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La disinformazione prima di Internet – Dal cavallo di Troia allo sbarco in Normandia

Un racconto a puntate di come le informazioni false o fuorvianti accompagnano l’umanità dall’alba dei tempi, fino a perdersi nella leggenda

22 novembre 2024
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Il cavallo di Troia è una fake news. Non perché non possiamo essere certi che sia esistito davvero e nemmeno perché probabilmente non si è trattato affatto di un cavallo. Alcuni archeologi infatti sostengono da anni che il poema omerico sia stato male interpretato dai suoi traduttori e il famoso equino di legno potrebbe essere stato invece una nave fenicia (che in greco si chiamava hippos – cavallo – per via di un usuale fregio con la forma dell’animale). L’inganno di Troia, qualunque siano state le sue modalità, può essere considerato una notizia falsa in piena regola perché fu uno stratagemma che ha offerto una rappresentazione mendace della realtà, polarizzando il dibattito tra i troiani e alla fine inducendoli in errore.

Secondo quello che scrive Virgilio nell’Eneide quando gli Achei, i combattenti greci, finsero di abbandonare le coste di Troia lasciando un dono ai nemici come riconoscimento per aver resistito al decennale assedio, nei fatti, portarono avanti una campagna di disinformazione. Lasciarono intendere di aver rinunciato a conquistare la città, nascondendo invece i loro guerrieri migliori nel cavallo (o nave). Sicché, quando gli assediati portarono la costruzione dentro le mura per festeggiare la vittoria della guerra, i soldati achei poterono conquistare la città dall’interno, massacrando i troiani ormai ebbri per i festeggiamenti. 

Il cavallo di Troia, in definitiva, è un caso di disinformazione usata come tattica di guerra. Come uno strumento, cioè, per vincere i conflitti armati. Di casi simili – e meglio documentati sul piano storico – l’umanità ne ha visti parecchi. 

Disinformazione di guerra 

Già ne L’arte della guerra, un libro considerato il più antico manuale di strategia bellica della storia umana, vengono introdotti alcuni concetti di quella che fu poi definita guerra ibrida o psicologica. Secondo il generale Sun Tzu, vissuto in Cina tra il VI e il V secolo avanti Cristo e a cui è attribuito lo scritto, diffondere informazioni false e «discordanze» – così le chiama lui –  nei ranghi nemici è un metodo tra i più efficaci per fiaccare la volontà degli avversari e ottenere vantaggi competitivi. «La guerra si fonda sull’inganno», si legge nel testo, che è allo stesso tempo militare e filosofico. «Crea discordanze nello Stato avversario» e «disturba il nemico con falsi allarmi e false informazioni», suggerisce lo stratega, i cui princìpi hanno influenzato le successive teorie sulla guerra e sono ancora applicati nelle operazioni di guerra ibrida, tra cui si inserisce la disinformazione nella sua accezione attuale.  

Il caso più significativo, e relativamente vicino a noi, riguarda la Seconda guerra mondiale. Prima dello sbarco in Normandia, la grande campagna che cambiò le sorti del conflitto, gli Alleati (guidati da Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica) architettarono la più grande operazione di inganno militare di sempre, comprensiva di quello che fu poi definito come “l’esercito fantasma”.

Uno dei carriarmati gonfiabili usati nelle operazioni di depistaggio

Nei mesi antecedenti l’invasione del 6 giugno 1944, infatti, statunitensi, britannici e canadesi attuarono un piano di dissimulazione complesso e su larga scala, noto come Operazione Fortitude. L’obiettivo era confondere e ingannare le forze tedesche riguardo alla vera data e al luogo dell’attacco. Gli Alleati fecero credere ai tedeschi che lo sbarco principale sarebbe avvenuto nella regione di Pas-de-Calais, molto più a nord rispetto alla Normandia, o addirittura in Norvegia, utilizzando una vasta gamma di tecniche di disinformazione. 

