Di Francesca Capoccia
Lo scorso 7 giugno Ursula Haverbeck, una donna tedesca di 95 anni, si è presentata al tribunale di Amburgo per la prima udienza d’appello del processo che l’ha vista condannata per il reato di incitamento all’odio per aver pubblicamente negato la Shoah.
Haverbeck, infatti, il 12 novembre del 2015 era stata condannata a 10 mesi di carcere, senza sospensione condizionale della pena, per aver negato pubblicamento l’Olocausto in due occasioni diverse: al programma televisivo Panorama, dove avrebbe affermato che «l’Olocausto è la più grande e longeva menzogna della storia», e ai margini del processo a Oskar Gröning, 94 anni, ex guardia delle SS, dove aveva dichiarato che «Auschwitz non era un campo di sterminio, ma un campo di lavoro».
La donna ha un passato importante di estrema destra: dopo aver sposato l’ex ufficiale delle SS Werner Georg Haverbeck, è stata per anni a capo di un “centro di ricerca sull’Olocausto” che pubblicava materiale antisemita e negazionista, e che è poi stato chiuso nel 2008 per aver diffuso propaganda nazista. Nel corso degli ultimi anni Haverbeck è stata processata e condannata innumerevoli volte, passando anche due anni in carcere.
In Germania, negare o banalizzare l’Olocausto pubblicamente è considerato tra i reati di incitamento all’odio e, oltre a sanzioni economiche, è punibile fino a cinque anni di carcere. Secondo quanto riportato dalla stampa tedesca, Haverbeck aveva fatto ricorso per il processo del 2015 e l’udienza d’appello era stata originariamente fissata per il 2018, per poi essere ripetutamente ritardata a causa di motivi di salute di Haverbeck e per la pandemia da Covid-19.
Non appena si è diffusa la notizia dell’udienza d’appello, sui social sono comparsi molti post in diverse lingue che dipingono la “nonna nazi” – così soprannominata dai media tedeschi – come una martire, una perseguitata politica, una paladina che ha avuto il coraggio di dire “la verità”: «l’olocausto degli ebrei è un’invenzione, non è mai avvenuto». Questi post hanno raggiunto singolarmente fino a 2,2 milioni di utenti e sono diventati virali soprattutto su X, che dall’acquisizione di Elon Musk è diventato il paradiso di estremisti, razzisti e complottisti. A condividerli sono stati per lo più account antisemiti con la spunta blu a pagamento.
La logica del negazionismo della Shoah
Le affermazioni di Ursula Haverbeck non sono nulla di nuovo, ma rientrano nella teoria antisemita che nega l’Olocausto, basata sull’accusa secondo cui la Shoah sarebbe stata inventata o esagerata dal popolo ebraico come strategia per promuovere i propri interessi.
Come ha spiegato a Facta Valentina Pisanty, docente di semiologia all’Università di Bergamo e autrice di vari saggi sul negazionismo (tra cui L’irritante questione delle camere a gas), il negazionismo nel tempo è cambiato, diventando un fenomeno molto circoscritto. Queste teorie cospirazioniste, che hanno iniziato a diffondersi già subito dopo il secondo dopoguerra, hanno trovato ampio spazio soprattutto tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘90, quando «alcuni negazionisti avevano iniziato a smontare le testimonianze dell’avvenuto sterminio secondo dei metodi che potevano far pensare a una ricerca di tipo storiografico», dice Pisanty. È il caso de Il diario di Anna Frank, ritenuto un volgare falso scritto da un agente occulto della propaganda sionista. Il lavoro di “revisione” dei vari documenti aveva uno scopo ben preciso, racconta ancora la docente: «convincere che ci fosse un serio dibattito in corso tra quelli che loro chiamavano gli “sterminazionisti”, che sono gli storici veri, e i negazionisti che si auto definivano revisionisti».
