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In Sud Sudan c’è una crisi umanitaria di cui non stiamo parlando

Dall’inizio di quest’anno sono riesplose le tensioni che ribollivano da tempo tra i leader dei due principali partiti al potere, rivali nelle scorse guerre civili

24 aprile 2025
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Nella geografia selettiva dell’attenzione globale, il Sudan del Sud è poco più che un punto cieco. La cronica crisi umanitaria, politica, di giustizia e di sicurezza che lo attraversa è troppo lunga e complessa, e non ha abbastanza peso strategico perché sia “appetibile” ai grandi media e si faccia priorità nell’agenda politica internazionale. Nel frattempo, però, una nuova guerra civile bussa sempre più forte alle porte dei sud sudanesi. 

Dall’inizio di quest’anno sono riesplose le tensioni che ribollivano da tempo tra i leader dei due principali partiti al potere, rivali nelle guerre civili (nel 2013 e 2016) che hanno segnato (e macchiato di indicibili atrocità di massa e del sangue di 400 mila morti) la breve storia del Sud Sudan indipendente e che dal 2020, nel quadro degli accordi che nel 2018 congelarono il conflitto, hanno condiviso il governo di transizione di unità nazionale in attesa di libere elezioni ancora pretestuosamente posticipate.

Una profonda crisi del potere centrale, intra e inter partitica, che ruota soprattutto attorno alla competizione per l’accesso alle risorse e le nomine politiche, si intensifica da allora. E una vasta ondata di violenze tra i rispettivi alleati armati si muove improvvisa e distruttiva per il Sudan del Sud, anche facilitata dall’iniezione di nuove armi nel Paese.

Come siamo arrivati fin qui

Da febbraio 2025 lo Stato dell’Upper Nile – situato nella parte Nord-Est del Sud Sudan – è travolto dai combattimenti tra il White Army – una caotica milizia locale di giovani della comunità etnica nuer associata al vicepresidente e leader del Movimento di liberazione del popolo sudanese all’opposizione (SPLM-IO), nuer pure lui, Riek Machar – e le Forze di difesa popolare del Sud Sudan (SSPDF) agli ordini del presidente e capo del Movimento di liberazione del popolo sudanese (SPLM), lui di etnia dinka, Salva Kiir. Ad accendere la miccia delle battaglie che ora rischiano di infuocare il Paese intero sarebbe stato uno schieramento massiccio di SSPDF, accompagnato da alcuni combattenti delle milizie etniche Agwelek e Abushok, sulla contea di Nasir, tradizionalmente roccaforte dei sostenitori nuer di Machar. 

L’assedio del 4 marzo da parte del White Army alla base militare governativa di Nasir e il successivo attacco a un elicottero ONU il 7 marzo, coinvolto in un’operazione concordata di evacuazione di soldati (con conseguente morte, tra gli altri, del comandante dinka della base occupata dai nuer), hanno rappresentato una svolta decisiva. Da metà marzo, con il supporto tecnico dell’Uganda, l’aviazione sud sudanese ha potenziato la sua campagna di bombardamenti sulla regione, in un’azione di rappresaglia contro quella che Salva Kiir bolla come un’offensiva su larga scala organizzata dal White Army e dal braccio militare dello SPLM-IO. E lo ha fatto anche sganciando ordigni incendiari su aree e infrastrutture civili: complessi residenziali, mercati, pompe idriche, rifugi, centri sanitari e nutrizionali sarebbero stati colpiti secondo quanto documentato da Human Rigths Watch, che conta decine e decine di vittime e molti più sopravvissuti ustionati gravi. Di «bombe barile che presumibilmente contenevano acceleranti altamente infiammabili» parlano anche le Nazioni Unite denunciando i numerosi attacchi indiscriminati contro i civili e anche le accuse dirette a entrambe le fazioni in campo di reclutamento di bambini nei gruppi armati.

Negli stessi giorni, gli arresti, le detenzioni e le sparizioni forzate di diversi alti funzionari politici e militari tra le fila del primo partito di opposizione e il confinamento imposto di fatto, con l’esercito inviato a circondare la sua residenza, allo stesso Machar accusato da Kiir di orchestrare le ribellioni nuer, hanno alzato sensibilmente anche il livello dello scontro politico. Tanto da far temere per il definitivo cedimento del già fragile processo di pace, che inizia a scontare il prezzo di esser stato dominato più dalle dinamiche di mantenimento del potere piuttosto che da una solida volontà di affrontare gli abusi del passato e di costruire una reale e duratura riconciliazione nel Paese. Gli echi inquietanti della guerra del 2013 si avvertono sempre più chiari.

