Negli ultimi anni sul mercato italiano sono comparsi sempre più prodotti con etichette che attesterebbero la loro sostenibilità ambientale e derivazione biologica. Tra le scritte presenti sulle confezioni dei prodotti, ad esempio, si possono trovare diciturecome: “ecologico”, “naturale”, “da agricoltura sostenibile”, “100% organico”, “bio: insieme per la sostenibilità”.
Se a prima vista questi termini possono sembrare un sigillo di garanzia che certifica una particolare attenzione all’ambiente, in realtà si tratta di etichette vaghe, che molto spesso non hanno alcuna base e riferimento scientifico. «Nell’Unione europea ce ne sono oltre duecento, ma molte delle affermazioni che oggi si trovano su prodotti spesso non sono conformi a nessuna delle norme ISO», ha commentato a Facta.newsSimone Ricotta, operatore dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana (Arpat) e membro del Comitato di gestione del Piano d’azione nazionale del Green Public Procurement (PAN GPP) coordinato dal ministero dell’Ambiente.
Come funzionano le certificazioni ambientali Tra gli anni Ottanta e Novanta, nell’Unione europea sono stati istituiti i primi programmi di etichettatura ambientale per far sì che le aziende fornissero informazioni chiare e trasparenti ai consumatori in merito alle prestazioni ambientali di un prodotto o di un servizio.
Alcune di queste etichette sono obbligatorie, e riguardano principalmente gli elettrodomestici, i prodotti pericolosi e tossici e gli imballaggi. Altre, invece, come quelle previste dalla norma ISO 14020, sono facoltative per le aziende. Le norme ISO sono norme tecniche redatte dall’International Organization for Standardization (ISO), un’organizzazione internazionale indipendente composta da enti del settore ed esperti di 168 Paesi. L’obiettivo di questa organizzazione è creare regole comuni che garantiscano prestazioni di qualità e sicurezza per materiali, servizi e processi in un’ottica di sostenibilità ambientale, economica e sociale. Le norme tecniche ISO sono quindi standard riconosciuti a livello internazionale che le varie aziende del settore decidono di seguire, pur non essendo obbligatorie. Lo stesso discorso vale anche per le norme tecniche EN e UNI, rispettivamente redatte dal Comitato europeo di normazione e dall’Ente italiano di normazione.
Queste norme possono diventare obbligatorie con un provvedimento legale, come una legge italiana, un decreto ministeriale o un regolamento dell’UE. Al momento non ci sono obblighi per l’utilizzo delle etichette previste dalla norma ISO 14020.
Il processo per ottenere una certificazione ISO volontaria, ha spiegato sempre Simone Ricotta di Arpa Toscana, è abbastanza breve. Fermo restando i criteri da rispettare, «le aziende con un’attitudine al rispetto, alla ricerca e allo sviluppo in materia ambientale, e un personale addetto alla produzione qualificato, in circa tre mesi potranno ottenere la dichiarazione richiesta».
Tornando alla normativa ISO 14020, questa è stata pensata per classificare i vari programmi di etichettature e mettere ordine nel mercato. La normativa prevede infatti tre tipologie di etichettature ambientali volontarie (Tipo I, Tipo II e Tipo III), con differenti gradi di attendibilità per l’utente finale, in base soprattutto all’esistenza o meno di un ente terzo e imparziale che verifichi il superamento di standard qualitativi prestabiliti.
Le etichettature ambientali di Tipo I possono essere richieste dalle aziende a un ente di controllo indipendente, che può essere pubblico o privato, e vengono assegnate, dietro verifica, a tutti i prodotti che rispondono a determinati criteri ambientali e prestazionali. Un esempio di questa certificazione è il marchio europeo Ecolabel, istituito nel 1992 dal regolamento n. 880/92, che attesta il basso impatto ambientale dell’intero ciclo di vita del prodotto. La richiesta viene fatta dall’azienda produttrice interessata a ottenere la certificazione all’organismo nazionale competente, che verifica se i requisiti sono soddisfatti oppure no.
In particolare, i criteri per ottenere il logo Ecolabel riguardano diversi aspetti ambientali tra cui l’uso dell’energia, dell’acqua, delle sostanze chimiche e la produzione di rifiuti, nonché la funzionalità del prodotto e la qualità delle sue prestazioni. Con questo marchio, dunque, il consumatore ha la garanzia che il prodotto in questione rispetti criteri ecologici rigorosi. Infatti, i programmi di etichettatura ambientale di Tipo I hanno il compito di identificare e promuovere prodotti di eccellenza, ovvero che risultano più sostenibili rispetto alla media.
