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La disinformazione prima di Internet – Venditori di fumo: pubblicità e disinformazione

Un racconto a puntate di come le informazioni false o fuorvianti accompagnano l’umanità dall’alba dei tempi, fino a perdersi nella leggenda

3 gennaio 2025
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«La disinformazione uccide» è stato ripetuto a più riprese quando, in piena emergenza pandemica da Covid-19, complotti e false informazioni sui vaccini hanno portato fasce della popolazione a diffidare dalla vaccinazione contro il virus. Vittime di disinformazione, molte persone rimasero scoperte dalla protezione contro la forma più severa della malattia, con conseguenze spesso fatali. Chi ha seguito le puntate precedenti de “La disinformazione prima di Internet”, però, sa che non fu certo la prima volta che storie false sono costate la vita a qualcuno. 

Ci sono industrie, ad esempio, che lucrano dalla vendita di prodotti dannosi per la salute umana e che quindi hanno interesse nel minimizzare o nascondere gli effetti nocivi dei loro prodotti. Detto così, può sembrare un comportamento spregevole, ma in realtà la cosa è tanto comune da essere ampiamente normalizzata. Tra i tanti esempi che si possono fare, ce n’è uno “lampante”: le sigarette. 

La Tobacco Strategy

Oggi i molti effetti nocivi che il fumo provoca alla salute sono noti, soprattutto per ciò che riguarda correlazione tra il fumo e malattie gravi, come il tumore ai polmoni o alle vie respiratorie. Oltre alle diverse campagne di informazione tese a sensibilizzare i cittadini, in Italia, dal 2016 sugli stessi pacchetti di tabacco ci sono foto e dati sui danni che il fumo comporta. La strada per arrivare a questa consapevolezza però è stata lunga, e i tentativi di scalfirla proseguono ancora oggi. 

Quando, già negli anni Cinquanta, vennero pubblicati i primi studi che dimostravano la correlazione tra il fumo e il cancro ai polmoni, i produttori di sigarette capirono che si trovavano di fronte a una minaccia esistenziale per il proprio business. Invece di adattarsi ai nuovi dati o studiare soluzioni per ridurre la nocività dei propri prodotti nel limite del possibile, le principali aziende del settore adottarono una strategia di disinformazione per contrastare e offuscare la verità sugli effetti nocivi del fumo. Questa campagna, in seguito chiamata Tobacco Strategy, era incentrata sulla diffusione di dubbi, confusione e notizie false riguardo ai rischi per la salute associati al fumo.

«Molti medici preferiscono le Camel», diceva una pubblicità del 1946. Fonte: Stanford University

Le principali compagnie di tabacco formarono delle coalizioni per difendere i loro interessi economici, fondando organizzazioni come il Tobacco Industry Research Committee (TIRC), un’entità che sosteneva di condurre studi indipendenti per valutare i rischi del fumo. In realtà, il TIRC aveva lo scopo primario di seminare incertezza sull’evidenza scientifica consolidata sui danni da fumo. Attraverso campagne pubblicitarie e relazioni false, si fece passare l’idea che non esisteva una prova definitiva e consenso tra gli studiosi sul legame tra fumo e cancro. L’industria finanziò direttamente scienziati e ricercatori per pubblicare studi “controversi” che gettassero ombra sulle conclusioni già ampiamente accettate. Lo scopo era intorbidire la discussione scientifica sul tema per rallentare la regolamentazione del tabacco e far sì che la popolazione continuasse a percepire il fumo come non particolarmente pericoloso, così da indurre le persone a sottostimare i rischi per la propria salute, in modo che continuassero a consumare tabacco e ne fossero dipendenti. 

Questa strategia iniziò a essere progressivamente smantellata a partire dagli anni Novanta, quando documenti interni delle aziende di tabacco vennero resi pubblici, in seguito a diverse azioni legali. Negli Stati Uniti, le cause più significative sfociarono nel Master Settlement Agreement del 1998, un accordo con il quale le principali compagnie di tabacco accettarono di pagare centinaia di miliardi di dollari agli Stati per i costi sanitari legati al fumo, di limitare la pubblicità del tabacco – soprattutto nei confronti dei giovani – e di creare archivi pubblici con i documenti interni che le aziende avevano tenuto nascosti, tra cui c’è oggi l’archivio digitale Truth Tobacco Industry Documents curato dalla University of California a San Francisco. 

Una delle rivelazioni più importanti emerse dai vari documenti fu infatti che l’industria sapeva della pericolosità del fumo già da decenni, ma aveva deliberatamente ingannato il pubblico per difendere i propri interessi economici. Le conseguenze di queste campagne di disinformazione furono immense, con milioni di morti attribuibili alle malattie legate al tabacco. 