L’ingresso di truppe straniere, più precisamente quelle ugandesi dispiegate nella capitale Juba su richiesta e a protezione di Kiir, non ha certo aiutato a calmare le acque. Proprio il coinvolgimento delle schiere di Kampala, additato dallo SPLA-IO come una violazione del divieto di supporto militare esterno alle parti imposto dall’embargo delle Nazioni Unite sulle armi al Sud Sudan, figurava come l’ultima delle ragioni dell’annunciato ritiro del partito dai meccanismi di sicurezza e politici previsti dall’accordo siglato ormai quasi sette anni fa a chiudere cinque anni di sanguinose guerre civili. 

Lo spettro di una nuova guerra civile

Lo scorso 27 marzo, l’ufficializzazione dell’arresto di Machar ha posto sulla questione quello che sembra essere il sigillo finale, aprendo a scenari allarmanti: lo SPLM-IO ha immediatamente dichiarato il Revitalised Peace Agreement – l’accordo firmato nel 2018 che congelò il conflitto – fallito de facto.

Intanto, si sono riversate a Juba le tensioni tra le SSPDF e i gruppi armati affiliati allo SPLA-IO, che non è chiaro quanto Machar riesca effettivamente a controllare, considerato anche l’alto numero di defezioni e cambi di bandiera che pare stiano colpendo la compagine. E i conflitti hanno ritrovato forza anche in altri Stati del Sudan, come l’Equatoria Occidentale e il Bahr el Ghazal Occidentale, storicamente focolai di sanguinarie dispute interetniche, dove a fine gennaio si erano registrati i primi scontri tra frange delle SSPDF e i ribelli legati allo SPLA-IO sulla scia di alcuni dei tanti rimpasti di governo decisi unilateralmente da Kiir e ampiamente interpretati come un strategia di marginalizzazione del potere dello SPLM-IO e del gruppo etnico nuer nell’apparato statale in vista delle prossime elezioni.

Il crescente ricorso alla propaganda di informazioni false e ai discorsi di incitamento all’odio, a soffiare un’altra volta sulle sempre calde divisioni e paure lungo le linee etniche, rappresenta l’ennesima red flag: «non ci resta che concludere che il Sud Sudan è sull’orlo di una ricaduta nella guerra civile», aveva avvertito a marzo il capo della missione delle Nazioni Unite attiva nel Paese, Nicholas Haysom

Allora corre veloce lo spettro di rinnovati massacri e pulizie etniche tra le popolazioni ancora traumatizzate e in balìa delle irrisolte questioni identitarie di un passato troppo recente e ignorato. Per non parlare della possibilità che il territorio sud sudanese si faccia campo libero per i tanti gruppi armati che lo popolano e le loro attività illecite. E poi ci sono le implicazioni sul panorama regionale, che sarebbero disastrose: il ritorno al confronto militare su larga scala – secondo l’analisi degli esperti dell’International Crisis Group – potrebbe aprire «una nuova arena per la guerra per procura nella regione». In particolare, spiega l’ICG, «la guerra civile o il collasso dello Stato in Sud Sudan probabilmente si fonderanno con il conflitto in Sudan, con politici e leader delle milizie che si alleeranno con Burhan e Hemedti (e i loro sostenitori) per ottenere armi e sostegno. Potrebbe anche dare ai belligeranti in Sudan, così come agli eserciti di altri paesi confinanti, carta bianca per usare o occupare il territorio sud sudanese per i propri scopi».

Insomma, è vero che nessuno dei molti e tutti precari trattati di pace, negoziati e puntualmente violati negli anni, è mai stato tanto efficace da sedare le fiammate di sconvolgente violenza etnica e i ciclici conflitti localizzati che hanno incessantemente minacciato i civili sud sudanesi nell’ultimo decennio e più. Ora, però, si affaccia il rischio insostenibile che il Sudan del Sud tutto (e con esso l’intero Corno d’Africa) precipiti in un collasso politico e militare, a ripetere gli orrori visti con le guerre del 2013 e 2016. E forse persino di peggio.

