Sono passati quasi 46 anni dal rapimento di Aldo Moro, politico che fu tra i fondatori della Democrazia Cristiana (DC) ed ex presidente del partito, e dal suo successivo assassinio, avvenuto il 9 maggio 1978 per mano di un commando delle Brigate rosse (BR), organizzazione terroristica di estrema sinistra attiva in Italia dai primi anni ‘70.
Nonostante siano passati più di quattro decenni, su una delle stragi politiche più rilevanti per il nostro Paese continuano a circolare teorie del complotto che tentano di dare risposte a presunti misteri e vuoti giudiziari collegati al caso Moro. Non è raro che sui social o su alcuni media nazionali vengano diffuse notizie che riguarderebbero nuove eclatanti rivelazioni o documenti inediti sul rapimento e l’omicidio del leader democristiano.
Se è vero che sulla vicenda continuano ad esserci alcune lacune e contraddizioni, è vero però anche che gli elementi fondamentali della vicenda sono stati determinati da tempo e la verità su molti aspetti è meno torbida di quanto spesso venga fatto credere.
A sollevare una nuova ondata di dubbi sul caso e mettere in discussione quanto è noto sulla vicenda è stata la trasmissione Report, che nella puntata andata in onda il 7 gennaio 2024 su Rai3, ha dato voce a una serie di aspetti che, secondo quanto riportato dal servizio, sarebbero fino a oggi rimasti nascosti o che ancora «dormono nei cassetti». In particolare, il programma ha dato rilievo alla voce di Claudio Signorile, politico e storico esponente del Partito socialista italiano (PSI), secondo cui lo Stato italiano sarebbe stato messo al corrente della morte di Aldo Moro diverse ore prima della rivelazione della notizia da parte delle BR.
Questo fatto, secondo il conduttore di Report Sigfrido Ranucci, «testimonierebbe l’esistenza di una posta in gioco molto più alta, molto superiore rispetto alle dinamiche dei brigatisti». Tra le altre teorie, nella puntata di Report del 7 gennaio, viene riportata quella secondo cui nel caso Moro non sarebbero state coinvolte, appunto, solo le Brigate Rosse, ma avrebbero avuto un ruolo anche gli Stati Uniti e addirittura la criminalità organizzata. Questa tesi non è un’esclusiva del programma, ma negli anni è stata addirittura arricchita anche da una serie di altre ipotesi che vedevano coinvolti una serie di soggetti che vanno dai servizi di sicurezza sovietici del KGB fino addirittura alla ‘ndrangheta.
Queste sono solo alcune delle teorie che da anni circolano sul rapimento e l’uccisione del leader democristiano, evento che negli anni, in quanto a materiale prodotto e teorie della cosiddetta dietrologia che cercano di dare un’interpretazione alternativa dei fatti, è diventato una sorta di “11 settembre italiano”. Sul caso Aldo Moro esistono indagini, sentenze, due Commissioni parlamentari d’inchiesta, ma anche film, libri e innumerevoli articoli pubblicati sulle testate italiane più o meno note. In 46 anni è stata prodotta una straordinaria quantità di materiale e, insieme a questo, hanno preso vita anche una serie di cospirazioni che analizzano i vari dettagli di quanto accaduto e provano a dare risposte alternative. Ma queste ipotesi hanno fondamenta fragili e non rappresentano la realtà.
Cosa dicono indagini e processi sul caso Moro
La mattina del 16 marzo 1978, giorno in cui il nuovo governo presieduto dal democristiano Giulio Andreotti stava per ottenere la fiducia dal Parlamento, la macchina di Aldo Moro fu intercettata e fermata in via Fani, a Roma, da un nucleo armato della Brigate Rosse. Quattro tra i brigatisti, Morucci, Fiore, Gallinari e Bonisoli, aprirono il fuoco contro la scorta ammazzando due carabinieri (Leonardi e Ricci) e tre poliziotti (Iozzino, Rivera e Zizzi) e sequestrarono Aldo Moro. Il rapimento fu rivendicato da Valerio Morucci alle 10:10 dello stesso giorno attraverso una telefonata all’agenzia Ansa in cui annunciò: «Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Democrazia cristiana Moro ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato Brigate Rosse».
