Nel mese di maggio 2023 varie zone dell’Emilia-Romagna sono state colpite da ondate di pioggia eccezionali che hanno causato frane, inondazioni e allagamenti, provocando 15 vittime accertate (al 24 maggio) e molti danni.
Secondo Pierluigi Randi, meteorologo e presidente dell’Associazione meteo professionisti (Ampro), in meno di due settimane in determinate aree è caduta oltre la metà della pioggia che solitamente è attesa in un anno. Sempre stando a quanto riportato da Randi a Repubblica, «come impatti sul territorio probabilmente è l’effetto alluvionale più grave di almeno gli ultimi 100 anni».
Nonostante il legame tra eventi meteorologici estremi (come è stato denominato anche questo) e il cambiamento climatico sia ormai dimostrato da molti esperti, uno dei filoni della disinformazione più in voga nei giorni successivi al disastro fa di tutto per screditarlo. Diversi utenti dei social, infatti, di recente hanno condiviso immagini, video o notizie che costituirebbero la prova che in realtà si è trattato di un evento legato alla geoingegneria e in particolare all’utilizzo del cosiddetto cloud seeding.
Si tratta di una tecnica realmente esistente e utilizzata per stimolare artificialmente la produzione di pioggia, ma che non ha niente a che fare con le alluvioni.
Una premessa fondamentale: come si formano le nuvole
Prima di parlare di cloud seeding, però, è fondamentale ripercorrere brevemente il processo con cui si formano le nubi, in modo da poter capire più precisamente su cosa interviene questa tecnica artificiale.
Le nuvole si formano quando il vapore acqueo, invisibile nell’aria, si condensa e si trasforma in goccioline d’acqua o cristalli di ghiaccio. Perché ciò avvenga, la particella d’aria deve essere satura, cioè incapace di trattenere tutta l’acqua che contiene sotto forma di vapore. Inizia quindi a condensare in forma liquida o solida. In altre parole, l’aria può contenere solo una certa quantità di vapore acqueo e maggiore è la temperatura o la pressione atmosferica, maggiore è la quantità di vapore acqueo che l’aria può contenere. Quando un certo volume d’aria trattiene tutto il vapore acqueo che può contenere, si dice che è, appunto, saturo.
Se un volume d’aria saturo si raffredda o la pressione atmosferica diminuisce l’aria non è più in grado di trattenere tutto quel vapore acqueo. La quantità in eccesso, allora, si trasforma da gas in liquido o solido (cioè ghiaccio).
La condensazione, però, avviene con l’aiuto di minuscole particelle che fluttuano nell’aria, un particolato atmosferico chiamato aerosol che funge da nucleo di condensazione o “seme” – in inglese seed – della gocciolina. L’aerosol può essere di origine naturale, come il sale marino o vari tipi di polvere, o antropica.
Le particelle di aerosol hanno, perciò, un ruolo meteorologico e climatico molto importante poiché la loro concentrazione può modificare il ciclo di vita, la quantità e le caratteristiche delle nubi.
Che cos’è il cloud seeding
Proprio le particelle di aerosol sono fondamentali per la tecnica del cloud seeding o “inseminazione delle nuvole”. Con questo termine si intende una tecnica di modificazione del clima che ha l’obiettivo di controllare la produzione di precipitazioni attraverso la dispersione nelle nubi di sostanze chimiche. Quando si utilizza questa tecnica, infatti, le nuvole vengono spruzzate con particelle di aerosol o polvere di cloruro di sodio o di ioduro d’argento, un sale di sintesi con una struttura cristallografica simile a quella del ghiaccio, per provocare precipitazioni.
Si tratta di una tecnologia scoperta negli anni Quaranta del XX secolo. Il primo tentativo per modificare le nubi, infatti, fu fatto nel 1946 negli Stati Uniti da Vincent Joseph Schaefer, chimico e meteorologo che eseguì la prima serie sistematica di esperimenti per studiare la fisica delle precipitazioni. Volando con un aereo sopra il Massachusetts seminò le nuvole con ghiaccio secco e riuscì a produrre neve, dando inizio alla scienza della meteorologia sperimentale e al controllo meteorologico. Contemporaneamente il climatologo Bernard Vonnegut creò un metodo di inseminazione usando iodio e argento per produrre ioduro d’argento che viene in sostanza utilizzato ancora oggi.
Da quei primi esperimenti il cloud seeding è stato perfezionato, l’attività è stata documentata dalla letteratura scientifica e Paesi come Cina, Israele, Stati Uniti, ma anche Italia, hanno tentato nel tempo di far piovere o nevicare in zone particolarmente siccitose utilizzando questa tecnica.
Perché questa tecnica non può causare alluvioni
Nonostante si tratti di una pratica reale, ci sono vari motivi per cui l’inseminazione artificiale delle nubi non sia la causa di alluvioni ed eventi meteorologici estremi.
