La rivista Limes ha da poco pubblicato un numero dedicato al cambiamento climatico, intitolato “A qualcuno piace caldo”. La chiave di lettura è quella della disciplina a cui la rivista è dedicata, cioè la geopolitica:
Un approccio geopolitico al tema climatico parte inevitabilmente dalla peculiarità dei contesti: impatto dei cambiamenti in base a latitudine, ubicazione geografica, caratteristiche orografiche e socioeconomiche, quantità e qualità di risorse a disposizione per contrastarlo.
Così la presentazione inquadra il numero della rivista, che è ricco di contributi. Si parla, tra l’altro, di come sta cambiando il clima nel Mediterraneo, dei seri limiti del piano italiano di adattamento, della transizione energetica in Cina, delle implicazioni del riscaldamento globale per la Russia. Ci sono persino interventi di scienziati, tra cui uno sulla storia della climatologia.
Limes ha l’ambizione di coprire il tema del cambiamento climatico praticamente in ogni suo aspetto. Ma c’è un problema: il cappello sotto cui tutta questa trattazione si ritrova. In un video-editoriale, il direttore Lucio Caracciolo spiega il senso del nuovo numero della rivista, ma lo fa facendo alcune affermazioni discutibili.
«Non c’è nulla di meno globale della lotta al cambiamento climatico», dice Caracciolo, osservando come anche durante la COP29, l’ultima conferenza internazionale sul clima che quest’anno si è svolta a Baku, in Azerbaigian, il Nord e il Sud globale si siano trovati di nuovo ai ferri corti sulla principale questione che li divide: le risorse economiche che i Paesi ricchi dovrebbero far fluire verso quelli poveri. I Paesi meno sviluppati, che rispetto al cambiamento climatico sono i meno responsabili ma i più vulnerabili, non sono affatto soddisfatti degli impegni fin qui promessi dai Paesi ricchi.
Inoltre, prosegue Caracciolo, gli effetti del cambiamento climatico sono molto diversi a seconda delle regioni, «dalla Russia settentrionale al deserto arabico». Banalmente, anche con il riscaldamento globale sulla Terra continuano a esserci fasce climatiche diverse. Sulla base di questa ovvietà, Caracciolo afferma che «ragionare per combattere effetti globali non ha senso, mentre ha molto senso ragionare su come combattere effetti specifici». E qui infila la considerazione più scorretta di tutto il suo intervento:
Dico effetti perché, a parte che il dibattito sulle cause resta abbastanza aperto anche se la traccia umana sui cambiamenti climatici è ormai abbastanza assodata, quello che conta è capire che la battaglia contro la CO₂, contro i gas serra, è una battaglia persa, perché mentre noi discutiamo questa concentrazione di CO₂ nell’atmosfera continua ad aumentare.
Sicché, conclude Caracciolo, non possiamo permetterci di aspettare l’azzeramento delle emissioni, ma bisogna intervenire subito nei territori per adattarci agli effetti del cambiamento climatico.
Il discorso contiene un grave errore fattuale e almeno due fallacie logiche: non sequitur (una conclusione che non segue dalle premesse) e falsa dicotomia (due concetti presentati come alternativi anche se non lo sono).
L’errore fattuale è l’affermazione secondo cui «il dibattito sulle cause resta abbastanza aperto». Da quali fonti viene tratta questa idea? Non ce n’è nessuna che non sia negazionista. Il dibattito scientifico su cosa ha causato l’attuale cambiamento climatico è chiuso da un pezzo: sono state le attività umane, tra tutte quelle legate all’uso dei combustibili fossili.
La «traccia umana», per usare le parole di Caracciolo, è ben più che «abbastanza assodata»: è inequivocabile. «Le attività umane, principalmente attraverso le emissioni di gas serra, hanno inequivocabilmente causato il riscaldamento globale», afferma l’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change. I suoi autori adottano scale di probabilità e confidenza per esprimere l’incertezza scientifica, ma non sulla causa del riscaldamento globale: questa è ormai un fatto.
L’affermazione di Caracciolo sul «dibattito abbastanza aperto» non è solo erronea in sé, ma condiziona anche l’intera visione del problema delle emissioni di gas serra (in un certo senso, quindi, è anche una falsa premessa a tutto il resto del discorso).
Infatti, se non è la CO₂ che noi umani abbiamo mandato in atmosfera ad aver cambiato il clima del pianeta, allora perché lamentarsi che la sua concentrazione continua ad aumentare? Se c’è ancora un margine di incertezza sul ruolo dei combustibili fossili, allora perché dovremmo correre per portare a termine una costosa transizione energetica? Con tutte le azioni che comporta, soprattutto quelle più impopolari, cioè proprio quelle su cui certa disinformazione e demagogia politica, non a caso, si accaniscono (come nel caso delle auto elettriche).
Il non sequitur riguarda proprio le emissioni di CO₂.
