
Le gravi conseguenze delle politiche di Trump sulla ricerca statunitense
Le maggiori università statunitensi stanno subendo forti tagli e pressioni dalla nuova amministrazione
«I college hanno ricevuto per decenni soldi dei contribuenti, e questa cosa deve finire». Sono le parole pronunciate dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump in un video pubblicato poco dopo la vittoria alle elezioni presidenziali, che hanno di fatto aperto uno scontro mai visto prima tra l’amministrazione statunitense e l’élite accademica, da sempre pilastro dell’attrattività statunitense per i cittadini di ogni angolo del globo.
Nell’ultimo mese grandi università americane, come Columbia e Johns Hopkins, hanno subìto tagli consistenti ai fondi governativi per la ricerca, mettendo in pericolo sia i progetti già finanziati, sia gli stipendi dei ricercatori che vi lavorano, spesso professionisti stranieri arrivati negli Stati Uniti proprio per questo motivo.
È così che si è generata una situazione di stallo permanente in tutto il mondo accademico: anche le università che non hanno subìto tagli diretti da Washington hanno paura ad assumere nuovo personale, in quanto non possono essere certe che potranno portare a termine i progetti, e stanno riducendo il numero di borse di dottorato che garantiscono per evitare di attrarre studenti internazionali e lasciarli senza fondi.
La crociata contro le università
Oltre ai tagli lineari, poi, le università stanno venendo attaccate anche nel merito: l’amministrazione Trump ha fatto circolare un vademecum di “parole proibite”, che non devono essere presenti nei progetti di ricerca, pena la loro cancellazione. Tra queste rientra qualsiasi riferimento all’etnia e al genere, una decisione che è parte dell’ampio attacco della presidenza contro le politiche di diversità e inclusione, ma anche espressioni e parole come «crisi climatica» e «ingiustizia»
Un tentativo di demolire intere aree di ricerca, da parte di un presidente che ha dichiarato nel suo discorso d’insediamento che avrebbe «riportato il free speech in America», a suo dire messo in pericolo dai democratici. Secondo lo storico Robert Proctor, stiamo entrando in una «età dell’oro dell’ignoranza», un periodo di lotta contro i fatti e le realtà assodate come il cambiamento climatico e l’ingiustizia sociale.
Durante il mese di marzo, sono state organizzate varie dimostrazioni di protesta nelle città americane per contrastare i tagli alla scienza, un settore che ha sempre contribuito positivamente all’economia statunitense. Secondo i dati riportati da Forbes, infatti, nell’anno accademico 2022/2023 un milione di studenti internazionali, accusati dalla Casa Bianca di togliere il posto a ricercatori americani, hanno generato un indotto di ben 40 miliardi di dollari. Non c’è da stupirsi, perché da quasi un secolo gli Stati Uniti cercano di essere leader nell’attrattività accademica: con la Seconda guerra mondiale, infatti, il Paese ha iniziato a investire in modo massiccio nella ricerca scientifica, prima finanziata soltanto da benefattori privati. Dopo la fine del conflitto, e una vittoria arrivata anche grazie alle scoperte scientifiche, gli Stati Uniti decisero di proseguire nel solco tracciato, aumentando i centri di ricerca d’élite e spendendo sempre più soldi nel tentativo di portare su suolo americano gli scienziati più promettenti, sistema che ha prosperato fino a oggi.
L’offensiva contro il sistema accademico da parte di questa amministrazione viene da lontano. Trump ha sempre detestato la ricerca, definito il mondo accademico come elitario e progressista e in questo ha supporto da parte del suo elettorato, galvanizzato dall’attacco a un sistema che percepisce come radicale e lontano dai valori conservatori.
I primi tagli, di ben 400 milioni di dollari, sono stati inferti all’Università Columbia, rea, secondo l’amministrazione Trump, di essere stata troppo indulgente con le proteste a favore della Palestina avvenute durante lo scorso anno accademico, che hanno portato per alcuni giorni all’occupazione del campus. Sono seguiti 800 milioni tagliati alla Johns Hopkins, per fondi legati all’agenzia federale USAid, che si occupa di progetti di sviluppo ed è stata ridotta al lumicino dall’amministrazione, e 175 milioni all’Università della Pennsylvania, perché ha permesso a Lia Thomas, donna transgender, di gareggiare in competizioni sportive femminili: una decisione arrivata oggi per un fatto avvenuto tre anni fa.
Nel frattempo, altre sessanta università sono sotto investigazione per presunto antisemitismo e quarantacinque per partecipare a piani di diversity di qualsiasi tipo, spesso utilizzati dalle università per arricchire la ricerca e poter adottare un approccio scientifico il più diversificato possibile: oggi invece, il solo contenere in un progetto di ricerca le parole “attivismo” o “uguaglianza di opportunità”, mette a rischio l’allocazione dei fondi.
Il clima che si respira all’interno delle istituzioni accademiche è di ansia e incertezza, con le università che iniziano a censurarsi autonomamente e a bloccare assunzioni nella speranza di non vedersi tagliati fondi già allocati: la cosiddetta “obbedienza anticipatoria” a decisioni dispotiche del governo, di cui ha parlato estesamente lo storico Timothy Snyder nel suo libro “On Tyranny”.