Tra queste, la creazione di un intero esercito fittizio composto da carri armati gonfiabili, aerei di legno e falsi movimenti di truppe, supportati da trasmissioni radio ingannevoli e da una rete di spie doppiogiochiste che fornivano informazioni false ai tedeschi. Un’illusione, una messinscena utilizzata per simulare il dispiegamento del Primo Gruppo d’Armata degli Stati Uniti, comandato dal generale George Patton, che i tedeschi consideravano il comandante nemico ideale per condurre l’avanzata alleata. Molti fattori contribuirono e cruciale fu il lavoro di una fitta rete di spie doppiogiochiste. Tra le più celebri, c’è l’agente Garbo – questo il nome per i britannici della spia spagnola Juan Pujol García – che passò i finti piani d’attacco del presunto sbarco a Calais alle alte sfere militari naziste, tanto da convincere che quella in Normandia fosse l’azione diversiva, e non il contrario.

Dei soldati trasportano un carroarmato di gomma

Parallelamente, venne orchestrato un massiccio bombardamento delle coste settentrionali della Francia e furono inviati messaggi codificati per rafforzare l’idea che lo sbarco sarebbe avvenuto a Pas-de-Calais, il punto più vicino tra le coste inglesi e francesi e dove Hitler si convinse sarebbero sbarcati i suoi nemici, tanto da indurlo a mantenere truppe significative in quella regione, riducendo la resistenza che gli Alleati avrebbero poi incontrato in Normandia.

Quando finalmente ebbe luogo il D-Day, il 6 giugno 1944, l’elemento sorpresa fu decisivo. Le forze tedesche erano così disperse e disorientate dalle informazioni contrastanti che non riuscirono a reagire efficacemente all’offensiva alleata. Il successo dell’invasione anfibia non fu solo dovuto alla superiorità numerica o tattica, ma anche il risultato di una delle più grandi operazioni di disinformazione militare mai orchestrate. E non è di certo un caso isolato. 

Finti mezzi da sbarco dispiegati a ridosso del D-Day

Tra il leggendario assedio di Troia e il D-Day in Normandia, infatti, di operazioni di disinformazione ce ne sono state molte e non sempre sul piano strettamente militare, per quanto comunque nell’ambito di conflitti. Gli stessi nazisti, oltre alla disinformazione sistematica, con tanto di ministero della propaganda, giustificarono l’invasione della Polonia simulando di aver subìto un’aggressione. Il 31 agosto 1939 la polizia segreta tedesca inscenò la distruzione di una stazione radio nella città di Gliwice da parte di soldati polacchi. I tedeschi uccisero dei loro prigionieri dopo averli vestiti con uniformi naziste, incolpando i polacchi per il presunto attacco. Una messinscena in base alla quale il giorno seguente Hitler ordinò all’esercito di entrare in Polonia. In pratica,  i tedeschi hanno usato una storia falsa per legittimare l’inizio delle ostilità che sarebbero poi sfociate nella Seconda guerra mondiale. 

Nei conflitti, il piano comunicativo è importante quanto il campo di battaglia, tanto per attirare consensi quanto per risollevare il morale di cittadini e soldati. Per questo, gli obiettivi soliti delle campagne di propaganda militare sono la demonizzazione del nemico, la glorificazione dei propri combattenti e la diffusione di informazioni false o ingannevoli. Tattiche utili per depistare gli avversari oppure guadagnare il supporto delle proprie truppe o dell’opinione pubblica, secondo schemi che oggi sono ben noti ma che venivano utilizzate già da prima che il consenso dei cittadini acquisisse la centralità che ha oggi nei moderni stati democratici nella gestione del potere politico.

Giovanna d’Arco e lo Zio Sam

Durante la fase conclusiva della Guerra dei Cent’Anni, per esempio, nella prima metà del 1400, sia la Francia che l’Inghilterra utilizzarono la propaganda per manipolare la percezione della popolazione e mantenere il sostegno alle rispettive cause. Significativa è proprio la figura di Giovanna d’Arco, contadina-guerriera che che i francesi usarono come simbolo divino di resistenza e speranza. La scrittrice Christine de Pizan, in particolare, scrisse il Ditié de Jehanne d’Arc, un poema che esalta Giovanna come inviata da Dio per salvare la Francia, rafforzando così la legittimità di Carlo VII, allora sovrano francese. Al contrario, gli inglesi la demonizzarono, presentandola come una strega, nel tentativo di minare il morale francese e giustificare le proprie azioni militari. Tanto che, dopo averla catturata, nel 1431, uccisero sul rogo la diciannovenne paladina, al cui destino il re francese si era ormai disinteressato. Anche in questo caso, sulla divinizzazione della Pulzella d’Orleans, oltre che sulla sua capacità di motivare l’esercito con la fede, fu costruito il successo francese nella più lunga guerra della storia umana, durata 116 anni. E gli studiosi ancora oggi dibattono sulla possibilità che lo stesso Ditié de Jehanne d’Arc sia stato pensato e realizzato proprio come strumento di propaganda a sostegno di Carlo VII e della sua causa, sfruttando la figura di Giovanna d’Arco come simbolo di legittimità. Una versione che pare credibile a molti studiosi, sebbene manchi una visione completa e definitiva di come Christine intendesse distribuire il poema e a che scopo, anche per via della scarsità di fonti e documenti. 

