Nella notte tra sabato 23 e domenica 24 novembre 2024, a Milano, il diciannovenne Ramy Elgaml ha perso la vita in un incidente mentre era a bordo di uno scooter guidato dall’amico 22enne Fares Bouzidi. I due avevano superato senza fermarsi un posto di blocco dei carabinieri e, durante l’inseguimento a perdifiato che ne è seguito per i successivi otto chilometri, sono rimasti coinvolti in un incidente in cui Elgaml ha perso la vita. La dinamica ha scatenato proteste nel quartiere Corvetto, dove vivevano i due ragazzi, con accuse verso i carabinieri, ritenuti responsabili della tragedia, e richieste di «verità per Ramy».
La procura di Milano ha aperto un’indagine sull’episodio, mettendo sotto inchiesta sia il carabiniere alla guida dell’auto che ha inseguito i giovani, sia Bouzidi che conduceva la moto. L’iscrizione nel registro degli indagati del militare e del 22enne permetterà a entrambi di nominare un avvocato e di prendere parte alle procedure che i magistrati disporranno per chiarire la dinamica dell’incidente. Bouzidi, subito dopo l’accaduto, era stato trasportato in gravi condizioni all’ospedale San Paolo, dove ha aperto gli occhi dal coma solo dopo una settimana. Il ragazzo, dimesso dall’ospedale, si trova ora agli arresti domiciliari accusato di resistenza a pubblico ufficiale e indagato, insieme al carabiniere, per omicidio stradale. Alcuni media hanno riportato anche che le indagini, ad oggi, si starebbero concentrando su eventuali segni di impatto tra l’auto dei carabinieri e lo scooter su cui viaggiavano e due ragazzi, oltre a valutare anche una perizia cinematica con cui si potrebbe ricostruire il sinistro attraverso dei calcoli. Dopo le proteste degli amici della vittima e la loro apparizione in vari programmi TV, la procura di Milano che indaga sull’incidente ha messo sotto la sua lente sei carabinieri; si tratta dei militari giunti sul luogo dell’incidente a bordo di tre diverse auto. Nei loro confronti è stato disposto il sequestro dei telefoni cellulari per analizzare eventuali conversazioni o immagini registrate immediatamente dopo l’accaduto. Al momento in cui scriviamo, cioè l’11 dicembre 2024, il registro degli indagati include quattro nomi, ma anche se le posizioni sotto esame sono sei. Fares Bouzidi, l’amico della vittima che era alla guida del T Max, e il vicebrigadiere al volante dell’auto dei carabinieri coinvolta nell’incidente in via Quaranta, sono accusati di omicidio stradale. Altri due militari sono invece indagati per favoreggiamento e depistaggio, in relazione a quanto riportato da un testimone oculare, a cui sarebbe stato chiesto di eliminare un video che documentava l’accaduto.
Nonostante i risultati dell’esame autoptico su Elgaml, la visione di alcuni video da parte delle forze dell’ordine e le deposizioni di alcuni testimoni, le dinamiche dell’incidente non sono ancora chiare. Ed è stata proprio l’iniziale ambiguità delle circostanze a scatenare le proteste. Secondo alcuni amici di Ramy, infatti, l’incidente sarebbe stato causato dall’auto dei Carabinieri, che avrebbe speronato lo scooter provocandone la caduta. Nei giorni successivi al drammatico evento, alcuni amici della vittima hanno dato vita a una manifestazione di protesta nel quartiere di Corvetto, dove il ragazzo abitava. Secondo quanto riportato dai media si sarebbe trattato di dimostrazioni violente durate vari giorni, con l’accensione di roghi e lo scoppio di petardi e fuochi d’artificio e scontri con le forze dell’ordine, terminati con l’arresto di un manifestante di 21 anni. Il padre della vittima aveva condannato ogni forma di violenza e alcuni giorni dopo centinaia di persone hanno partecipato alla fiaccolata organizzata dagli amici di Ramy Elgaml da Corvetto a via Ripamonti, per ricordare il 19enne.
