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Il coronavirus si sta davvero “indebolendo”?

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14 maggio 2020
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Negli ultimi giorni in Italia sta circolando molto sui social, e non solo, la presunta notizia secondo cui il nuovo coronavirus (Sars-CoV-2) starebbe diventando sempre più debole.

«Lockdown e 14 mutazioni, il virus si sta indebolendo», titolava per esempio il 7 maggio Il Messaggero, oppure: «Quella faida tra scienziati sul virus: è indebolito ma è vietato dirlo», sosteneva l’11 maggio Il Giornale.

Un’ipotesi del genere è stata, tra gli altri, sostenuta di recente anche da due presidenti di regione.

Il 12 maggio il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti (del movimento politico Cambiamo!) ha scritto su Facebook che «il coronavirus sta perdendo intensità», commentando in un video il calo del contagio nella sua regione, senza esplicitare se effettivamente, secondo lui, il virus stia diventando più debole di prima.

Due giorni prima, il presidente della Regione Veneto Luca Zaia (Lega) si era spinto parecchio più in là: durante una conferenza stampa aveva detto che se il virus «perde forza vuol dire che è artificiale», supportando una teoria – quella del coronavirus creato in laboratorio – ad oggi priva di evidenze scientifiche.

Ci sono invece prove per dire che il Sars-CoV-2 sta “perdendo forza”? Che cosa dicono gli scienziati? Abbiamo cercato di fare un po’ di chiarezza sulla questione, spiegando innanzitutto come cambiano i virus e perché.

Un breve ripasso sui virus “mutanti”

«Non dobbiamo preoccuparci se un virus muta durante l’epidemia di una malattia»: è questo il titolo di un intervento pubblicato il 18 febbraio 2020 dalla rivista scientifica Nature Microbiology e scritto da due ricercatori della Yale School of Public Health (Stati Uniti) e da uno dell’Università di Sydney (Australia).

Da dove viene questo invito contro l’allarmismo? Come spiegano gli autori, spesso la parola “mutazione” genera nel dibattito pubblico rimandi a qualcosa di strano, negativo e imprevedibile. Magari a causa di alcuni prodotti culturali, come libri e film, dove le mutazioni genetiche di solito non portano nulla di buono.

«Nella realtà, le mutazioni sono una parte naturale del ciclo di vita di un virus e raramente impattano in modo drammatico su un’epidemia», sottolinea l’intervento su Nature Microbiology.

I virus Rna – come lo è il Sars-CoV-2, che causa la malattia Covid-19 – utilizzano un meccanismo di replicazione che per sua natura produce molti errori, causando l’accumulo di una serie di mutazioni, ossia cambiamenti, nel suo codice genetico.

Da un lato, il ritmo di replicazione – e lo sviluppo di nuove mutazioni – avviene nel giro di poche ore, anche all’interno dello stesso paziente contagiato, portando alla nascita di numerose “versioni” dello stesso virus.

Dall’altro lato, però, le caratteristiche rilevanti da un punto di vista epidemiologico – come le modalità di trasmissione o la virulenza, ossia l’aggressività del virus – sono controllate da più geni. Questo significa che è «inusuale», scrivono i ricercatori su Nature Microbiology, scoprire durante un’epidemia che si stanno sviluppando nell’arco di poco tempo versioni di un virus mutato in maniera significativa, con importanti conseguenze sul piano epidemiologico.

In generale, insomma, i virus come il Sars-CoV-2 si replicano tantissime volte, accumulando errori e differenze nel codice genetico.

E non c’è nulla di segreto in questo processo.

Perché bisogna tenere d’occhio le mutazioni

Basta andare sul portale Nexstrain (oppure su Virological o su Gisaid) per scoprire nel dettaglio come si sta ramificando il nuovo coronavirus nelle diverse aree del pianeta. Nella sola Europa, al 14 maggio 2020 si contano 4.491 genomi sequenziati di Sars-CoV-2 dall’inizio dell’epidemia.

Questo non significa però che stiamo parlando di virus “diversi”: il virus in questione resta comunque il Sars-CoV-2.

È vero però che quando un virus muta, accumulando errori di replicazione e mostrando nuove caratteristiche significative da un punto di vista epidemiologico (siano esse più negative o positive per gli esseri umani), può dare vita a un nuovo ceppo virale.

È quello che è successo con il Sars-CoV-2 (o annualmente quello che succede con i virus influenzali): un nuovo ceppo della famiglia dei coronavirus, che fino a pochi mesi fa non era mai stato identificato dagli scienziati.

Ad oggi, come ha spiegato il 6 maggio in un approfondimento su The Atlantic il giornalista scientifico Ed Yong, che ha parlato con diversi scienziati esperti nel settore, non ci sono però evidenze scientifiche per sostenere che il Sars-CoV-2 sia mutato in qualche parte del mondo in maniera significativa, dando vita a forme più deboli o più forti.

Per esempio, di recente si è molto parlato di uno studio in fase “pre-print” (non ancora soggetto quindi al controllo della comunità scientifica), pubblicato a fine aprile dal Los Alamos National Laboratory (Stati Uniti). Questa ricerca contiene un’ipotesi – ancora tutta da dimostrare – secondo cui si sarebbe diffusa di più in Europa una versione del coronavirus più contagiosa, poi diffusasi negli Stati Uniti.

