Di recente si è parlato di un revival di una strategia per ridurre le emissioni di CO2, una delle principali cause della crisi climatica in corso. Si tratta della cattura e stoccaggio del carbonio. L’idea è quella per cui la CO2 emessa venga catturata, tenendola fuori dall’atmosfera: un modo per uscire dall’impasse tra fonti rinnovabili e combustibili fossili, rendendo queste ultime “pulite” (o meno “sporche”). Una tecnologia però osteggiata da recenti decisioni politiche, come il blocco dei finanziamenti votato il 21 dicembre 2021, ma che secondo altri è necessaria per mitigare la crisi climatica.
Di cosa si tratta, e perché se ne parla? Scopriamolo insieme.
Che cos’è la cattura e lo stoccaggio del carbonio
Spesso quando si parla di cattura dell’anidride carbonica confondiamo due tecnologie diverse. La prima e più importante è la carbon capture (utilization) and storage (Ccs o Ccus, cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio), in cui la CO2 prodotta ad esempio da una centrale elettrica viene rimossa alla sorgente, là dove viene emessa. L’altra è il cosiddetto carbon dioxide removal (Cdr, rimozione del biossido di carbonio), in cui invece si rimuove la CO2 presente nell’atmosfera, in particolare la cosiddetta direct air capture (Dac). In entrambi i casi si accumula CO2 e la si immagazzina fuori dall’atmosfera, dove non può più partecipare all’effetto serra. Ma le affinità finiscono qui: si tratta di due tecnologie molto diverse, con costi, efficienze e significati differenti. In questo articolo ci concentreremo sulla Ccs, mentre accenneremo solo alla Dac, in quanto è una tecnologia ancora immatura il cui ruolo nella gestione della crisi climatica sembra del tutto minoritario.
La Ccs di per sé non rimuove CO2 che esiste già, impedisce invece che se ne accumuli di nuova. La Ccs quindi può servire per abbattere le emissioni di CO2 da impianti che, altrimenti, immettono in aria numerosi gas serra. I primi candidati sono le centrali a combustibili fossili, come quelle a carbone o a gas, ma ci sono anche processi industriali come quelli che coinvolgono il cemento o la produzione di idrogeno.
La Ccs però, almeno in teoria, può effettivamente rimuovere indirettamente CO2 dall’atmosfera se accoppiata all’utilizzo di biomasse per creare energia (BioEnergy with Ccs o Beccs). In questo caso le biomasse, ovvero piante, rimuovono CO2 ma, grazie alla Ccs, quando vengono bruciate la CO2 non viene rimessa in circolo. L’effetto netto è che la CO2 viene rimossa. Si tratta però di un concetto che, al momento, esiste quasi solo allo stato sperimentale.
La Ccs richiede tre passaggi: separare la CO2 dal resto delle emissioni, trasportare la CO2 (di solito compressa) e stoccarla da qualche parte dove non possa sfuggire in atmosfera. Questo è il passaggio più critico, perché il sito in cui viene depositata la CO2 deve poter tenere un gas isolato dall’atmosfera per tempi molto lunghi, idealmente su scala geologica. Le principali opzioni sono in profondità nel sottosuolo: giacimenti petroliferi o di carbone ormai esauriti o non sfruttabili, o disciolto in falde acquifere salate non altrimenti utilizzabili. Questi depositi dovrebbero essere in grado di tenere la CO2 isolata al 99 per cento per migliaia di anni o più, come ci ha confermato la geologa Sabina Bigi, docente alla facoltà di Scienze della Terra della Sapienza di Roma e coinvolta nella ricerca internazionale sullo stoccaggio di CO2: «Per fuoriuscire il gas dovrebbe superare numerosi strati impermeabili ad alta profondità e questo, se le infrastrutture sono fatte in modo corretto, non può accadere.»
I depositi però devono essere continuamente monitorati per sincerarsi che le perdite siano bassissime o inesistenti – le leggi italiane ed europee richiedono esplicitamente questa documentazione – e non mettano a rischio per esempio le falde acquifere (la CO2, sciogliendosi nell’acqua, la rende acida e può facilitare quindi il disciogliersi di metalli pesanti dai minerali presenti nel terreno).
Sono state pensate alternative come depositare la CO2 sul fondo oceanico o trasformarla chimicamente in minerali inerti, ma entrambe queste opzioni hanno grosse problematiche in termini ambientali o di costi. La CO2 rilasciata sul fondale oceanico può restare lì per secoli, ma rischia di alterare l’acidità di una percentuale non insignificante dell’oceano (fino all’1 per cento delle acque) e danneggiare gli organismi marini. Trasformare la CO2 in minerali richiede di far reagire chimicamente la CO2 con quantità enormi di roccia, e quindi sforzi minerari estremamente costosi energeticamente ed economicamente, e problematici dal punto di vista ambientale. Infine parte della CO2 può essere riutilizzata a scopi industriali, ma si tratta quasi sempre di quantità secondarie.