Il tragico incidente e le successive proteste hanno infiammato il dibattito e vari esponenti pubblici e politici hanno colto l’occasione per alimentare retoriche razziste e islamofobiche collegate al fatto che Corvetto, il quartiere milanese al centro di questa storia, sarebbe abitato principalmente da persone immigrate e di religione islamica. Ad esempio, il vicepremier e segretario della Lega Matteo Salvini, ospite a Non stop news, programma su Rtl 102.5, ha dichiarato che «c’è un problema drammatico su queste benedette seconde generazioni, sulle baby gang di figli di cittadini stranieri, ragazzi nati in Italia ma che non si sentono parte di questo Paese». Anche Fratelli d’Italia è sulle stesse posizioni. Romano La Russa, assessore regionale alla Sicurezza e esponente del partito, ha affermato che «siamo arrivati ad una situazione di violenza inaccettabile, serve un giro di vite senza se e senza ma iniziando con gli sgomberi degli abusivi», aggiungendo inoltre che nel quartiere «ci sono numerosi alloggi popolari occupati soprattutto da immigrati, non mi stupirei se le centinaia di persone che hanno compiuto questi atti di guerriglia urbana arrivassero da lì». Fino ad arrivare alle dichiarazioni islamofobiche di Vittorio Feltri, direttore di Il Giornale, nonché consigliere regionale lombardo di Fratelli d’Italia, che durante la trasmissione la Zanzara su Radio24, ha dichiarato apertamente il suo odio nei confronti delle persone musulmane.
La situazione, però, è più stratificata e complessa di così e il discorso pubblico e politico hanno, nella maggior parte dei casi, completamente mancato alcuni punti fondamentali della questione, oltre che diffondere odio, xenofobia e razzismo.
Il contesto alla base delle proteste
Sulle ragioni delle proteste la discussione pubblica si è infiammata e la narrazione principale che ha occupato media e social media affonda le sue radici in un pregiudizio xenofobo secondo cui le persone di origini straniere sarebbero “naturalmente” violente. In realtà, ci sono molti livelli di complessità che spiegano le proteste e che non vanno analizzati solo attraverso la lente dei disordini dei giorni scorsi.
Prima di tutto è importante evidenziare che la rabbia degli amici di Ramy Elgaml è stata suscitata principalmente da un profondo senso di ingiustizia che discende da una narrazione dei fatti che ha quasi completamente escluso le loro voci, che hanno descritto una dinamica diversa da quella che è stata inizialmente diffusa dalle forze dell’ordine e dai principali media. In una ricostruzione iniziale i Carabinieri hanno sostenuto che il motorino su cui viaggiavano i due ragazzi sarebbe scivolato da solo. Nadir, un amico stretto di Ramy, il 28 novembre 2024, ha dichiarato a il manifesto che lui e i suoi amici chiedono «solo giustizia e verità, luce sui fatti», aggiungendo che secondo lui la vicenda è andata diversamente rispetto a quanto raccontato, anche se «ora, però, c’è stato un primo passo, hanno aperto un’indagine sul carabiniere, una cosa che all’inizio sembrava impossibile. Questo per noi è già un primo passo per calmare gli animi».
Secondo quanto riportato da alcuni amici della vittima in un servizio realizzato dal programma Le Iene, andato in onda il 1° dicembre 2024, il motorino sarebbe stato tamponato dall’auto dalle forze dell’ordine, provocando l’incidente. Nello stesso servizio due testimoni hanno raccontato (dal minuto 06:00) di aver assistito all’incidente e aver fatto dei video, dichiarando di aver visto che «i carabinieri li hanno proprio presi da dietro, dalla ruota», video che poi, hanno continuato, sarebbero stati cancellati dalle forze dell’ordine. Molti giorni dopo l’incidente e le proteste, il ragazzo è stato ascoltato il 3 dicembre nell’ambito dell’inchiesta come testimone oculare della vicenda e la procura di Milano ha ampliato il numero dei carabinieri messi sotto inchiesta.
Sempre nel servizio mandato in onda da Le Iene si sentono alcuni amici di Ramy Elgaml spiegare che la loro frustrazione, alla base delle proteste, è stata causata dal racconto di una dinamica, secondo loro, discordante dalla realtà, ma anche dalla più generica narrazione dei fatti. «Anche questo ha fatto scatenare la rabbia di tanta gente» ha spiegato un ragazzo, «dalla notizia trascurata», fino all’odio «nei confronti di un ragazzo che non ha compiuto neanche 20 anni, in una maniera inaccettabile, senza nessun senso». L’intento delle proteste, ancora secondo alcuni ragazzi intervistati da Mediaset, era quello di far arrivare i giornalisti e dare spazio nei media alla storia. «Se si fosse parlato solo di un morto nessuno sarebbe qui a parlare» ha sostenuto uno degli amici di Ramy Elgaml, «perché noi siamo andati a fare una manifestazione pacifica [slegata dalla vicenda, ndr] e non è arrivato un giornalista», ha concluso, spiegando ma comunque condannando la piega violenta che hanno preso le manifestazioni di quei giorni.