Non solo fumo, non solo scienza

Nonostante le vittorie legali e le regolamentazioni sempre più stringenti in molte parti del mondo, l’industria del tabacco continua a essere un settore potente e influente, che non abbandona il proprio metodo. Alcune delle stesse tattiche utilizzate a partire dagli anni Cinquanta vengono riproposte ancora oggi, con campagne di disinformazione che mirano a minimizzare i rischi di nuovi prodotti come le sigarette elettroniche.

A fine 2023, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha lanciato la campagna “Stop alle bugie” per denunciare e contrastare le falsità che le aziende produttrici continuano a diffondere. «L’industria del tabacco continua a mentire al pubblico, utilizzando diversi modi per diffondere disinformazione, anche attraverso: gruppi di facciata e organizzazioni terze, influencer sui social media, eventi sponsorizzati, finanziamento di scienziati e ricerche di parte, sostegno ad iniziative di responsabilità sociale d’impresa», si legge nel comunicato, che evidenzia «gli incessanti sforzi dell’industria del tabacco per commercializzare i suoi prodotti ai gruppi vulnerabili, in particolare i giovani».

La Tobacco Strategy, oltre a essere una strategia per offuscare la verità utilizzata ancora oggi, ha anche l’ulteriore cattiva prerogativa di costituire un modello. È conosciuta infatti anche con il più generico nome di Disinformation playbook, ovvero “Manuale di disinformazione”. Più che un vero libro, però, si tratta di una serie di tecniche utilizzate da industrie o grandi gruppi di interesse per scoraggiare la ricerca scientifica che può disturbare i loro affari e inibire l’azione politica – magari necessaria a salvare vite umane – pur di non rinunciare ai propri guadagni. 

Oltre che per le sigarette elettroniche, queste tecniche che tentano di minare il consenso scientifico consolidato vengono utilizzate oggi per screditare e sminuire la ricerca sul cambiamento climatico. Nel libro “Merchants of Doubt” – che in italiano sarebbe “Mercanti del dubbio”, anche se non è stato edito in Italia –, gli storici della scienza Naomi Oreskes e Erik Conway spiegano come le stesse tattiche sono state utilizzate per la questione delle piogge acide, il DDT o il buco nell’ozono. Ma la stessa cosa si può dire dell’alcol, con parecchi studi che ne hanno sottostimato i danni ed esagerato i benefici

Non si è mai trattato, comunque, solo di inquinare il dibattito scientifico. Un altro obiettivo sempre cruciale è impattare in maniera più diretta l’opinione pubblica: tra le tattiche dell’industria del tabacco, c’era anche l’acquisto di spazi pubblicitari sui giornali e la pressione sui media affinché ridimensionassero le notizie sui pericoli del fumo. Addirittura, le pubblicità mostravano dottori consigliare le sigarette, mentre altre associavano il fumo a un fisico atletico  e il non fumare all’obesità, retorica ancora oggi alla base di falsi miti e disinformazione sul tema. 

Una pubblicità di sigarette del 1930. Fonte: Rare Historical Photos

Ma non potevano bastare nemmeno le notizie, serviva creare un bisogno, di appellarsi a uno status, di aggrapparsi a un messaggio per intercettare il pubblico che vi si identifica oppure di sfruttare la presa sulle emozioni che hanno alcune istanze sociali. In breve, di soddisfare esigenze che esulano dal piano strettamente materiale, di vendere idee. 

Istanze sociali e propaganda commerciale

«Se non hai un Iphone, non hai un Iphone» diceva una pubblicità di successo di diversi anni fa della Apple, una delle più grandi aziende al mondo. La réclame non faceva leva sulle caratteristiche tecniche o sulle prestazioni dell’apparecchio, ma si appellava piuttosto allo status che da esso derivava. Oltre alla presentazione di servizi specifici offerti, il messaggio che si voleva far passare, cioè, non era tanto che scegliendo la marca si acquistava un prodotto di qualità, quanto che si entrava in un mondo a parte, quasi un circolo esclusivo. Anche oggi, possedere un IPhone (complice il prezzo non proprio popolare) è uno degli status symbol della ricchezza. La celebre mela di Steve Jobs d’altronde è entrata nell’immaginario collettivo, come prescrivono teorizzazioni risalenti a ben prima che l’Apple iniziasse le sue ammirate campagne di marketing.