Quanto è efficiente?
L’efficienza della Ccs si misura nella sua capacità di rimozione della CO2 e nei costi. Di per sé la Ccs è una tecnologia efficiente: in teoria un impianto può catturare dall’85 al 95 per cento della CO2 prodotta da una centrale elettrica. In pratica, contando che la centrale deve produrre energia in più per supportare l’impianto Ccs, l’efficienza cala un poco ma rimane superiore all’80 per cento. Da questo punto di vista quindi la Ccs funziona piuttosto bene.
Dal punto di vista dei costi economici ed energetici, secondo alcuni studi la Ccs, applicata alla produzione di energia, non sembra capace di reggere il confronto con le energie rinnovabili. Due studi, uno del 2019 e uno del 2020, hanno confrontato i costi di Ccs e rinnovabili e hanno concluso che rinnovabili e stoccaggio dell’energia sono più convenienti rispetto alla costruzione di nuove centrali Ccs che bruciano combustibili fossili. Uno studio della Victoria University ha calcolato che, a parità di kilowatt per ora, una centrale a carbone con Ccs costa sei volte di più rispetto al rinnovabile. Resta il fatto che ogni politica di Ccs richiede sostanziali incentivi fiscali, come ammesso anche dagli stessi proponenti della tecnologia. In una lettera contraria alla Ccs, pubblicata su Left il 13 dicembre 2021, diversi docenti universitari italiani hanno protestato contro l’ipotesi che questi costi vengano scaricati sulla fiscalità generale, invece di essere sopportati dalle aziende del combustibile fossile. In ogni caso la Ccs aumenta, inevitabilmente, il prezzo dell’energia, si stima di 1-5 centesimi di dollaro per kilowatt.
A che punto siamo
Al 2021 si contano 43 impianti Ccs al lavoro nel mondo, di varie dimensioni. I quattro più grandi sono capaci di raccogliere oltre 4 milioni di tonnellate di CO2 all’anno: sono gli impianti Cranfield, Century e Bell Creek negli Stati Uniti e l’impianto di Gorgon in Australia (quest’ultimo però ha fallito gli obiettivi promessi). La capacità attuale di Ccs è molto piccola, rimuove in totale 40 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. Per confronto, le emissioni totali di CO2 nel 2020 ammontavano a 31,5 miliardi di tonnellate. La Ccs oggi quindi abbassa le emissioni di circa un millesimo della CO2 prodotta nel mondo: l’equivalente di una piccola nazione europea come la Norvegia o il Portogallo. Gran parte dei progetti di Ccs ha a che fare con l’estrazione di gas naturale, e non con la produzione di energia “sporca” da carbone o petrolio.
In Europa ci sono al momento tre progetti operativi, due in Norvegia e uno in Croazia, mentre altri 22 sono in sviluppo. In Italia l’Eni ha pianificato un impianto Ccs al largo di Ravenna, in fase di valutazione, che però a novembre 2021 ha subito una battuta d’arresto, non ricevendo il sostegno economico dal Fondo europeo per l’Innovazione. Per quanto riguarda la messa in atto della Ccs in Italia, secondo Sabina Bigi «la tecnologia Ccs di per sé è matura: la sua messa in atto dipende dalle decisioni dei governi. In Italia nel 2011 è stata recepita la direttiva europea con una legge che però non è stata seguita dai decreti attuativi e quindi non è applicabile. Per l’Europa il problema è complesso ma comunque sempre politico-sociale.»
Nel 2021 sono stati annunciati oltre 100 nuovi impianti Ccs nel mondo, che in teoria potrebbero quadruplicare la capacità di cattura della CO2. Restiamo comunque ben al di sotto degli obiettivi: la capacità di Ccs dovrebbe raggiungere 1,6 miliardi di tonnellate di CO2 nel 2030 per adeguarsi alla roadmap di emissioni nette zero previsto dalla International energy agency (Iea) mentre, al livello di crescita attuale, resterebbe a 700 milioni di tonnellate, meno della metà nel 2050.
Pro e contro ambientali
Sebbene numerose associazioni ambientaliste si oppongano all’uso della Ccs, considerata una falsa soluzione che ritarda la transizione verso le energie rinnovabili, gli scenari dell’International panel on climate change (Ipcc) prevedono quasi sempre un largo uso di biomasse abbinate a Ccs per rimuovere CO2 dall’atmosfera da un lato, e l’uso di Ccs per ridurre le emissioni degli impianti a combustibili fossili dall’altro. Una strategia non priva di effetti collaterali: l’uso massiccio di Beccs rischia di avere effetti ecologici profondi sull’uso del territorio, dedicato ad ampie coltivazioni di biomasse da usare come combustibile.
