Lunedì 14 ottobre, a Milano, si è tenuta la cerimonia organizzata dal China Media Group per festeggiare i vent’anni di partenariato strategico tra Italia e Cina. L’evento si è svolto nel Salone d’Onore della Triennale, dove la ministra del Turismo Daniela Santanchè ha tenuto il discorso di apertura della manifestazione. Assieme alla ministra erano presenti la vicepresidente di China Media Group Xing Bo, il console generale cinese a Milano Liu Kan e molti grandi nomi del mondo dei media italiano, tra cui il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri.
China Media Group è l’azienda di Stato che controlla il settore delle comunicazione televisiva e radiofonica nella Repubblica Popolare Cinese; e come spiega un articolo de Il Foglio, si tratta di una delle principali agenzie di propaganda del governo cinese all’estero, sotto controllo diretto del dipartimento centrale di Propaganda. Il China Media Group è nato nel 2018 dalla fusione della China Central Television, della China National Radio e della China Radio International. Quello stesso anno il governo cinese ha nominato Shen Haixiong presidente del gruppo, tuttora in carica.
La missione del China Media Group all’estero è quella di promuovere una visione positiva, e spesso edulcorata, della Cina e del governo di Xi Jinping. Il colosso di Stato cinese persegue questo obiettivo firmando accordi con le televisioni e i giornali dei Paesi occidentali: l’evento alla Triennale di Milano serviva, tra le altre cose, proprio a celebrare le collaborazioni siglate con i grandi media italiani.
Il secondo livello della propaganda cinese
Tuttavia, il China Media Group rappresenta solo il volto “visibile” dell’informazione cinese. La Cina infatti non si limita a collaborazioni internazionali con le proprie aziende di Stato, ma è anche impegnata nello sviluppo di massicce campagne di propaganda e disinformazione online. Una di queste, forse la più famosa, è l’operazione Dragonbridge, attiva su diverse piattaforme digitali, comprese YouTube, Facebook e X.
Il nome “Dragonbridge” è stato scelto dagli analisti di Mandiant, una nota società di cyber security di Google Cloud. Mandiant ha individuato le attività di questo network cinese nel 2019, assegnandogli un nome come parte della pratica di dare etichette identificative alle minacce digitali. “Dragon” si riferisce chiaramente al simbolismo cinese del dragone, mentre “bridge” indica la connessione che la campagna cerca di creare tra la Cina e le comunità internazionali.
L’obiettivo di Dragonbridge è infatti quello di diffondere contenuti che promuovono gli interessi politici cinesi e screditano i Paesi rivali, soprattutto gli Stati Uniti e i loro alleati. Per farlo, il network messo in piedi dal governo cinese utilizza profili falsi, bot e deepfake per manipolare l’informazione online. Ad esempio, è noto che gli account Google associati a Dragonbridge sono ottenuti da rivenditori di account all’ingrosso, che creano e vendono account social a scopo di lucro. Molti dei contenuti di Dragonbridge sono infatti progettati per sembrare provenienti da account autentici in varie parti del mondo, ma in realtà dietro di loro non c’è un utente reale. Ma quand’è che il governo di Pechino ha utilizzato Dragonbridge per i suoi scopi?
Gli obiettivi di Dragonbridge
Uno dei bersagli prediletti di Dragonbridge, fin dalla sua nascita, è stato Taiwan. Quando nell’aprile 2022 fu annunciata una possibile visita di Nancy Pelosi a Taipei a luglio, Dragonbridge ha cominciato a diffondere narrazioni critiche nei confronti di Pelosi e della sua famiglia. Più tardi, in agosto, con le esercitazioni militari dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) intorno a Taiwan, Dragonbridge ha intensificato la sua retorica con contenuti che includevano riferimenti al PLA, oltre a video che invitavano il presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, e i suoi alleati a “sottomettersi”.
Alcuni analisti sostengono che lo scopo di quell’incursione di Dragonbridge fosse influenzare negativamente la percezione del rapporto tra Taiwan e Stati Uniti e scoraggiare il sostegno all’indipendenza della regione asiatica.
Ma Taiwan non è l’unico obiettivo. Dragonbridge ha diffuso contenuti che mettono in dubbio le politiche interne degli Stati Uniti, con post mirati a evidenziare divisioni e presunte inefficienze. Durante il ciclo elettorale del 2022 e in preparazione a quello del 2024, l’operazione ha sfruttato temi divisivi e socialmente sensibili, come le disuguaglianze razziali e il controllo delle armi. In altri casi, Dragonbridge ha anche utilizzato profili falsi per insultare e inviare minacce di morte a cittadini americani; soprattutto a utenti che avevano condiviso post critici verso il governo di Beijing.
Perché la disinformazione cinese non funziona
Ma nonostante lo sforzo enorme in termini di finanziamenti e infrastrutture, sembra che le operazioni cinesi di disinformazione non siano molto efficaci. Secondo il direttore generale del Threat Analysis Center di Microsoft, Clint Watts, le campagne di disinformazione cinese del 2024 hanno più o meno lo stesso livello di sofisticazione di quelle fatte dalla Russia dieci anni prima. Sono antiquate e farraginose; e molto spesso non raggiungono i risultati sperati.
Un altro centro di monitoraggio, quello di Google, lo scorso giugno ha pubblicato un report di follow-up su Dragonbridge che conferma il giudizio di Watts. Nel 2023, Google è riuscita a interrompere oltre 65 mila casi di attività di Dragonbridge su YouTube e Blogger, mentre solo nel primo trimestre del 2024, Google ne ha interrotti altre 10mila. Se cumulati con quelli degli scorsi anni, arriviamo a oltre 175 mila casi bloccati da Google sin dalla nascita di Dragonbridge nel 2019.
Il team del centro di analisi di Google afferma che i contenuti di Dragonbridge sono spesso di bassa qualità, e che nonostante la loro continua produzione e l’ampiezza delle operazioni, non riescano a ottenere interazione organica. In sostanza, significa che non vengono condivisi o commentati da utenti reali, ma solo da altri utenti falsi dell’infrastruttura di Dragonbridge.
Nel 2023, tra più di 57 mila canali YouTube disattivati da Google, l’80 per cento non aveva alcun iscritto. Tra gli oltre 900mila video sospesi, più del 65 per cento aveva meno di 100 visualizzazioni e il 30 per cento addirittura nessuna visualizzazione.