Dopo 55 giorni di prigionia, durante i quali le BR chiesero invano uno scambio di prigionieri con lo Stato italiano che si rifiutò di negoziare, Aldo Moro fu ucciso il 9 maggio. Le Brigate Rosse fecero ritrovare il suo corpo privo di vita nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata in via Michelangelo Caetani a Roma. Anche in questo caso fu Morucci a effettuare la telefonata: chiamò Franco Tritto, amico e collaboratore di Aldo Moro, comunicando il posto in cui si trovava l’auto con il cadavere.
Successivamente al rinvenimento del corpo di Moro in via Caetani si ebbero i primi arresti ad alcuni dei brigatisti e il 24 gennaio 1983 la Corte d’assise di Roma inflisse 32 ergastoli e 316 anni di carcere a 63 imputati. Negli anni successivi furono celebrati tre nuovi processi in cui vennero condannati altri brigatisti per il loro coinvolgimento in diverse azioni eversive e in alcuni risvolti del caso Moro.
Sul caso lavorarono anche due Commissioni parlamentari d’inchiesta, la prima istituita nel 1979 e sciolta nel 1983, mentre la seconda è stata avviata nel 2014 e aveva il compito di «accertare eventuali nuovi elementi» che potessero integrare le conoscenze acquisite dalle precedenti Commissioni parlamentari.
Nonostante in questo susseguirsi di fatti, indagini, ricerche e sentenze ci siano dei punti ancora poco chiari, esiste una versione dei fatti ufficiale e comprovata. Vladimiro Satta, storico specializzato nella storia della Repubblica Italiana e degli anni di piombo, è stato documentarista del Senato ed è autore del libro “Il caso Moro e i suoi falsi misteri”, ha spiegato a Facta che «gli aspetti non ancora del tutto chiariti sono aspetti di secondaria importanza» e le teorie complottistiche su questo caso non nascono tanto dalla mancanza di alcune tessere del mosaico, ma «dal rifiuto della ricostruzione giudiziaria e storica secondo cui le Brigate Rosse avrebbero fatto da sole».
Le teorie del complotto emersero già durante i giorni del sequestro, per poi diventare parte di una delle letture predominanti di quegli avvenimenti. Nel corso del tempo, però, queste letture dei fatti sono state puntualmente smentite dalle carte processuali e dalle testimonianze. E il motivo per cui queste ipotesi “misteriose” continuano a farsi strada è sempre lo stesso, come ha sottolineato Satta, cioè il rifiuto del fatto che un avvenimento di questo tipo, come il caso Moro, possa essere spiegato interamente all’interno della lotta armata perseguita dalle Brigate Rosse.
Il presunto coinvolgimento degli Stati Uniti
Nel 1978, anno del sequestro e del successivo omicidio di Aldo Moro, il mondo si trovava nel mezzo della Guerra Fredda, un periodo di tensione geopolitica tra gli Stati Uniti e il blocco occidentale e capitalista da una parte e l’Unione Sovietica e il cosiddetto blocco orientale e comunista dall’altra.
In Italia, il governo Andreotti, che ottenne la fiducia dal Parlamento proprio nel giorno in cui Moro fu rapito, era il primo governo guidato dalla Democrazia Cristiana che godeva, però dell’appoggio esterno del Partito Comunista Italiano (PCI), nell’ottica di quello che fu chiamato “compromesso storico” di cui il presidente della DC Aldo Moro era il principale garante.
I teorici della cospirazione sostengono, quindi, che il pensiero progressista di Moro, che lavorò con zelo per includere il PCI nella coalizione di governo, l’avesse reso l’animale sacrificale offerto sull’altare della politica della Guerra Fredda.
«Le Brigate Rosse erano formate da comunisti rivoluzionari, quindi anticapitalisti, antiamericani, anti Nato» ha spiegato Vladimiro Satta a Facta. Negli anni, infatti, le BR non hanno mostrato segni di coinvolgimento con gli Stati Uniti, ma, al contrario, hanno preso di mira proprio esponenti statunitensi come il generale James Lee Dozier, alto ufficiale della Nato, rapito nel dicembre 1981 e rilasciato dopo 42 giorni. E l’ufficiale e diplomatico statunitense Leamon Ray Hunt che fu, invece, ucciso da un gruppo di militanti dell’ala militarista delle Brigate Rosse nel 1984.
