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Che cosa sappiamo della cura col plasma (e la bufala dei decessi «azzerati» a Mantova)

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5 maggio 2020
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Lunedì 4 maggio la redazione di Facta ha ricevuto numerose segnalazioni via WhatsApp che chiedevano di verificare la notizia, circolata sull’app di messaggistica istantanea, secondo cui presso l’ospedale di Mantova i morti per Covid-19 si sarebbero «azzerati da quasi un mese» grazie al trattamento con plasma iperimmune. Quest’ultimo è una componente del sangue ricca di anticorpi che è possibile prelevare da alcune persone guarite dall’infezione e che potrebbe contribuire a migliorare le risposte immunitarie contro la malattia.

Il messaggio diffuso su WhatsApp inizia con «Ti dò una buona notizia, certa, che è arrivata ufficialmente dall’ospedale di Mantova i morti per Covid-19 sono azzerati da quasi un mese. E viviamo in Lombardia, epicentro dell’epidemia. Ripeto AZZERATI», è molto lungo e prosegue spiegando che non si tratta di un miracolo ma dei risultati di un test condotto su pazienti di Covid-19 «quasi dati per spacciati» con il plasma iperimmune, che viene definito una «cura a costo quasi zero».

Si tratta di una serie di notizie non corrette o imprecise, espresse in modo potenzialmente fuorviante sulle quali, data la delicatezza del tema, ci sembra opportuno fare chiarezza e contestualizzare. Andiamo con ordine.

Mantova: vittime Covid e trattamento al plasma

Cominciamo, così come fa il messaggio preso in esame, dal numero dei morti. Nell’elenco delle comunicazioni riportate nella pagina dell’Azienda Socio Sanitaria Territoriale di Mantova (Asst Mantova), la rete di cui l’ospedale di Mantova fa parte, non esiste alcuna notizia ufficiale che dichiari che il numero di decessi tra i pazienti Covid-19 nell’ultimo mese sia zero.

Dunque, quanto riportato nel messaggio diventato virale su WhatsApp circa l’azzeramento delle vittime presso l’ospedale di Mantova è falso e privo di fondamento. La redazione di Facta ha contattato l’ufficio stampa dell’ospedale “Carlo Poma” di Mantova per conoscere il numero effettivo dei pazienti Covid deceduti nel corso dell’ultimo mese nella struttura (che, ci anticipano, non è zero) ed è in attesa di una risposta ufficiale.

Passiamo ora alla sperimentazione con il plasma: le “buone notizie” connesse al tema pubblicate nelle ultime settimane sul portale della Asst Mantova essenzialmente due.

La prima è una comunicazione del 21 aprile 2020 dal titolo «Covid, donna gravida guarita col plasma» che rende nota la storia di una paziente di 28 anni, incinta, che ha registrato un netto miglioramento da una forma molto grave dell’infezione in seguito al trattamento, si legge, con «plasma convalescente ricco di anticorpi, prelevato da pazienti guariti dal coronavirus» nell’ambito di un protocollo siglato con il Policlinico San Matteo di Pavia.

La seconda, pubblicata in data 29 aprile con titolo «Plasma iperimmune, conclusa la sperimentazione» riporta il termine di tale protocollo sull’utilizzo del plasma convalescente nei pazienti critici iniziato, si legge, a partire da marzo. «Attualmente – spiega la nota – è in corso l’analisi dei dati raccolti dagli specialisti nell’ambito del progetto e la successiva pubblicazione» e, continua, «a breve partiranno nuove sperimentazioni multicentriche, alle quali Asst di Mantova intende aderire per potere continuare a utilizzare questa importante terapia antivirale contro il coronavirus». Anche qui, nessun riferimento al numero di pazienti deceduti presso l’ospedale citato.

Che cosa sappiamo e che cosa dicono gli esperti 

Quello che sappiamo per certo dunque, è che sì, all’ospedale di Mantova, in collaborazione col policlinico San Matteo di Pavia, si è da poco conclusa una sperimentazione su 49 pazienti gravi (25 quelli ricoverati alla struttura di Mantova) colpiti da Covid-19.