Durante la fiaccolata non violenta organizzata il 30 novembre in ricordo di Ramy Elgaml e l’amico Fares Bouzidi, risvegliato dal coma proprio quel giorno, alcune delle persone che partecipavano hanno spiegato (da 01:16:00) che «l’episodio ha generato un’ondata di proteste che mostrano la frustrazione e la rabbia accumulate nelle comunità popolari, gravemente colpite dalla precarietà economica e dalla marginalizzazione sociale». Chi partecipava alla manifestazione ha aggiunto anche che «la questione diventa non solo più quella di una vita persa, ma di una continua lotta per la giustizia sociale e l’uguaglianza» descrivendo come «la rabbia espressa dalle comunità popolari si scontra con la narrazione dominante dei media, che spesso dipinge figure come Ramy con toni negativi», generalizzando e additando tutte le persone con un background migratorio e che vivono in quartieri periferici come criminali.
Proteste nate dalla necessità di chiedere giustizia per un singolo caso, per la morte di un ragazzo appena maggiorenne, che però portano con sé una serie di motivazioni profonde e sociali che non possono essere ignorate per capire cos’è successo a Corvetto.
La stratificazione delle disuguaglianze
Come hanno rivendicato gli amici e le amiche di Ramy durante la fiaccolata di sabato 30 novembre, uno degli elementi che non si possono trascurare quando si guarda a proteste come quelle che sono seguite al tragico incidente della notte tra il 23 e il 24 novembre, sono le condizioni di disuguaglianza a cui persone non bianche o con origini straniere sono spesso obbligate.
«Gli stranieri a Milano oggi rappresentano circa il 19 per cento della popolazione, e dal 2010 sono 60 mila in più. Si tratta perlopiù di famiglie, di residenti, di regolari. Di questi, molti sono giovani e giovanissimi: più di 25 mila hanno meno di 24 anni e l’Egitto è il primo Paese di provenienza», ha spiegato a Facta Valeria Verdolini, sociologa, docente all’Università di Milano Bicocca e all’Università degli Studi di Milano e presidente di Antigone Lombardia, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. «A causa della mancanza di una legge sulla cittadinanza adeguata ai cambiamenti demografici e sociali, il 22,7 per cento delle persone nate in Italia viene considerato “straniero” alla nascita» ha aggiunto Verdolini, spiegando che questo significa che un numero significativo di giovani si trova, in molti casi, di fronte a un futuro pieno di ostacoli e opportunità limitate.
A questo si aggiunge anche il fatto che Milano è una delle città più diseguali d’Italia. Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero dell’Economia e delle finanze e rielaborati dal Corriere della Sera, nel 2021 il reddito medio pro capite della città di Milano è stato di 37.204 euro, tra i valori più alti nel nostro Paese, ma i guadagni da lavoro dei cittadini non sono identici in tutti i quartieri. Ad alzare la media generale è il centro città, cioè la zona che si estende da Brera fino a Moscova e al Castello Sforzesco. Qui nel 2021 il reddito medio dichiarato era di 94.553 euro. Una differenza abissale con i quartieri più periferici, come Quarto Oggiaro dove il reddito medio era di 17.986 euro. Questo significa che tra il quartiere con il reddito pro capite medio più alto e quello più basso ci sono più di 70 mila euro di differenza. «Proprio perché in città sono presenti tra le persone più ricche d’Italia e tra i quartieri più ricchi d’Italia» ha continuato Verdolini, «la coesistenza con persone nella soglia di povertà assoluta, crea un differenziale che probabilmente è uno dei grossi problemi». Secondo la sociologa, la diseguaglianza non è semplicemente il tasso di povertà, ma la coesistenza in uno spazio molto stretto come la città di Milano, con grosse differenze sociali ed economiche, definendo di fatto una differenza di potere e di opportunità per un’intera parte della popolazione. L’insieme delle fragilità giuridica ed economica che ha delineato Verdolini riducono la gamma di opportunità per un numero consistente di giovani e giovanissimi che molto spesso si trovano in una situazione di opportunità bloccate. Un senso di frustrazione alimentato da una parte dalle mete sociali di una città costosissima e, dall’altra, dal basso numero di possibilità per trovare una realizzazione.