I tagli alla ricerca medica
A subire conseguenze devastanti non è stato solo il settore delle scienze sociali, con progetti legati alla riconsiderazione dei rapporti di etnia e genere negli Stati Uniti da sempre osteggiati dal mondo repubblicano, ma anche la ricerca medica: dei 400 milioni di dollari tagliati alla Columbia, 250 erano stati stanziati dal National Institutes of Health (NIH), un’agenzia federale responsabile dell’allocazione dei fondi per la ricerca biomedica. Chi lavorava a questi progetti ha ricevuto una mail che li informava della fine del loro studio per motivazioni di antisemitismo; a rischio cancellazione, come rileva Nature, sono anche progetti che vedono nel team ragazzi e ragazze ebree. Judd Walson, professore a Johns Hopkins, ha detto al Financial Times che ci troviamo di fronte a un collasso della ricerca sanitaria che potrebbe avere impatti generazionali. Sono stati infatti tagliati progetti di studio sulle fibrosi uterine, sul trattamento del cancro, dell’Alzheimer e del diabete.
In un altro caso, sono stati tagliati i fondi, che erano garantiti fino al 2026, a una ragazza che studiava i parassiti intestinali in India e Benin: aveva ricevuto i soldi grazie a un piano di diversity che aveva considerato il fatto che fosse la prima laureata della sua famiglia e una donna all’interno di un settore scientifico, genere da sempre sottorappresentato.
Eliminare la possibilità di assumere nelle università attraverso questi piani rischia di portare, in ultima analisi, a un’atrofizzazione del mondo universitario, alla fine della mobilità sociale e dell’attrattività statunitense e alla distruzione della ricerca indipendente. Non è un caso, infatti, che l’Europa si sia già mossa nel tentativo di accogliere i ricercatori definiti non grati dagli Stati Uniti, con Francia e Regno Unito in testa. L’università di Aix-Marseille si è dichiarata un «safe space per la scienza» e ha attuato un programma da 15 milioni di euro nell’arco di tre anni per portare quindici ricercatori americani di vari settori accademici a lavorare lì.
Molti sino-americani, poi, cominciano a vedere con interesse la possibilità di andare a fare ricerca in Cina, data l’insicurezza del futuro accademico negli Stati Uniti. Questo è un problema per la qualità della ricerca, che migliora attraendo cervelli da ogni angolo del globo, ma anche per i bilanci delle università stesse, che vedono nelle immatricolazioni dall’estero, più costose, una voce importante.
Ciò che stupisce è che l’amministrazione Trump sta smantellando un settore economicamente florido per gli Stati Uniti solamente per il disprezzo che nutre nei confronti della scienza, ritenuta espressione del mondo liberal. È paradossale il caso dello studio della tecnologia a mRNA, fondamentale per la moderna ricerca vaccinale e finanziata anche dalla precedente amministrazione Trump. È stato cancellato un progetto di ricerca della Columbia riguardante questa tipologia di vaccini e il NIH (National Institutes of Health) ha richiesto ai ricercatori di eliminare qualsiasi riferimento dai progetti.
La base dell’offensiva contro questo tipo di ricerca è data da una postura contraria alla scienza del nuovo governo, che ha posto a capo del dicastero della Salute l’antivaccinista e complottista Robert Kennedy, che già nel 2021 aveva fatto una petizione perché venisse bandita la somministrazione di vaccini a mRNA.
Questa posizione contraria alla scienza non genera solo problemi a ricercatori e accademici, ma alla comunità nel suo insieme: il clima da caccia alle streghe generatosi durante la campagna vaccinale per la pandemia di Covid-19, che ha visto una polarizzazione crescente sulla possibilità o meno di vaccinarsi, ha sensibilmente minato la fiducia di molti cittadini americani nello strumento. L’epidemia di morbillo ora in corso negli Stati Uniti, che ha già ucciso due persone, entrambe non vaccinate, si è causata per una mancanza di immunizzazione dovuta alla paura nell’inoculazione di un vaccino sicuro da decenni, nonostante Kennedy abbia incolpato la cattiva alimentazione.
La stessa libertà scientifica delle università sta venendo riconsiderata: non solo tagli e blocco di fondi già allocati, ma la volontà di arrivare a un controllo a monte del tipo di ricerca condotta nel Paese. È in corso di discussione al Senato del Texas, Stato controllato dai repubblicani, una legge che istituirebbe un ufficio per controllare le università; il direttore sarebbe scelto con nomina diretta dal governatore e avrebbe il compito di investigare sulle violazioni. La motivazione principale per difendere questa legge è stata che le università non starebbero ottemperando i divieti di assumere secondo politiche di diversità, equità e inclusione, mantenendo team selezionati attraverso la diversificazione della forza lavoro. Si tratta del primo tentativo aperto di centralizzare la ricerca, eliminando i poteri delle facoltà, ponendole direttamente in capo alla politica.
Ricercatori, professori e studenti sono scesi in piazza, in una serie di manifestazioni chiamate “Stand Up for Science”, per protestare contro i tagli alla ricerca, la fine delle politiche di diversità e inclusione, la riconsiderazione delle borse di studio per gli studenti internazionali. Quello che manca a queste proteste, però, è la speranza che qualcosa possa cambiare: Jackie Agnew, ragazza che ha partecipato a una delle manifestazioni, ha detto al New York Times che il clima delle manifestazioni è triste, perché manca del tutto la speranza che possano avere un impatto sulle politiche adottate dall’amministrazione.
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