Usare la Ccs permetterebbe di continuare a utilizzare più combustibili fossili anche in scenari che tengono il riscaldamento sotto i 2 gradi, qualcosa che potrebbe rendere più facile la transizione ecologica. Il problema è che la capacità di Ccs necessaria è molto grande, con scenari che arrivano addirittura a richiedere una capacità di 10 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno. Quantità, come abbiamo visto, molto superiori alla capacità attualmente presente o prevista. Non è chiaro quindi se si tratti di un obiettivo realistico, ma comunque la si pensi la Ccs di certo non è un “proiettile magico” da sola: ha senso solo all’interno di una transizione verso le energie rinnovabili.
Viceversa, la Ccs può effettivamente spingere invece al consumo di combustibili fossili, come temono i docenti che hanno firmato l’appello contro questa tecnologia. Oggi gran parte dei progetti Ccs sono abbinati al recupero di petrolio da giacimenti petroliferi: il gas CO2 spinto in profondità permette di far fuoriuscire petrolio altrimenti difficile da raggiungere. È una tecnologia che si chiama enhanced oil recovery (Eor) ed esiste in realtà da ben prima della Ccs. L’uso della CO2 come Eor aiuta le compagnie a rientrare dei costi di dover poi stoccare la CO2 con il Ccs. Secondo i critici però questo riduce grandemente i benefici ambientali della Ccs: in pratica la Ccs diventerebbe una sorta di trucco per sfruttare ulteriormente i combustibili fossili. La Ccs però resta una delle tecnologie principali per ridurre le emissioni di CO2 da industrie come quelle di cemento e acciaio.
Possiamo rimuovere direttamente la CO2 dall’aria?
A lato, un’altra tecnologia di cui a volte si sente parlare è la rimozione diretta dell’anidride carbonica dall’aria o Dac. Invece di catturare la CO2 all’origine, la Dac intende eliminare direttamente la CO2 presente nell’atmosfera.
È una tecnologia costosa e che richiede molta energia: la CO2 nell’aria è enormemente diluita e rimuoverla quindi richiede di processare enormi quantità di aria. I costi economici sono stimati tra 100 e 1.000 dollari per tonnellata di CO2 rimossa, anche se almeno uno studio suggerisce che i costi siano nella parte bassa di questa forbice, tra 94 e 232 dollari. Al momento non esistono impianti Dac su larga scala; in tutto il mondo ce ne sono 19, e arrivano a catturare poco più di 10.000 tonnellate di CO2 all’anno. Il primo impianto di grande capacità dovrebbe aprire negli Stati Uniti nel 2024 e catturare un milione di tonnellate di CO2 all’anno.
Tutte queste incertezze rendono difficile fidarsi della Dac come di una tecnologia su cui puntare per mitigare la crisi climatica. Uno studio del 2019 ha calcolato che, se puntiamo sulla Dac e poi questa non riesce a mantenere gli obiettivi previsti, potremmo sforare gli obiettivi climatici di 0,8 gradi. Visti i costi e il suo grado embrionale di sviluppo, la Dac sembra quindi una scommessa suggestiva ma precaria, su cui è pericoloso fare affidamento.
In conclusione
Rimuovere la CO2 può sembrare un’alternativa “morbida” alla transizione energetica: un modo per continuare a sfruttare le fonti fossili in modo almeno parzialmente pulito, ma in realtà le cose sono più complesse.
I grandi organismi internazionali coinvolti nell’analisi della transizione energetica, come l’Ipcc e l’Iea, ammettono che la Ccs è probabilmente necessaria per rendere più rapida e liscia la transizione climatica, e per alcune industrie non energetiche, come quella del cemento, sembra una delle principali soluzioni. C’è però il rischio che la Ccs possa essere una “foglia di fico” con cui l’industria petrolifera cerca di mostrare un impegno ambientale, sfruttando però la tecnologia per estrarre ulteriori fonti fossili. La cattura diretta dell’anidride carbonica al momento non sembra invece un’opzione su cui valga la pena scommettere, anche se non si può escludere che le cose cambino in futuro.
In generale, qualsiasi sia l’opinione su queste tecnologie, possono al massimo accompagnare ma non sostituire un cambiamento completo delle nostre politiche energetiche, in cui la stragrande maggioranza dell’energia deriva dalle fonti rinnovabili entro il 2050.