Prima di tutto perché, come ha spiegato a Facta.news Vincenzo Levizzani, dirigente di ricerca dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Bologna, esperto di fisica delle nubi e delle precipitazioni, «l’efficienza di questo sistema è piuttosto bassa» e l’evento meteorologico che si è verificato in Emilia-Romagna ha avuto «un’energia tale che non ha nessuna possibilità di essere stato formato da piccoli aeroplani che giravano sopra le nubi». Secondo Levizzani ciò che è possibile ottenere con questa tecnica è aumentare la capacità di precipitazione di una nube, ma solo in alcune condizioni meteorologiche precise.
La stessa cosa è stata confermata anche da Sandro Fuzzi, ricercatore presso l’Istituto delle Scienze dell’Atmosfera e del Clima del Cnr e coautore di alcuni report dell’Ipcc, cioè il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite che si occupa di valutare la scienza relativa ai cambiamenti climatici. Fuzzi ha spiegato infatti a Facta.news che quello verificatosi di recente in Emilia-Romagna «è un fenomeno la cui scala dimensionale è dell’ordine di decine di chilometri e per questo non può avere a che fare con l’inseminazione delle nubi. Questa tecnica, infatti, viene generalmente fatta su dei sistemi nuvolosi molto più ristretti e che si estendono per uno o due chilometri al massimo».
Inoltre, sebbene alcuni recenti studi cerchino di affermare che si tratta di una tecnologia efficace, il parere della comunità scientifica non è unanime riguardo i reali risultati. Secondo Fuzzi queste tecniche «non hanno ancora una validazione scientifica» in quanto «quando si insemina una nube piove, non si può dire che quella precipitazione sia stata dovuta all’inseminazione e che la nube non avrebbe prodotto pioggia in ogni caso».
Che cosa ha causato le piogge intense in Emilia-Romagna
Se le teorie del complotto sulle modificazioni del clima non descrivono la causa delle alluvioni che hanno colpito l’Emilia-Romagna nei giorni scorsi, quali sono le cause reali?
Si è trattato di un ciclone extratropicale che, come ha spiegato Vincenzo Levizzani, «si è spostato dal Nord Africa fino alla costa adriatica italiana e poi alla Romagna e in questa zona è rimasto intrappolato tra due aree di alta pressione». Queste due aree che presentavano un’alta pressione atmosferica hanno impedito che il ciclone si spostasse verso est, e hanno fatto sì che questo rimanesse «in una situazione di blocco e quindi ha scaricato tantissima acqua», ha concluso Levizzani.
E allora il cambiamento climatico?
Si è trattato, quindi, di un evento meteorologico comune, che ha però preso caratteristiche estreme e che gli scienziati hanno collegato al cambiamento climatico per diversi motivi.
Come ha spiegato Sandro Fuzzi, l’ultimo rapporto di valutazione dell’Ipcc, a cui ha collaborato, «ha definito con certezza il fatto che questi fenomeni cosiddetti estremi hanno assunto una frequenza molto più alta rispetto al secolo scorso, quando la situazione del riscaldamento climatico non era ai livelli di oggi». Secondo lo scienziato ciò che collega questi eventi al cambiamento climatico non è tanto la loro natura o la loro portata, quanto la frequenza con cui avvengono che aumenta sempre di più.
Secondo Levizzani il sospetto che l’evento meteorologico estremo che ha colpito l’Emilia-Romagna sia collegato al cambiamento climatico è supportato dal fatto che «i modelli climatici ci dicono che le piogge da ora in avanti, soprattutto in zone come quella del Mediterraneo che è un hotspot climatico, saranno sempre più localizzate e sempre più intense». Questo secondo Levizzani significa che esiste una cosiddetta “forzante climatica” che si è sovrapposta a delle condizioni meteorologiche che sarebbero state di per sé normali, ma non possono essere definite tali per tutti i fattori collegati sopra elencati.
Precisiamo, infine, che i danni subiti dal territorio e dagli abitanti delle zone dell’Emilia-Romagna colpite dalle alluvioni e dalle inondazioni non sono stati causati solamente dalle piogge intense, ma da una serie di fattori che hanno contribuito ad aggravare la situazione. Un primo elemento è la secchezza del terreno causata dalla siccità, anche questa collegata dagli esperti al cambiamento climatico, perché un terreno particolarmente secco non riesce ad assorbire le precipitazioni in modo efficace. La pioggia tende allora a scorrere sul terreno e a provocare le inondazioni a cui abbiamo assistito. Un altro fattore che ha contribuito a peggiorare le conseguenze dell’evento meteorologico è lo stato dei corsi d’acqua e delle strutture che li circondano come ad esempio gli argini: queste ultime non ritenute – da diversi tecnici ed esperti – adeguate ai cambiamenti, sia climatici che degli ecosistemi.