Secondo il Global Carbon Project le emissioni globali di CO₂ da combustibili fossili sono aumentate nel complesso dello 0,8 per cento nel 2024 rispetto all’anno precedente. A contribuire è soprattutto l’India (+ 4,6), la Cina in misura minore (+ 0,2) e il traffico commerciale via mare e quello aereo (+ 7,8), questo ancora in recupero rispetto ai livelli pre-pandemia. Le emissioni degli Stati Uniti diminuiscono dello 0,6 per cento e quelle dell’Unione Europea del 3,6.
Basta il segno + per dimostrare che si sta andando nella direzione sbagliata e anche una lieve diminuzione sarebbe ben lontana da quanto drasticamente dovrebbe piegare verso il basso quella curva. Ma tutto ciò non significa affatto che quella contro la CO₂ sia una «battaglia persa» (affermazione che campeggia anche sulla copertina di Limes).
Anche se il riscaldamento globale dovesse superare, magari temporaneamente, 1,5 °C, l’obiettivo massimo dell’Accordo di Parigi sul clima, e anche se non riuscissimo ad azzerare le emissioni entro il 2050, o il 2060, dovremmo continuare a fare tutto il possibile per ridurle. In questi anni scienziati e comunicatori della scienza si sono sforzati, in tutti i modi, di far capire che, al di là di soglie e obiettivi, ogni frazione di grado di aumento della temperatura pesa e conta per gli effetti che determina sul sistema climatico.
Ecco dunque la falsa dicotomia: non c’è nessuna contrapposizione tra l’azzeramento delle emissioni di gas serra e l’adattamento agli effetti del cambiamento climatico. Del resto nessuno ha mai sostenuto, come sembra fare Caracciolo, che si debbano azzerare le emissioni prima di adattarsi.
Questo è anche uno dei messaggi principali del rapporto dell’IPCC: ogni decimo di grado conta, qualunque riduzione delle emissioni è vitale anche una volta superato il grado e mezzo, perché ogni frazione determina effetti climatici, ecosistemici e socioeconomici (e non necessariamente lineari). Potremmo non centrare gli obiettivi che ci siamo prefissati, ma adattarsi a 2,3 °C non è come adattarsi a 3,5.
Una falsa dicotomia è anche contrapporre il globale al locale. «Non c’è nulla di meno globale della lotta al cambiamento climatico», dice Caracciolo, perché gli effetti del cambiamento climatico sono diversi a livello locale. Ma se è vero che le manifestazioni locali – ondate di calore, siccità, precipitazioni estreme e altri eventi – sono la manifestazione più concreta e visibile del cambiamento climatico, sono però il prodotto di un fenomeno globale.
L’infondata dicotomia globale-locale cancella il cambiamento climatico come processo planetario, con una propria coerenza spaziale e temporale, che è ciò che lo distingue dalle variazioni climatiche degli ultimi duemila anni, spesso chiamate in causa per negare la realtà o la rilevanza di quella attuale.
In definitiva Lucio Caracciolo sembra dare, del cambiamento climatico, una rappresentazione di comodo, adattata al proprio particolare punto di osservazione. A chi si occupa di geopolitica il tema interessa come questione essenzialmente locale, per la «peculiarità dei contesti», per le ripercussioni che ha nei diversi Paesi e sui loro equilibri politici.
Ma la “geopolitica del cambiamento climatico” non può prescindere dalla scienza del cambiamento climatico. Il suo contributo può essere utile se non si riduce alla constatazione banale che il clima della Siberia è diverso da quello dell’Arabia Saudita. E se non confonde il “realismo” con il cinismo.
In un editoriale del nuovo numero di Limes – che quindi rappresenta la posizione della rivista – si arriva a sentenziare che «il cambiamento climatico è tema troppo serio per lasciarlo ai climatologi»; che ci sarebbe «chi si intesta il consenso climatologico con sentenza intesa cassazione: “Lo dice la scienza”»; si ironizza su «Gaia [la Terra] sta per morire soffocata dalle emissioni di gas serra, da quindi azzerare al più presto»; si lamenta che «su questa Verità liofilizzata e diffusa via media si mobilitano da decenni accesi movimenti di massa incarnati fino a ieri dall’iconica Greta Thunberg, cui non solo media e leader politici ma persino studiosi autocertificati s’inchinavano, quasi oracolare Sibilla del clima: “Lo dice Greta”».
A che serve esattamente questa retorica nell’introdurre un tema che è appunto tanto «serio»? L’idea puerile che sul cambiamento climatico ci sia chi «si intesta» la «Verità», l’immancabile e trita ironia sull’attivista Greta Thunberg, perfino il sarcasmo sull’azzeramento delle emissioni, fanno parte di un lessico che è francamente negazionista.
Non c’è nessuna «verità liofilizzata», qualsiasi cosa sia, e nessuno «si intesta» il consenso climatologico, se non chi l’ha costruito – gli scienziati – attraverso molti decenni di ricerca. Forse, questo consenso, sarebbe bene semplicemente riconoscerlo e partire da lì.
L’idea che «il cambiamento climatico è tema troppo serio per lasciarlo ai climatologi» può essere vera e saggia se interpretata in questo senso: il problema riguarda tutti e tutti se ne possono e devono interessare. Se declinata in quel modo diventa, invece, solo un’espressione di arroganza intellettuale.