Una crisi umanitaria in corso

Mentre la diplomazia africana tenta una qualche mediazione e sempre più voci dell’opposizione chiedono indagini internazionali sui potenziali crimini di guerra in corso, si stima che l’escalation delle ostilità nell’Upper Nile solo tra febbraio e marzo abbia sfollato 80 mila persone. In oltre 20 mila hanno attraversato il confine con l’Etiopia, mentre molti altri aspettano di farlo accampati lungo il fiume Sobat. La violenza aggrava pure la crisi di salute pubblica che – guidata anche dai disastri climatici – affligge il Sudan del Sud, e che ora rischia di correre incontrollata tra i siti di sfollamento, dove si accalcano nel complesso oltre 2 milioni di sfollati interni sud sudanesi e più di un milione dei fuggiti dal conflitto del Sudan: il tasso di mortalità per colera a Nasir tocca ormai almeno il 4,4 per cento, ben oltre la soglia di allerta fissata dall’OMS all’1 per cento.

L’impatto sull’insicurezza alimentare può solo essere catastrofico, considerato che l’ultimo aggiornamento del World Food Programme conta il numero record di 7,7 milioni di affamati gravi nel Sud Sudan alle prese anche con una devastante crisi dei finanziamenti esteri. Prescindendo, poi, da quello che sarà l’effetto sul già drammatico crollo economico provocato dalla crisi fiscale che il Paese affronta dallo scorso anno (le entrate statali si sono ridotte di due terzi da quando i combattimenti in Sudan hanno colpito l’oleodotto di riferimento per l’esportazione petrolifera) e sicuramente favorito dall’approccio predatorio dei leader che ordinariamente saccheggia risorse ai servizi essenziali per miliardi: a questo punto, scuole e ospedali sono allo sfascio, i dipendenti pubblici continuano a non essere retribuiti, e l’inflazione è al 300 per cento. Ci sono anche, ancora, le gravi violazioni dei diritti umani e i crimini contro l’umanità che non smettono di proliferare, impuniti, nella nazione più giovane (e tra le più povere) al mondo, che non ha mai davvero conosciuto la pace. 

Il più recente report di Genocide Watch, segnalava già a luglio dell’anno scorso che il Sudan del Sud è da considerarsi sul livello nove delle dieci fasi di un genocidio: sterminio. «Dal 2013, i massacri etnici di civili sono diventati la norma», si legge sullo studio che accusa le milizie e gli eserciti sia dinka che nuer di portare avanti il bersagliamento dei civili su una scala tanto ampia da doversi considerare genocida. 

E l’ultimo resoconto della Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani nel Sud Sudan, presentato a fine febbraio, rivela quanto le eredità criminali del passato pesino ancora enormemente sul Paese, fomentate dalla corruzione diffusa tra le élite politiche e militari e da una pervasiva impunità che incoraggia tutti quanti insistono a perpetrare violenze e crimini brutali. «Le nostre indagini del 2024 hanno individuato gli stessi schemi di gravi violazioni negli stessi luoghi, spesso con il coinvolgimento degli stessi uffici pubblici e militari» ha spiegato la presidente Yasmin Sooka. «La violenza sessuale persiste sia nei contesti di conflitto che al di fuori, alti funzionari continuano ad approvare esecuzioni extragiudiziali, e il reclutamento forzato e il rapimento di bambini e bambine per il combattimento o la schiavitù sessuale proseguono senza alcun controllo».

La crisi divampata negli ultimi mesi ha sicuramente a che fare con il sistemico e sistematico fallimento del governo di transizione nel sostenere molte delle prescrizioni essenziali stabilite dalle intese di pace, comprese la definizione di una costituzione permanente, l’istituzione di meccanismi di giustizia transitoria per i crimini commessi sul territorio, e l’unificazione delle forze armate, tuttora pericolosamente non professionalizzate, allineate a diverse fazioni e prive di una struttura di comando integrata. Non di meno, però, poggia sull’inerzia della diplomazia e della politica internazionale che si è per troppo tempo distratta dal dovere di guardare anche al Sud Sudan e alle promesse di pace mancate al suo popolo.

Per farla breve, «tutte le nubi scure di una tempesta perfetta» scendono sul Sud Sudan – rubiamo le parole al Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. Ma il mondo insiste a non voler alzare lo sguardo. Isolato ai margini del discorso pubblico e diplomatico internazionale, e con gli aiuti stranieri totalmente insufficienti rispetto alle smisurate esigenze della popolazione allo stremo, il Sudan del Sud rischia di trasformarsi nell’ennesima catastrofe umanitaria dimenticata.

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