Secondo schemi simili, le campagne di propaganda o disinformazione sono una presenza costante anche in conflitti ben più recenti. Le rivoluzioni francese e americana, le due guerre mondiali, la guerra del Vietnam, del Golfo, delle Falklands: in tutti questi conflitti  le campagne di manipolazione delle informazioni hanno avuto un ruolo cruciale per ottenere l’appoggio alla causa. I vari governi in guerra hanno sfruttato i vari mezzi di comunicazione nati nel Novecento per diffondere messaggi a loro utili oppure omettere le notizie che preferivano non arrivassero ai cittadini o alle truppe. Anche la scelta di non diffondere alcune notizie, infatti, può portare vantaggi a chi ha interesse a tenerle celate: la censura è uno strumento di controllo delle informazioni molto antico, e se ne trovano riferimenti già nella Bibbia. Platone la riteneva addirittura un elemento necessario della sovranità, argomentazione poi presa in prestito da vari regimi autocratici. Il termine propaganda, invece, si è guadagnato l’attuale accezione negativa durante le Prima guerra mondiale e poi a causa dell’intensivo ricorso che ne hanno fatto i regimi nazista e fascista. Durante il primo conflitto mondiale, i governi si resero conto che per mantenere il morale alto, reclutare soldati e ottenere il sostegno economico della popolazione, dovevano controllare e indirizzare l’informazione.

Entrambi gli schieramenti crearono uffici governativi dedicati. Nel Regno Unito fu istituito il War Propaganda Bureau (Ufficio della propaganda di guerra, in italiano) nel 1914, con il compito di produrre materiali propagandistici a sostegno dello sforzo bellico, con qualche risultato: ad esempio, nel 1917, i giornali britannici come il Times e il Daily Mail pubblicarono una storia macabra secondo cui i tedeschi stavano estraendo grasso dai corpi dei soldati morti, sia tedeschi che alleati, per produrre sapone e margarina. Alla stampa la soffiata arrivò proprio dalle autorità inglesi che, pur consci della sua falsità, la usarono per alimentare l’odio verso i tedeschi e descriverli come barbari.

«Papà, cosa hai fatto TU nella Grande Guerra», chiede la figlia al padre in questo manifesto di propaganda, pubblicato nel 1915 dal Comitato di reclutamento parlamentare britannico

La produzione è stata così vasta da ispirare parecchi studi successivi, tra cui “Riflessioni di uno storico sulle notizie false della guerra” in cui lo storico francese Marc Bloch si interroga sulle cause, la diffusione e gli effetti delle false notizie durante la guerra, osservando come le notizie infondate si diffondano rapidamente in tempi di conflitto, alimentate dalla paura, dall’ignoranza e dalla necessità umana di spiegare eventi traumatici attraverso narrazioni, anche se inesatte o completamente inventate.

I vari governi utilizzarono una vasta gamma di nuovi e vecchi mezzi per diffondere le proprie narrazioni: manifesti, film, giornali, riviste, cartoline e persino lettere. Accompagnati da immagini forti e slogan incisivi, divennero strumenti potenti per trasmettere messaggi semplici e diretti, ma di grande effetto. La propaganda della Germania smobilitò la simbologia del pantheon norreno, rivisitata in chiave pop, per legittimare la chiamata alle armi o il finanziamento della guerra, mentre i nemici venivano descritti come combattenti decrepiti e confusi, in divise logore. In modo simile, durante la Seconda guerra mondiale, i giapponesi esaltarono il patriottismo sfruttando la presa della figura dei Samurai, attingendo dalla tradizione, e della flotta aerea, sfruttando lo stupore per l’innovazione. Alcuni di questi strumenti per il proselitismo sono stati così efficaci da diventare iconici, e arrivare fino a noi.