Le tattiche descritte fin qui, e dei loro princìpi, venivano studiate già dagli inizi del Novecento. Molte di loro sono enunciate, ad esempio, in un libro pubblicato nel 1928: si tratta di Propaganda di Edward Louis Bernays. Bernays è stato un pubblicitario, propagandista e spin doctor – una figura professionale che si occupa di organizzare campagne politiche – di grande fama. Oltre a essere il nipote di Sigmund Freud, padre della psicoanalisi, Bernays divenne famoso per essere stato reclutato tra gli esperti del Commitee on Public Information, un comitato creato dal governo degli Stati Uniti per spostare l’opinione pubblica a favore dell’interventismo nella Prima guerra mondiale e per le molte campagne di propaganda successive, compresa una che rovesciò il presidente eletto in Guatemala. Viene oggi considerato uno dei padri fondatori delle pubbliche relazioni, a cui vengono attribuite espressioni come “fabbrica del consenso” e “mente collettiva”.


«La manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini e delle opinioni organizzate delle masse è un elemento importante della società democratica», si legge nel saggio, da molti ritenuto profetico e attuale ancora oggi. In particolare, Bernays aveva compreso la grande interconnessione di politica, economia e società, e proponeva di servirsene a fini di propaganda: sfruttando le figure dei leader e la presa sui cittadini di importanti questioni sociali. «L’azienda ha capito che il suo rapporto con il pubblico non si limita alla fabbricazione e vendita di un dato prodotto, ma comprende al tempo stesso la vendita di se stessa e di tutte le cose che rappresenta agli occhi della gente, la propria immagine», si legge ancora nel testo. Ed è quello che cercano di fare molte aziende oggi. Alcune in maniera legittima, altre con tecniche ingannevoli, come il greenwashing o il pinkwashing (ambientalismo e femminismo di facciata), sfruttando i sentimenti di un dato pubblico su temi come il surriscaldamento globale o la questione di genere per accreditarsi come alleati in queste lotte e, di conseguenza, vendere i propri prodotti. 

Bernays è stato un maestro di questa tecnica. Per Lucky Strike, nel 1929, organizzò una campagna pubblicitaria passata alla storia. “Torches of freedom” l’aveva battezzata: in poche parole, rendere le sigarette uno dei simboli di emancipazione femminile è stata una sua idea. In pratica, organizzò un’azione pubblica durante una parata a New York, ingaggiò un gruppo di giovani donne influenti (tra cui la sua segretaria) affinché fumassero sigarette durante l’evento, rappresentando così il fumo come un atto di ribellione contro le norme sociali patriarcali. Lo slogan era appunto “Torches of freedom”, ovvero Fiaccole di libertà. La stampa, invitata ad assistere, coprì l’evento con entusiasmo, amplificando il messaggio. Risultato: la Lucky Strike raddoppiò le vendite e la retorica è stata riproposta nel tempo, anche ai giorni nostri. Per esempio, secondo la Fondation Jean-Jaurès, un think-thank legato al partito socialista francese, ci sono le stesse tecniche retoriche che richiamano l’anticonformismo e l’emancipazione femminile anche dietro il recente successo dei SUV, nonostante queste macchine siano costose e socialmente ingiuste, impattanti a livello climatico e più mortali di vetture di altro tipo in caso di incidente.

Durante la campagna che rovesciò il presidente guatemalteco Arbens, invece, Bernays si impegnò a dipingerlo come un pericolo per la democrazia e l’economia, convincendo gli Stati Uniti ad appoggiare il golpe,  che tornò utile alla United Fruit (azienda sua cliente, manco a dirlo) che con il presidente socialista temeva di veder crollare i propri utili, prospettando le politiche più favorevoli ai lavoratori nell’agenda del presidente socialista. 

L’importante quindi, diceva il propagandista, non è solo soddisfare bisogni, ma anche crearne di nuovi. E, a tal fine, «non esiste un mezzo di comunicazione umana che non possa divenire un mezzo di propaganda». In definitiva, Bernays intuì che l’influenza della cultura pop, che includeva celebrità, eventi pubblici e movimenti sociali, poteva essere uno strumento straordinariamente potente per promuovere prodotti e idee, sfruttando l’emulazione di figure notorie per creare nuova domanda di beni e servizi.

Cinema e pop culture

I mezzi culturali sono un grande veicolo di propaganda, che in genere aspira a entrare nella cultura di massa. Le aziende spesso sponsorizzano eventi sportivi o pagano le celebrità per promuovere i loro prodotti, perché l’associazione con figure ammirate o con l’immaginario del successo può indurre i consumatori a voler imitare quegli stessi modelli. Un esempio contemporaneo sono le sponsorizzazioni di bevande alcoliche o di auto di lusso nei principali eventi sportivi, dove i marchi cercano di legare il loro prodotto a concetti di vittoria, prestanza fisica o esclusività. Ci sono stati casi di pubblicità che consigliavano di bere birra, presentandola come un alimento salutare: «non ingrassa» e dà «sprint e mente lucida», assicurava uno spot pubblicitario degli anni Ottanta con Renzo Arbore, ma non mancherebbero altri esempi.

