.

Perché occorre cautela

Lo studio pubblicato ha alcune caratteristiche che, sebbene di per sé non invalidino il risultato, richiedono di accettarlo con cautela. Innanzitutto lo studio è reticente sugli esperimenti di controllo. Si tratta di un aspetto importante: sono gli esperimenti, in uno studio, che confermano come il risultato non dipenda da falsi positivi.

Per l’immunoistochimica lo studio descrive che sono stati effettuati i controlli, sia positivi (su campioni di pelle di pazienti sicuramente affetti da Covid-19) sia negativi (su campioni di pelle del 2018, dunque prima della diffusione del virus) ma non mostra le immagini corrispondenti a tali esperimenti. Senza avere immagini chiare degli esperimenti di controllo è impossibile, per la comunità scientifica, valutarne la validità. Il dottor Raffaele Gianotti ha dichiarato a Facta che le fotografie degli esperimenti sono state escluse per motivi di spazio nella pubblicazione, ma ha confermato che sui campioni del 2018 l’esperimento di controllo non trova tracce del virus.

In secondo luogo, sebbene sia l’Rna-Fish sia la Pcr siano tecniche che vanno a cercare il genoma del virus, i risultati non concordano: la prima c’è riuscita, mentre la Pcr no. Secondo gli autori questo accade perché «la carica virale era probabilmente troppo bassa o l’Rna è stato degradato da enzimi», ma allora è difficile capire come mai l’altra tecnica riesca a identificare con segnali «chiari e forti», nelle loro parole, l’Rna.

In alcuni casi può accadere che le due tecniche diano risultati discordi, ma spesso la Pcr è descritta come «più sensibile», ovvero capace di rilevare anche quantità minori di materiale virale. Il dottor Raffaele Gianotti, interpellato da Facta su questa discrepanza, ha dichiarato: «il motivo ce lo domandiamo anche noi, non è ancora chiaro. Abbiamo contattato degli esperti in merito in Germania secondo cui la Pcr su campioni di tessuto cutaneo è fallace, rispetto ad altri campioni di tessuto». Gianotti ha però aggiunto che su altri campioni di pelle, raccolti da pazienti Covid-19 nel 2020, la Pcr era invece positiva.

Sull’esperimento Rna-Fish abbiamo anche chiesto l’opinione di Ida Pisano, ricercatrice all’istituto CEINGE-Biotecnologie Avanzate di Napoli, che lavora da oltre vent’anni su questa tecnica analitica applicata a campioni dello stesso tipo. Pisano ha detto alla redazione di Facta che «la Rna-Fish così come presentata non fornisce informazioni conclusive. Su campioni come questi, fissati in formalina e paraffina, è molto difficile un’interpretazione del risultato senza ulteriori, accurati controlli, indipendentemente dall’abilità del ricercatore. In questo caso gli autori dello studio, nel testo pubblicato, non ci hanno fornito gli strumenti per stabilire la qualità dell’esperimento».

Secondo Gianotti il singolo esperimento di controllo presentato nel testo, nel quale viene rimosso tutto l’Rna dal campione e non si osserva più segnale, basterebbe comunque a garantire che non si tratta di un falso positivo.

In conclusione

Non è impossibile che in Italia ci possa essere stato qualche caso isolato di Covid-19 già a novembre 2019. Ci sono infatti anche altre evidenze, anche se non tutte egualmente solide, come abbiamo accennato in precedenza, che indicano che Sars-CoV-2 potesse già circolare nel nostro Paese tra novembre e dicembre 2019.

Quello che qui prendiamo in esame è la notizia secondo cui lo specifico caso clinico di uno studio possa essere il primo caso accertato di Covid-19 in Italia.  Gli autori dello studio, va detto, non chiariscono cosa intendano per «paziente zero». Gli esperimenti presentati sono interessanti in quanto perlomeno due tecniche molto diverse concordano nel trovare tracce del virus Sars-CoV-2. Il dottor Gianotti ha specificato che lo studio ha subito quattro mesi di revisione paritaria prima di essere accettato per la pubblicazione.

Come ha spiegato alla redazione di Facta Ida Pisano (ricercatrice in biotecnologie avanzate), siccome gli autori affermano che questo risultato in realtà appartiene a uno studio su più larga scala, ancora in corso, prima di parlare di ‘paziente zero’ potrebbe essere più appropriato aspettare lo studio completo. Il dottor Gianotti ci ha detto che l’intento è quello di provare a sequenziare il genoma del Sars-CoV-2 dai campioni e vedere se corrisponde alla sequenza del virus così come circolava in Cina a fine 2019. I risultati di questa indagine saranno importanti per arrivare a maggiori certezze.

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