Durante la sperimentazione, iniziata il 17 marzo – questo e altri dettagli si trovano nel database che raccoglie tutti i trial clinici in corso nel mondo – è stato somministrato il plasma (cioè la porzione di sangue dove si trovano gli anticorpi) di persone risultate guarite dalla malattia Covid-19 e che avevano sviluppato un adeguato livello di anticorpi contro Sars-CoV-2, il virus responsabile dell’infezione. Questo nell’ipotesi che gli anticorpi sviluppati dal paziente che si è ripreso dalla malattia possano rafforzare il sistema immunitario di nuovi pazienti.

In merito all’esito, «i risultati visti nei casi singoli sono stati sorprendenti» ha dichiarato il 28 aprile Massimo Franchini, responsabile del reparto di Immunoematologia e Medicina trasfusionale dell’ospedale Poma, coinvolto in prima persona nello studio, all’agenzia di stampa AdnKronos Salute. «Ora con i colleghi di Pavia stiamo riesaminando tutti i casi, valutando la risposta clinica e strumentale, per trarre delle conclusioni generali su questa che è una terapia specifica contro Covid-19». Per poi precisare, però, che «occorre un’analisi completa su tutti i pazienti prima di trarre le conclusioni».

In tale occasione Franchini aveva anche spiegato i criteri per la selezione dei donatori, «un lavoro certosino» che di fatto riduce al 30 per cento del totale, stando alle parole dell’ematologo, i potenziali candidati: le persone idonee a donare il plasma devono, per intenderci, essere guarite (cioè riportare tampone negativo) da almeno due settimane, non essere affette da altre malattie e, inoltre, aver sviluppato un determinato grado di anticorpi. La necessaria presenza di tutte queste caratteristiche riduce quindi la platea dei potenziali donatori.

La sera del 3 maggio, intervistato nel corso della trasmissione televisiva Che Tempo Che Fa (Rai2), anche Fausto Baldanti, dirigente medico, responsabile del Laboratorio di Virologia Molecolare del policlinico di Pavia e coinvolto nello studio, ha sostenuto che la sperimentazione ha fornito risultati «veramente incoraggianti» e in un tempo molto breve ma precisando che sarà possibile fornire dati quando saranno consolidati e ci sarà una statistica.

In quell’occasione il medico ha spiegato anche che quello della somministrazione di plasma è un approccio che non rappresenta una vera e propria novità nel campo della medicina: si tratta di una strategia già in parte studiata nel caso dell’Ebola e della influenza H1N1, per esempio, e anche nella Covid-19, ma in quest’ultimo caso, finora, solo in Cina, su pochissimi pazienti e con risultati alterni.

Il medico ha anche sottolineato che non staremmo comunque parlando di una soluzione definitiva del problema Covid, bensì di una terapia di emergenza: la soluzione saranno i vaccini, i farmaci specifici per la malattia, la possibilità di costruire anticorpi ingegnerizzati, senza che ci sia bisogno, insomma, di prelevare di volta in volta materiale biologico da pazienti guariti.

I toni da parte degli addetti ai lavori non nascondono, né nelle comunicazioni né durante le dichiarazioni alla stampa e alla tv, un grande entusiasmo. Tuttavia, in assenza (a oggi, 5 maggio 2020, n.d.r.) di ulteriori dettagli sull’esito della sperimentazione, che potremo visionare solo se e quando i dati saranno resi disponibili a mezzo di pubblicazioni scientifiche, riferirsi a queste informazioni come notizie «certe», o parlare addirittura di una «cura» già disponibile per il coronavirus – come si legge nel messaggio WhatsApp – è, di fatto, fuorviante.

Non abbiamo motivo di mettere in discussione le dichiarazioni degli esperti citati, ma anche nel caso i risultati della sperimentazione confermassero l’efficacia di questo tipo di approccio, è opportuno tenerne presente la complessità e i limiti.

Se è vero che lo sviluppo degli anticorpi nell’organismo durante una patologia è un processo a costo zero dal punto di vista economico, non vale lo stesso per la selezione dei potenziali candidati e le procedure per l’isolamento di queste sostanze per poter trattare nuovi pazienti. Il protocollo del trial di Mantova e Pavia, per esempio, prevede il prelievo di 500-600 millilitri di plasma di un donatore maschio, maggiorenne, sano dal punto di vista delle altre malattie trasmissibili e, ovviamente, guarito da Covid-19.