Secondo Satta mancano «le prove di un coinvolgimento di servizi segreti americani o di servizi di altri Paesi, nonostante decenni di insistite ricerche in questo senso» e dal punto di vista logico e storico l’ipotesi è addirittura inverosimile. Non è chiaro, infatti, il motivo per cui le Brigate Rosse avrebbero dovuto mettere da parte le loro ostilità nei confronti del blocco occidentale, della Nato, degli Stati Uniti e del capitalismo, solamente in occasione dell’azione più importante di tutta la loro storia, salvo poi tornare sulla loro strada e tornare a essere antiamericane subito dopo – come abbiamo visto infatti negli anni successivi al caso Moro rapirono e uccisero proprio alcuni esponenti statunitensi.
Allo stesso modo non è chiaro nemmeno perché gli Stati Uniti avrebbero dovuto unirsi in qualche modo all’organizzazione terroristica. «Le Brigate rosse avrebbero voluto distruggere il capitalismo e il sistema occidentale» ha spiegato Satta, mentre Moro, al contrario, «non mise mai in forse l’alleanza dell’Italia con gli Stati Uniti, l’alleanza atlantica, l’appartenenza del nostro Paese al sistema occidentale, il modello di società capitalistica, le sue istituzioni liberaldemocratiche».
Altri presunti coinvolgimenti: dalla ‘ndrangheta fino al KGB
Nonostante le verità processuali e il contesto storico non permettano di considerare plausibile il coinvolgimento di altri attori, sul caso Moro sono state fatte, e continuano ad essere formulate, ipotesi di ogni tipo che prevedono non solo il coinvolgimento degli Stati Uniti, ma anche di altri attori, tra i più disparati.
Nella puntata di Report del 7 gennaio, ad esempio, viene riportata (circa al minuto 21, la trascrizione è disponibile a questo link) la testimonianza di Filippo Barreca, mafioso italiano parte della ‘ndrangheta che anni fa avrebbe, secondo il programma andato in onda su Rai 3, «messo a verbale una sporca storia». Barreca, infatti, nella puntata racconta che a lui sarebbe giunta voce che l’agente di scorta Rocco Gentiluomo, preposto quel giorno ad accompagnare Aldo Moro, fosse stato sostituito, e di conseguenza salvato, con l’intercessione dell’organizzazione criminale di stampo mafioso, perché originario di Sant’Eufemia d’Aspromonte, in Calabria e compaesano del boss Rocco Musolino. Al suo posto è morto, invece, l’agente che l’aveva sostituito: Francesco Zizzi. Secondo Report queste dichiarazioni «dormono nei cassetti».
Prima di tutto, secondo Vladimiro Satta, dire che l’agente della scorta fu risparmiato perché originario dello stesso paese di un boss della ‘ndrangheta, significa «dare a questa persona dello ‘ndranghetista» senza delle prove concrete, e questo è gravemente diffamatorio. Inoltre il coinvolgimento della ‘ndrangheta sarebbe poco probabile perché le BR ebbero origine al nord, scesero poi e Roma e a Napoli, ma nel resto del sud furono pressoché assenti. La ‘ndrangheta, a sua volta, in quell’epoca, era un fenomeno calabrese e regionale. Infine, sempre secondo quanto spiegato dallo storico, le Brigate Rosse avrebbero rischiato molto alleandosi con l’organizzazione criminale di stampo mafioso, perché «avrebbero corso il pericolo di essere raggiunte casualmente da quegli inquirenti che invece di seguire le Brigate Rosse seguivano la ‘ndrangheta» ed erano quindi esposte a un doppio pericolo.
Anche per quanto riguarda la partecipazione del KGB, cioè della principale agenzia di sicurezza, servizio segreto e polizia segreta dell’Unione Sovietica, non esistono prove che possano confermare questa ipotesi. Sempre Vladimiro Satta ha chiarito che «sono state fatte ricerche anche negli archivi di altri Paesi, ad esempio negli archivi di Paesi dell’Europa dell’est, i cui regimi sono caduti, e non si è trovata assolutamente traccia di tutto questo». Sappiamo, quindi, che dopo la fine della Guerra Fredda e l’apertura dei due blocchi, su questo tema gli Stati Uniti non hanno trovato nulla a carico dei Paesi dell’est e dell’ex Unione Sovietica, e i Paesi dell’est non hanno trovato nulla a carico degli Stati Uniti.