Secondo Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni all’Università degli Studi di Milano, oltre alle disuguaglianze giuridiche ed economiche elencate da Verdolini, si aggiunge l’incapacità delle società riceventi di offrire più possibilità alle seconde generazioni e ai giovani di origine straniera. «Se le prime generazioni di persone che sono arrivate in Italia hanno accettato lavori poveri per una serie di motivi» ha raccontato a Facta il sociologo, «i figli di queste persone, cresciuti in Italia e socializzati al benessere come i loro coetanei, non sono più disposti ad accettare occupazioni sottopagate e al di sotto del loro percorso formativo». Secondo Ambrosini, tale situazione alimenta la frustrazione perché questi giovani hanno idee, valori e rappresentazioni dei consumi, delle aspirazioni, della consapevolezza culturale di cosa significa avere “un buon lavoro”, molto allineate con quelle dei giovani di origine italiana, ma sono svantaggiati sotto il profilo delle opportunità e dei mezzi per raggiungerle.
Valeria Verdolini ha spiegato che, comunque, «il fattore che ha scatenato quella rabbia non è solo quello che riguarda le opportunità bloccate», ma è necessario considerare anche un senso di frustrazione rispetto a come viene gestito il rapporto tra le istituzioni, e soprattutto le forze dell’ordine, e persone di seconda generazione o di origine straniera.
I problemi dell’Italia con la profilazione razziale non possono essere ignorati
La profilazione razziale è una pratica che consiste nel prendere di mira individui o gruppi specifici di persone in base alle loro caratteristiche e senza un motivo giustificato. Più precisamente si tratta dell’utilizzo, da parte degli agenti delle forze dell’ordine, quando procedono a operazioni di sorveglianza, controllo o indagine, di elementi quali il colore della pelle, la lingua, la religione, la nazionalità, o l’origine nazionale e etnica, senza alcuna giustificazione oggettiva o ragionevole. In Italia, il 71 per cento della popolazione immigrata o afrodiscendente ritiene di esserne stata vittima almeno una volta.
Nel luglio 2023 l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) aveva inviato Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione delle discriminazioni razziali (Cerd) una segnalazione con la quale chiedeva al Comitato di raccomandare all’Italia di adottare provvedimenti per contrastare la profilazione razziale in maniera efficace. Il 31 agosto dello stesso anno il Cerd aveva pubblicato le sue osservazioni conclusive con le quali accoglieva le richieste di Asgi, evidenziando alcuni interventi necessari che il governo italiano avrebbe dovuto adottare per rispettare pienamente la Convenzione per l’eliminazione delle discriminazioni razziali.
Poco più di un anno dopo, cioè il 22 ottobre 2024, la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (Ecri), un organo indipendente di monitoraggio in materia di diritti umani, ha pubblicato il sesto rapporto sulle raccomandazioni alle autorità italiane in materia di diritti umani. Tra queste, l’Ecri ha evidenziato come in Italia siano ancora presenti situazioni di violenza sistemica e profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine, le quali sono sempre più evidenti e prendono di mira soprattutto le persone di etnia Rom e le persone nere provenienti dall’Africa. L’Ecri ha suggerito all’Italia di condurre un’indagine approfondita e indipendente per analizzare e affrontare eventuali pratiche di profilazione razziale messe in atto dalle forze dell’ordine, sia a livello simbolico che sistemico.
Queste pratiche, secondo Valeria Verdolini, hanno un ruolo negli avvenimenti di Corvetto, nella reazione di Fares Bouzidi che, anche secondo gli amici, avrebbe evitato il blocco dei Carabinieri perché stava guidando senza patente, ma anche nella rabbia e nella frustrazione dimostrate nei giorni successivi. «Si tratta di una generazione di ragazzi e ragazze» ha detto la sociologa, «che vivono una fragilità giuridica [data dalla difficoltà di ottenere la cittadinanza, ndr] che li rende estremamente vulnerabili nei confronti delle forze dell’ordine, a prescindere dalle loro azioni». Una situazione che, insieme alle opportunità bloccate e alla disuguaglianza economica, mette un’intera parte della popolazione della città – ma anche di tutto il Paese – a un livello più basso, che può generare rabbia e frustrazione.
Le proteste scoppiate a Corvetto dopo la morte di Ramy Elgaml non sono il risultato di un «istinto naturale alla violenza», come l’ha definita una parte della narrazione politica e mediatica, ma il frutto di una somma di frustrazioni: dalla marginalizzazione economica e sociale, alle difficoltà di integrazione, fino alla mancanza di rappresentazione e al senso di ingiustizia legato al trattamento delle comunità di origine straniera o con background migratorio.