In un articolo sul New York Times, pubblicato un mese dopo l’attacco del 7 ottobre, Steven Lee Myers e Sheera Frenkel, giornalisti esperti di disinformazione online e tecnologia, avevano spiegato che il conflitto Hamas-Israele sarebbe stata «una guerra mondiale online». Non c’è da stupirsi quindi che la propaganda israeliana possa servirsi di strumenti della cosiddetta guerra ibrida, come pop-up e pubblicità online. Ciò è reso possibile dal fatto che il mercato pubblicitario online sia dominato dalle cosiddette VLOP e VLOSE (“Very Large Online Platforms/Search Engine”, piattaforme online o motori di ricerca di dimensioni molto grandi), come Google, Meta e Amazon, che di fatto esercitano un’enorme influenza sul mercato delle pubblicità online.
Queste piattaforme sono i principali intermediari del mercato pubblicitario digitale, che connettono domanda (inserzionisti) e offerta (i concessionari, ovvero i proprietari dello spazio) con servizi altamente tecnologici di micro-targetizzazione del pubblico. Questo modello gestito da queste società funziona come una sorta di asta: non vince necessariamente l’inserzionista che è disposto a investire di più, ma quello che dimostrerà di utilizzare «parole chiave e annunci particolarmente pertinenti», stando alla descrizione fatta da Google della sua stessa asta.
Ma non è tutto, perché i concessionari possono vendere direttamente alle piattaforme gli spazi pubblicitari che non sono riusciti a vendere attraverso l’asta. Così, i pacchetti di inserzioni rimasti invenduti finiscono nelle mani delle piattaforme come Google, che a loro volta “subaffittano” questi spazi ad altri inserzionisti che il concessionario può quindi non conoscere affatto.
Per evitare di vendere spazi a inserzionisti “malintenzionati”, all’interno del sistema di aste di Google esiste un meccanismo di moderazione – basato su una combinazione di intelligenza artificiale e «valutazione umana» – pensato per escludere contenuti vietati dalle norme di Google Ads. Ciononostante a volte il sistema di filtraggio non funziona e ciò ha permesso a contenuti di pornografia e discorsi d’odio di ingannare la moderazione, oltre alla disinformazione di cui stiamo parlando. La policy di Google Ads contiene infatti anche delle norme relative ai “contenuti multimediali manipolati” che vietano la «falsificazione ingannevole dei contenuti inerenti questioni politiche, sociali o di interesse pubblico».
Per capirne di più abbiamo consultato una fonte che conosce il caso e una portavoce di Google Italia.
Pop up e propaganda: tutto all’oscuro di tutti
Secondo una fonte anonima a conoscenza dei meccanismi interni di questo sistema, quello rilevato da Facta non è affatto «un singolo episodio». Infatti, il pop-up è apparso su ANSA diverse volte durante i mesi di novembre e dicembre 2024, evolvendosi anche nella resa grafica, per poi scomparire. Come riferito dalla fonte, il caso era stato segnalato internamente ad ANSA e a Google durante gli ultimi mesi, ma sarebbe possibile rendersi conto di queste “infiltrazioni” solamente ex-post. Questo perché il pop-up di cui parliamo rientra nella categoria degli spazi pubblicitari invenduti dal concessionario, e quindi riacquistata da Google.
A riprova del fatto che la dinamica descritta sia parte di una più ampia strategia propagandistica, un’inchiesta pubblicata su Wired nello scorso mese di agosto aveva portato alla luce l’esistenza di diversi spazi pubblicitari di Google acquistati dall’IGAA – l’Agenzia governativa israeliana per la pubblicità – per promuovere, a pagamento, la propaganda contro l’Agenzia per i rifugiati palestinesi. L’obiettivo sarebbe stato l’acquisto di spazi pubblicitari su Google per deviare il traffico web e instillare dubbi sulla neutralità dell’Agenzia, scoraggiando così le donazioni. In quel caso la portavoce di Google, Jacel Booth, aveva confermato a Wired USA la rimozione di alcune di quelle pubblicità, nonostante questi contenuti «rispettassero le policy» richieste dalla piattaforma agli inserzionisti. Ancora a dicembre 2024 l’UNRWA aveva denunciato la continua presenza di questi messaggi disinformativi.
Secondo la nostra fonte interna, è proprio nel passaggio dalla concessionaria ai sistemi di “subaffitto” che chi vuole promuovere propaganda riesce a trovare spazio. I sistemi per filtrare tali “contenuti inappropriati” sarebbero infatti delle semplici blacklist di termini contenuti nell’inserzione e nell’URL del sito web. Eludere tali precauzioni è insomma piuttosto facile. È in queste maglie larghe che è riuscito a infiltrarsi l’inserzionista che tra novembre e dicembre ha promosso la propaganda israeliana sul sito dell’ANSA. Non si tratta di un caso isolato, dal momento che più volte negli ultimi mesi l’IGAA è riuscita a promuovere pubblicità tramite Google in Italia, con ads visualizzate milioni di volte, successivamente oscurata dalla piattaforma.
Abbiamo provato a contattare Google Italia, che ci ha risposto con una dichiarazione via e-mail in cui spiega di dare «massima priorità» alla protezione degli utenti, attraverso «rigorose policy sugli annunci» a cui «tutti gli inserzionisti devono aderire». In caso di mancato rispetto delle policy, spiega ancora Google, «prendiamo rapidamente provvedimenti». Google non ha fornito alcuna ulteriore risposta a nostre domande più approfondite circa il ruolo della “valutazione umana” nei processi di moderazione.
Un ulteriore chiarimento di Google sarebbe stato senza dubbio molto utile, dal momento che nelle loro policy in materia di “attività soggette a limitazioni” è previsto che gli inserzionisti governativi abbiano la necessità di «essere certificati da Google» per poter pubblicare «annunci per documenti e servizi governativi». Questo ci avrebbe aiutato a comprendere perché tutte le inserzioni dell’IGAA in Italia siano state prima rese pubbliche con pop-up e banner, per poi venire oscurate in un secondo momento.
Abbiamo contattato ANSA per dare alla testata la possibilità di fornire la propria versione dei fatti, ma alla data della pubblicazione non abbiamo ancora ricevuto risposta.