In generale, come ha spiegato a Facta Marco Clementi, professore di storia delle relazioni internazionali presso l’Università della Calabria e autore, tra gli altri, del libro “La pazzia di Aldo Moro”, il problema è che il caso Moro viene spesso tolto dal contesto della storia delle Brigate Rosse. «Se si isola un episodio» ha spiegato Clementi, «è possibile raccontarlo in più modi diversi rendendolo verosimile», ma se si contestualizza nella storia, allora le possibilità di fare questo gioco diminuiscono drasticamente.
«Nel caso della Brigate Rosse» ha chiarito ancora Clementi, «il rapimento Moro è l’apice di un’escalation che avviene nell’arco di tre o quattro anni» e che è stata alimentata dalla propaganda armata e attraverso le azioni strategiche che permettono di capire che il caso Moro si inserisce in una maniera del tutto verosimile nella storia dell’organizzazione terroristica. E questa logica rende irrealistiche anche tutte le altre ipotesi di coinvolgimento di attori differenti. «Se una persona vuole fare dei complotti ne può fare quanti ne vuole su questo caso, e se guardiamo solo ai minuti del rapimento o dell’omicidio, allora è possibile anche far combaciare i dettagli» ha concluso Clementi «il problema è il prima e il dopo, cioè quando si contestualizzano le ipotesi più varie e queste cadono a pezzi».
Lo Stato italiano sapeva della morte di Moro prima dell’annuncio delle BR?
Tra le altre cose, la puntata di Report del 7 gennaio ha dato grande rilievo a una testimonianza dell’ex vicesegretario del Partito socialista italiano (PSI) Claudio Signorile, secondo cui i vertici dello Stato italiano avrebbero saputo della morte di Moro già ore prima della rivelazione ufficiale della notizia. Non è la prima volta che Signorile riporta questa teoria, ma analizzandola è possibile affermare che le prove per considerarla come una verità assoluta non sono così solide.
Signorile sarebbe al corrente di questo dettaglio perché la mattina dell’omicidio di Moro era stato invitato dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga a prendere un caffè. Come ha scritto Paolo Morando sul quotidiano Domani, questa dichiarazione è fragile, perché nelle testimonianze che ha rilasciato nel corso degli anni sui fatti, l’orario del suo presunto incontro con Cossiga e quello in cui i vertici dello Stato avrebbero ricevuto la notizia in anticipo, cambiano, e in alcuni casi sono inconciliabili con i fatti accertati. Ma non solo, come ha riportato ancora Morando, nel 1982 davanti alla Corte d’assise di Roma, nel corso di un lungo interrogatorio come testimone, Signorile non sfiorò minimamente la questione dell’orario. Anche nel 1999, davanti alla commissione Stragi, presieduta da Giovanni Pellegrino, l’ex vicesegretario del PSI non accenna alla questione, eppure non si trattava di un dettaglio banale. Solo nel 2010 Signorile ne parlò, invece, in una intervista all’Ansa con il giornalista Paolo Cucchiarelli.
Questi e altri dettagli ci dicono che l’orario in cui Cossiga sarebbe venuto a conoscenza dell’omicidio di Moro, precedentemente alla comunicazione delle BR, non è riscontrato nè più riscontrabile e diversi elementi non quadrano.
Inoltre, la testimonianza di Signorile è più o meno coincidente con quella dichiarata da Vittorio Raso, un artificiere che la mattina del 9 maggio 1978, giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani, accertò che la Renault 4 rossa in cui si trovava il cadavere non fosse un’autobomba. Raso ha sostenuto di essere arrivato lì tra le 10.30 e le 10.45 e di aver parlato con Francesco Cossiga, che sarebbe stato già presente in strada circa due ore prima dell’annuncio della morte di Moro. Non c’è però traccia di sue relazioni di servizio e le sue rivelazioni non hanno mai portato all’apertura di nessuna nuova indagine. Ma a questo punto della storia sorge allora spontanea una domanda: se Signorile afferma di essere stato con Cossiga tra le 10.30 e le 11, orario in cui sarebbe arrivato l’annuncio della morte di Moro, come faceva Cossiga ad essere in via Caetani all’orario dichiarato dall’artificiere? Non è possibile rispondere e, di conseguenza, non è possibile prendere questa teoria come una verità assoluta.