Al contrario, le etichette di Tipo II sono autodichiarazioni dell’azienda che non devono essere verificate da un ente terzo. La normativa ISO per queste etichette specifica comunque quali sono i termini che possono essere riportati sui prodotti. Inoltre, quanto affermato dalle aziende deve avere una base scientifica e verificabile, ovvero, nel caso in cui il consumatore lo richieda, l’azienda deve essere in grado di presentare un dossier tecnico che dimostri quanto dichiarato sul prodotto. Ma non essendo sottoposti a controlli, né prima né dopo essere immessi sul mercato, etichette di questo tipo sono difficilmente verificabili. «Le aziende hanno capito che la questione ambientale è un trend importante da seguire, ed è per questo motivo che sono nati tanti nuovi marchi e autodichiarazioni, seppure si tratti di casi di greenwashing», ha sottolineato Simone Ricotta di Arpa Toscana. Questo termine, composto dalle parole “green” (verde) e “washing” (lavaggio), indica una strategia di comunicazione e di marketing perseguita da alcune aziende, che presentano i propri prodotti come ecosostenibili, cercando in realtà di occultare il mancato rispetto di criteri ambientali e sociali stringenti. «In questa fase ci si approfitta dell’attenzione del consumatore a una tematica ambientale fuorviando il messaggio, reclamizzando in maniera importante che il proprio prodotto ha buone caratteristiche ambientali quando in realtà si tratta di un solo aspetto minimo», ha continuato Ricotta.
Ciò è reso possibile dall’attuale vuoto legislativo lasciato dall’Unione europea. Al momento, infatti, non esiste alcuna normativa che regoli l’uso di dichiarazioni ingannevoli in materia di sostenibilità ambientale. A marzo 2023, però, la Commissione europea ha proposto una direttiva per introdurre regole più severe per l’approvazione di nuovi marchi ecologici, nonché sanzioni contro i casi di greenwashing. L’obiettivo finale è consentire ai consumatori di prendere decisioni di acquisto consapevoli, basate su informazioni affidabili sulla sostenibilità dei prodotti che acquistano.
Infine, ci sono le etichette di Tipo III, regolate dalla normativa ISO 14025. Queste certificano l’impatto ambientale del ciclo di vita del prodotto o del servizio, e vengono rilasciate dopo la verifica da parte di un organismo indipendente. Al contrario delle altre due etichette, le dichiarazioni ambientali di Tipo III sono destinate al commercio interaziendale, dunque destinate al consumatore professionale, e non a quello finale.
Certificato Bio UE
Il discorso delle etichette ambientali inaffidabili vale anche per i marchi “bio”. Anche se esistono diverse etichette che sembrano attestare la provenienza biologica dei prodotti, nei Paesi dell’Unione europea c’è solo un’etichetta che certifica il biologico, ed è quella emessa dall’Unione europea stessa.
In generale, per essere definito biologico un prodotto deve essere stato coltivato innanzitutto senza l’impiego di prodotti chimici di sintesi, tutelando le falde acquifere e il terreno. Inoltre devono essere applicate determinate tecniche agronomiche che mirano alla tutela della salute del suolo, come la rotazionecolturale, ovvero la coltura di piante diverse in sequenza sullo stesso appezzamento di terreno, e il sovescio, cioè la coltivazione durante i tempi morti (quando il terreno rimarrebbe nudo, senza coltivazioni) di alcune specie capaci di restituire al terreno azoto attraverso le radici.
Anche gli alimenti derivanti dalla zootecnia, cioè dall’allevamento, possono essere prodotti ed etichettati come biologici. In questo caso il metodo di produzione biologico si basa sul principio di uno stretto legame tra animali e superfici agricole. Ciò significa che gli animali devono avere accesso ad ampie aree di pascolo all’aperto e che l’alimentazione loro fornita sia non solo biologica ma preferibilmente ottenuta in buona parte nell’azienda stessa.
Le regole europee per il rilascio del logo sono molto rigorose: questo può essere utilizzato solo sui prodotti che sono stati certificati come biologici da un organismo o un’agenzia di controllo autorizzata. Devono dunque avere soddisfatto condizioni rigorose per la produzione, il trattamento, il trasporto e l’immagazzinamento. Ad esempio, almeno il 95 per cento degli ingredienti devono derivare da una produzione con metodo biologico.
Tutte queste informazioni devono essere riportate sull’etichetta, per una maggiore garanzia per il consumatore. Oltre ai vari ingredienti, infatti, nelle etichette deve essere precisato anche il nome del produttore, il codice dell’organismo di ispezione e il luogo di coltivazione delle materie prime (se si tratta di Paesi europei o extraeuropei).
Per quanto riguarda i tempi di attesa per ottenere la certificazione biologica, l’azienda agricola deve aver rispettato gli standard per un periodo di almeno due anni prima della semina, definito dalla norme comunitarie “di conversione all’agricoltura biologica”. Si tratta di un periodo in cui devono essere create le condizioni per praticare in maniera corretta il metodo di agricoltura biologica. Ogni anno poi gli enti di controllo svolgono ispezioni approfondite per verificare la documentazione riguardante gli acquisti e le vendite, le condizioni di allevamento nonché dei campi, frutteti, serre e pascoli.
In conclusione, il consumatore può trovarsi in difficoltà a distinguere quali prodotti sul mercato siano effettivamente sostenibili a livello ambientale, dal momento che molte etichette presenti nelle confezioni non sono sottoposte ad alcun controllo da parte di autorità competenti. Per il settore del biologico, invece, la questione è più chiara: il marchio di garanzia è solo quello europeo.