L’iconico manifesto americano per il reclutamento di soldati, pubblicato per la prima volta nel 1917

«I want YOU for U.S. army»: il celebre manifesto americano entrato nella cultura pop mondiale altro non era che una locandina per reclutare soldati, nato emulando un simile poster inglese del 1914. Per arruolare gente, la grafica sfruttava la figura dello Zio Sam, già nota nell’immaginario del popolo americano come simbolo della nazione, che, puntando il dito al lettore, lo chiamava alle armi indirizzandolo alla più vicina stazione di reclutamento.

È curioso notare come certe tattiche sopravvivano ai secoli e, pur cambiando nella forma, rimangano identiche nella sostanza. È il caso delle figure identitarie sfruttate per reclutare e motivare truppe: in pratica, lo Zio Sam e Giovanna d’Arco sono la stessa cosa.

La guerra dell’informazione

Ora come ora, la propaganda di guerra è letteralmente ovunque in Europa. Dall’invasione russa in Ucraina l’infosfera europea è stata inondata di narrazioni della propaganda Russa, che demonizzano gli ucraini e i loro leader – dipingendoli come nazisti e corrotti –, cercano di minare il sostegno della comunità internazionale alla nazione invasa e descrivono la Russia di Putin come un Paese vittima della sopraffazione occidentale. 

Notizie false in linea con queste narrazioni hanno preso a circolare già mesi prima dell’invasione e da quel momento in poi sono state lanciate decine di campagne di disinformazione, spesso sfruttando hacker, bot e altre tattiche di cyberwar, come gli attacchi informatici a infrastrutture cruciali. Il Cremlino ha una struttura di propaganda capace di operazioni di disinformazione massicce e sofisticate, tanto che la disinformazione oggi non è più solo una tattica di guerra per ottenere un vantaggio militare ma piuttosto proprio un fronte del conflitto. In maniera simile, infatti, dal 7 ottobre 2023, quando l’operazione terroristica di Hamas ha dato inizio alla guerra tra Israele e Hamas e riacceso il conflitto in Medio Oriente, diverse narrazioni di disinformazione – sia filo-israeliane che filo-palestinesi – hanno preso a circolare nei canali di comunicazione europei, esaltando le azioni militari delle parti in guerra e disumanizzando gli avversari. Ma questo tipo di campagne di disinformazione spesso superano i confini delle tattiche militari in senso stretto.

È la guerra ibrida (hybrid warfare, in inglese): usando la comunicazione e la diffusione di informazioni false, principalmente la Russia e altri Stati prendono di mira i Paesi occidentali  utilizzando la disinformazione per promuovere i propri obiettivi di politica estera. L’intensità dello sforzo che attori statali e non hanno messo negli ultimi anni ha reso meno netti i confini di ciò che torna utile sul campo di battaglia e le campagne di comunicazione che cercano di promuovere ideologie, visioni più o meno distorte della società e della stessa realtà fattuale. Solo che prima si faceva con poemi epici e canzoni popolari, mentre oggi con i social network, con i bot e le fabbriche di troll, anche se coesistono con alcuni metodi più classici, come i finanziamenti ad agenti interni nel tentativo di interferire nelle elezioni democratiche.

I piani sono più che mai interconnessi. Ad esempio, inquinare il dibattito politico internazionale nel tentativo di ridurre o rallentare le forniture militari all’Ucraina, ha potenzialmente effetti notevoli per la Russia anche sul campo di battaglia.  Ma per polarizzare le opinioni pubbliche occidentali e renderle meno coese su questioni fondamentali (quale è la guerra in Ucraina), serve far leva anche su altri argomenti divisivi: immigrazione, politiche Lgbtq+, cambiamento climatico. Così la scala del fenomeno aumenta e supera i confini dello strumento bellico, fino al punto che il confine tra strategie di politica estera e operazioni di guerra ibrida risulta molto sfumato.

Lo spettacolo cui assistiamo sui social ogni giorno sembra più una battaglia tra visioni contrapposte, alimentata dai vari interessi geopolitici in gioco. L’utilizzo della disinformazione in politica, d’altronde, ha una tradizione millenaria.

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