Il cinema gioca un ruolo altrettanto cruciale. Basti pensare a come i prodotti compaiono nei film: spesso non sono semplici oggetti di scena ma conseguenza del product placement (o pubblicità indiretta), cioè articoli inseriti strategicamente nelle pellicole per diventare parte dell’immaginario del pubblico. Oggetti come gli occhiali Ray-Ban e le auto Aston Martin sono diventati famosi grazie alla loro costante apparizione in film di grande successo come quelli della saga di James Bond. Non è il prodotto in sé a essere venduto, ma l’associazione con l’idea di stile, avventura e lusso.

Non è un caso lo stretto rapporto tra sigarette e grandi film di successo (o video musicali), con il tabacco presente in decine di scene iconiche, cosa che ancora oggi contribuisce a far passare  il messaggio che “fumare è figo”. Così come non è un caso che le aziende più influenti siano molto attente alla rappresentazione dei propri prodotti nelle pellicole. Ad esempio, Apple stipula accordi perché i suoi prodotti possano figurare nei film, purché non finiscano nelle mani dei cattivi o altri personaggi caratterizzati in maniera negativa.

I social media

E se è vero che tra gli imperativi del buon pubblicitario c’è lo sfruttare tutti i canali di comunicazione, Internet e i social media non possono fare eccezione. Anzi, gli algoritmi hanno aggiunto complessità e personalizzazione, fino a creare una nuova figura tra le più raccontate del nostro tempo: gli influencer.

Gli influencer, letteralmente “coloro che influenzano”, a metà tra moderni opinion leader e consiglieri per gli acquisti, incarnano perfettamente la filosofia di Bernays, secondo cui l’influenza di pochi leader chiave può portare al controllo dell’opinione pubblica. Definizione simile a quella data da Gianroberto Casaleggio, co-fondatore del Movimento 5 Stelle, che della rete Internet ha fatto il primordiale strumento su cui è stata fondata la comunità che poi ha portato i Cinquestelle a essere una delle maggiori forze politiche del Paese. Secondo il politico, gli influencer rappresentavano il «10% di utenti consapevoli che forma le opinioni del restante 90%», capaci di influenzare in maniera significativa le abitudini di consumo, più della pubblicità diretta: «se pensiamo ai prodotti di elettronica, il 60% degli acquisti online viene orientato dagli influencer. Se il prodotto di elettronica viene osteggiato dall’influencer, non viene venduto online».

Attraverso la propria immagine e il legame con i follower, gli influencer diventano veicoli di fiducia per i brand, capaci di legittimare prodotti e servizi e di renderli desiderabili a un livello profondamente personale, spesso omettendo il fatto che per consigliare un determinato prodotto vengono pagati dall’azienda produttrice. Grazie alla combinazione tra autenticità percepita e uso di piattaforme come Instagram, TikTok e YouTube, che lavorano su algoritmi di profilazione avanzati, le campagne pubblicitarie non solo raggiungono il target ideale, ma vengono modellate in base ai gusti e alle emozioni di ciascun utente, creando un senso di familiarità. 

Le piattaforme hanno così permesso alla propaganda commerciale di raggiungere una nuova fase: non più una comunicazione verticale, ma un’esperienza quasi intima tra l’utente e il prodotto. Un esempio sono le collaborazioni tra brand e influencer per lanciare linee di moda, make-up o gadget tecnologici. Questi prodotti, presentati come consigli personali da persone di fiducia, entrano nella vita quotidiana dei follower. E proprio come accadeva con i grandi schermi del cinema o le colonne di giornali, i social media oggi sono l’arena in cui va in scena l’arte della persuasione: un’arte che continua a evolversi, ma che ha mantenuto, e anzi rafforzato, i suoi strumenti psicologici per influenzare il pubblico, anche se spesso si rivelano ingannevoli.

Questo rapporto diretto e la ripetizione intensa, che gli algoritmi potenziano attraverso suggerimenti personalizzati e notifiche, creano un ciclo di esposizione costante che rafforza il messaggio pubblicitario. In questo modo, però, la distinzione tra informazione autentica e messaggi promozionali si assottiglia, rendendo difficile distinguere tra contenuto genuino e pubblicità. È come se la propaganda stessa fosse diventata parte integrante della nostra esperienza digitale e della stessa informazione, che si mescola e confonde con pubblicità e disinformazione nel flusso senza fine di contenuti messi insieme dagli algoritmi.

In questo disordine di messaggi propagandistici, notizie false e pubblicità spacciati per informazione disinteressata, l’unica bussola per le persone rimane l’informazione verificata e indipendente. Ma neanche i media sono esenti da colpe, come vedremo nella prossima puntata.

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