Per chiarire meglio questi termini e questo passaggio, come fa la stessa Pisanty nell’articolo “Sul negazionismo”, è necessario sottolineare che ogni storico di base è revisionista, dal momento che rivede le proprie posizioni nel momento in cui entra a contatto con nuovi documenti. Lo fa però prendendo come vero l’assunto di base iniziale. Il negazionista, invece, non è un revisionista: nega a priori l’evidenza storica. «Per il negazionista della Shoah, l’inesistenza delle camere a gas è un dato posto come inconfutabile, a partire dal quale riscrivere radicalmente la storia della Seconda guerra mondiale, rifiutando aprioristicamente qualunque documento o testimonianza che attesti l’esistenza dello sterminio», scrive la professoressa.
Contrariamente a quanto sostenuto da negazionisti e complottisti di vario genere, esiste un’enorme quantità di prove e testimonianze che confermano la veridicità della persecuzione e uccisione degli ebrei e di altri gruppi di persone da parte del regime nazista e degli eserciti collaborazionisti. La cifra stimata e riconosciuta dalla storiografia è di diversi milioni di vittime, solitamente posta a cinque o sei milioni. Solo nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau i nazisti uccisero almeno 1,1 milioni di persone.
Com’è cambiato il negazionismo nell’era di Internet
Come spiega Pisanty, le tesi negazioniste di qualche decennio fa hanno goduto di un relativo successo grazie all’emergere delle nuove destre in Europa, di un certo clima culturale di scetticismo, e soprattutto perché i negazionisti sono riusciti a dare un’apparenza di neutralità ideologica e di rigore scientifico alle proprie pubblicazioni.
Con l’avvento di Internet la strategia è cambiata completamente. Più che argomentazioni e tesi vere e proprie, seppur infondate, «quelli che vengono diffusi sono dei meme» oppure frasi che si sentono ripetere da anni senza aggiungere nulla di nuovo. Nel corso degli ultimi decenni, inoltre, i negazionisti della Shoah sono stati spinti ai margini anche della stessa cultura di destra. «Non riconoscere l’avvenuto Olocausto» afferma Pisanty «vuol dire essere a priori esclusi da ogni aspirazione di riconoscimento politico».
Il negazionismo ha però contribuito indirettamente a sdoganare discorsi xenofobi e razzisti. «Avendo spostato l’asticella del discorso, rendendo intollerabile il negazionismo, tutto ciò che viene detto da chi ammette l’avvenuto Olocausto diventa automaticamente tollerabile», spiega sempre la profesoressa.
Sebbene il caso di Haverbeck sia minore rispetto ad altri casi analoghi del passato, su tutti quello che ha visto protagonista il negazionista britannico David Irving, è comunque esemplificativo di una più ampia e subdola strategia dell’estrema destra: quella cioè di usare a proprio favore le leggi contro il negazionismo della Shoah per diffondere teorie antisemite e naziste.
I negazionisti, spiega Pisanty, «storicamente hanno avuto successo perché hanno approfittato delle censure, delle leggi, dei provvedimenti disciplinari e delle sentenze giuridiche per promuovere la propria piattaforma». In sostanza, hanno capito che bisognava spostare il piano della discussione dalle loro tesi alla libertà d’espressione, oppure a dettagli biografici personali. È chiamando in causa la censura e autoproclamandosi martiri e paladini della libertà che il fenomeno si è ingrandito e ha attecchito nei pensieri di chi è già scettico e antisemita.
I post su X riguardanti Ursula Haverbeck seguono esattamente questa dinamica. «Questa donna non dovrebbe essere perseguita per aver espresso un’opinione», ha scritto su X l’influencer misogino britannico Tristan Tate, fratello del più noto Andrew Tate e come lui rinviato a giudizio in Romania per stupro, tratta di esseri umani e associazione a delinquere. «Se vogliamo processarla e condannarla, allora la corte e i procuratori che si occupano del caso dovrebbero avere la sua stessa età. Se uno non era lì a quei tempi non può emettere una sentenza di condanna». Jake Shields, un influencer statunitense di estrema destra, sempre su X si è chiesto: «Perché gli storici devono finire in galera se mettono in discussione i numeri dell’Olocausto? La nostra concezione della storia è sempre in evoluzione».
Tuttavia, sottolinea Valentina Pisanty, è proprio guardando alla storia che emerge il paradosso insito in queste dichiarazioni e in questa strategia: «i nazisti bruciavano i libri, mentre ora i negazionisti rilanciano il progetto nazista denunciando la censura delle idee».