Il materiale biologico (si veda alla voce Detailed Description della pagina ufficiale del trial) viene testato per escludere la presenza di altri virus, come epatite A, epatite E, ma non solo, e analizzato per quanto riguarda il titolo di anticorpi sviluppati. Solo a questo punto il plasma con gli anticorpi viene inoculato in un paziente come potenziale trattamento terapeutico.

Per ogni nuovo donatore, il processo deve per forza essere replicato daccapo. «Lo svantaggio principale – è la virtuale impossibilità, non insormontabile, di standardizzare vista la variabilità da donatore a donatore» commentava a tale proposito il 3 maggio sul sito Medical Facts il virologo Guido Silvestri, professore presso la Emory University di Atlanta, non coinvolto in prima persona nelle ricerche in questione. Insomma, per quanto gli anticorpi prodotti dal corpo umano siano un prodotto naturale, non possiamo certo dire che l’intera pratica per consentire il loro impiego sia priva di ostacoli, o abbia un costo «quasi zero», come recita il messaggio.

Sul tema del trattamento con il plasma, non bisogna poi dimenticare che si tratta di un argomento di dibattito all’interno della stessa comunità scientifica: «i dati di letteratura sono al momento molto scarsi, quasi aneddotici» ha commentato per esempio, il 4 maggio, il professor Pierluigi Viale, direttore del Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche dell’Università di Bologna e componente dell’Unità di crisi Covid-19 per la regione Emilia Romagna, regione che su questo fronte ha optato per una linea prudenziale scegliendo di non adottare al momento questa terapia sui pazienti delle proprie strutture sanitarie. Non sappiamo ancora se gli anticorpi dei pazienti guariti siano protettivi e per quanto perdurino, sostiene Viale, e apparirebbe azzardato somministrare passivamente anticorpi ad un paziente, specie in una fase dove è possibile utilizzare risorse alternative, finché non sono noti tutti i rischi associati a questo trattamento nel caso del Covid-19. «L’utilizzo routinario del plasma in pazienti affetti da nuovo coronavirus dovrebbe avere una rigorosa fase sperimentale ed un più lungo follow-up prima di essere considerato una terapia di riferimento», conclude il professore.

In conclusione

Negli ultimi giorni è diventato virale un messaggio su WhatsApp in cui si parla di un azzeramento dei decessi di pazienti Covid presso l’ospedale di Mantova «da quasi un mese» e del successo di una cura con il plasma iperimmune.

L’informazione circa l’azzeramento dei decessi nell’ospedale della provincia lombarda è priva di fondamento. Non ne si trova traccia né sul sito dell’Asst Mantova e non è stata confermata dall’ospedale contattato dalla redazione di Facta.

L’idea di trattare i pazienti di Covid-19 presso l’ospedale di Mantova con il plasma di persone che hanno superato la malattia, per rafforzarne le difese immunitarie, è reale e l’ospedale ha portato avanti nelle ultime settimane, in collaborazione con il policlinico di Pavia, una sperimentazione per valutare l’efficacia del metodo. Alcuni ricercatori coinvolti in prima persona nel trial hanno riportato ai media dei risultati positivi.

Il potenziale terapeutico di questo approccio nei confronti delle infezioni virali esiste, ed è stato studiato in passato in alcuni pazienti di Ebola, o di Sars, ma nel caso del virus Sars-CoV-2 all’origine dell’attuale pandemia non sono ancora stati presentati dati consistenti né sono a oggi disponibili pubblicazioni scientifiche su questa specifica sperimentazione. Finché questi dati non saranno condivisi con la comunità scientifica, non è possibile quindi riferirsi a questa opzione come a una cura già disponibile, come nel messaggio divenuto virale su WhatsApp.

Inoltre, anche se i risultati dovessero presto arrivare, e fossero molto promettenti, non si tratterebbe di una soluzione definitiva al Covid-19, bensì di una strategia da impiegare in alcuni selezionati casi, in condizioni di emergenza e con dinamiche complesse. Non si tratta, insomma, della “cura” contro il nuovo coronavirus ma di uno dei tanti percorsi in fase di studio.

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