C’è poi una curiosità che indebolisce ancora di più questa ipotesi. Nel libro “Piera e gli assassini”, del 2004, l’attrice e regista teatrale Piera Degli Espositi e la scrittrice Dacia Maraini raccontano dialogano e si confrontano sui temi più importanti della vita e riportano alcuni degli eventi cruciali della storia italiana, tra cui il ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro in via Caetani. Piera Degli Esposti, nel libro, racconta che quella mattina del 9 maggio lei si recò, appunto, in via Caetani perché aveva in programma un incontro con Aristide Brusa, l’amministratore dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico, ma Brusa non c’era. Così lei, sempre nel libro, racconta che non sapendo dove appoggiarsi, si guardò attorno e vide una macchina parcheggiata accanto al marciapiede, appoggiandosi sil cofano di una Renault 4 rossa.
Piera Degli Esposti, quindi, si sarebbe appoggiata all’automobile che conteneva il cadavere di Moro la mattina del 9 maggio, senza sapere di cosa si trattasse in quanto, essendo mattina, le BR non avevano ancora comunicato la posizione del corpo senza vita del presidente della Democrazia Cristiana. E questo aneddoto indebolisce ulteriormente la testimonianza di Signorile secondo cui lo Stato italiano avrebbe saputo prima della morte di Moro.
Altre teorie del complotto sul caso Moro
Ma non è finita qui, le teorie del complotto e le cosiddette dietrologie sul caso Moro sono davvero tante e diverse tra loro, e non riguardano solo presunti coinvolgimenti di attori terzi rispetto alle BR o testimonianze poco chiare sull’orario in cui lo Stato avrebbe saputo della morte di Moro. Una di queste riguarda la scoperta del covo delle BR di via Gradoli nel 1978, avvenuto in seguito alla segnalazione di una perdita d’acqua nell’appartamento sottostante. A causa della perdita i vicini chiamarono i Vigili del Fuoco, che durante il loro intervento si resero conto che nell’appartamento vi erano armi e documenti che riportavano alle Brigate Rosse e chiamarono la Polizia.
Alcuni brigatisti raccontarono che la perdita era stata il frutto di una distrazione: un rubinetto era stato lasciato aperto e aveva fatto colare l’acqua fino al piano di sotto. Secondo una delle ipotesi che ancora oggi circola, però, non si sarebbe trattato di una casualità. L’allagamento, infatti, secondo questa teoria, avrebbe fatto parte di un piano messo a punto dalle BR, che avrebbero messo una scopa di traverso nella vasca da bagno, agganciato il manico della doccia al bastone in modo che il getto d’acqua ricadesse in una fessura tra le mattonelle del muro.
Vladimiro Satta, però, mentre consultava alcuni atti della prima Commissione Moro, scoprì le foto originali scattate dalla Polizia che entrò in via Gradoli. «Nelle fotografie si vede la doccia regolarmente appoggiata al gancio di sostegno e una scopa messa di traverso nella vasca» ha spiegato Satta. Inoltre, sempre secondo quanto chiarito dallo storico a Facta, in nessuno dei rapporti di quella giornata, né dei Vigili del Fuoco, né della Polizia, veniva citata una scopa messa in maniera inusuale insieme al soffione della doccia.
Anche in questo caso una teoria smentita dalle prove concrete, che non può reggere di fronte all’evidenza.
Come ha sottolineato su X il giornalista di Fanpage Valerio Renzi, è molto probabile che la vasta produzione cospirazionista sul sequestro abbia a che fare con una sottovalutazione generale del ruolo e dell’organizzazione capillare della lotta armata in quegli anni, come hanno sottolineato anche Satta e Clementi a Facta. Esiste poi anche una componente di fascinazione per i misteri, una necessità di riempire di significato i vuoti lasciati dalla storia, ma qualunque sia la natura di questo complottismo è importante segnalare la debolezza dell’apparato su cui si regge.