Ma come ammettono gli autori stessi, non è ancora possibile stabilire se questa maggiore diffusione sia dovuta a un’effettiva maggiore contagiosità di una forma del virus, oppure come risultato di un processo dovuto al caso.

Ricapitolando: il nuovo coronavirus si replica di giorno in giorno, accumulando mutazioni. Questo però non significa che al momento ci siano evidenze scientifiche sull’esistenza di forme più aggressive o più deboli.

Perché allora in Italia circola l’ipotesi che in effetti il nuovo coronavirus si stia indebolendo?

Come si è diffusa in Italia la teoria del virus “indebolito”

Il 10 maggio, quando il presidente della Regione Veneto Luca Zaia ha detto che se il virus «perde forza vuol dire che è artificiale», stava rispondendo a una domanda di un giornalista, che aveva chiesto a Zaia che cosa ne pensasse della «teoria portata avanti» da Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri” di Milano, secondo cui «il virus sta perdendo forza durante le mutazioni di questi mesi».

In realtà, Remuzzi ha sostenuto una tesi diversa, meno netta. Il 6 maggio, in un’intervista con Il Foglio, Remuzzi ha detto: «Non so se è il virus a essere mutato o se a essere cambiata è la carica virale di ogni paziente, ma posso dire che sembra essere di fronte a una malattia molto diversa da quella che ha messo in crisi le nostre strutture all’inizio dell’epidemia».

Dunque Remuzzi riporta un’evidenza, per così dire, aneddotica, basata sulla sua esperienza di tipo clinico degli ultimi giorni – ossia che i pazienti Covid-19 mostrino sintomi meno gravi di prima – e non su evidenze scientifiche, relative a qualche mutazione del virus a livello genomico.

Un’altra testimonianza in questa direzione è, per esempio, arrivata il 13 maggio anche da Alberto Zangrillo, direttore dell’Anestesia e rianimazione dell’Ospedale San Raffaele di Milano, in un’intervista a Quotidiano.net.

Come abbiamo visto, un’ipotesi che ha avanzato Remuzzi sul numero di ricoveri meno gravi riguarda la possibile esistenza di una minore carica virale nei pazienti, ossia della quantità di virus nel sangue, che più è bassa e meno favorisce la proliferazione del virus e l’infezione (con una riduzione delle conseguenze gravi).

Il 7 maggio, ospite a Piazza Pulita su La7, Remuzzi ha di nuovo confermato l’ipotesi che oggi i pazienti sono meno gravi di prima, dicendo di aver parlato con diversi medici in Italia, ma manifestando anche cautela sulle cause del fenomeno. «Il perché non lo so: su questo non ho veramente la minima idea», ha detto (min. 01:10) il direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri” di Milano, suggerendo la possibilità che magari si sia creata una qualche forma di immunità in «una parte della popolazione» o che «la sappiamo curare meglio a casa».

Il 13 maggio, in un’intervista con Il Messaggero, Remuzzi ha poi ribadito che, sul calo del numero di pazienti da Covid-19 con sintomi gravi, «le cause sono diverse, ma non so esattamente perché. Di certo, posso dire che oggi è cambiato il rapporto tra ambiente, ospite e virus».

Negli scorsi giorni, anche l’epidemiologo dell’Università Campus Bio-medico di Roma Massimo Ciccozzi ha sottolineato che il coronavirus sembra perdere di intensità, ma invitando alla cautela sull’esprimersi con certezza sia sui fatti che sulle cause.

«Quelle che si stanno facendo nei modelli elaborati da vari gruppi di ricercatori in questi giorni sono tutte ipotesi, perché mancano le prove di patogenicità in laboratorio su cellule e virus», ha precisato Ciccozzi ad Ansa il 7 maggio scorso. Il calo della circolazione del Sars-CoV-2 sarebbe causato «principalmente per effetto del lockdown, del distanziamento sociale e dell’uso dei dispositivi di protezione», ma potrebbe essere anche per effetto delle mutazioni, «ma lo ripeto – ha sottolineato Ciccozzi – anche questa è un’ipotesi che va dimostrata».

Casi meno gravi non vuol dire virus “indebolito”

Sulla mancanza di evidenze scientifiche che mostrino l’esistenza di un virus mutato e più debole, si sono espressi anche due scienziati dei due istituti italiani più importanti per quanto riguarda le malattie infettive: l’Ospedale Luigi Sacco di Milano e l’Istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma.

L’8 maggio il direttore del Sacco Massimo Galli, ospite ad Agorà su Rai3, ha parlato infatti di un’«apparente attenuazione» del Sars-Cov-2, «che viene tra l’altro dall’osservazione puntuale di persone di cui ho assoluta stima».

«Credo che noi si stia osservando, dal punto di vista clinico la coda di un’epidemia, che ha visto le persone più fragili e meno in grado di difendersi presentare le forme più gravi in tempi precedenti a questo», ha detto Galli. «Attualmente abbiamo nei nostri ospedali persone che dal punto di vista delle percentuali si sono spostate verso forme meno gravi rispetto a quelle a cui siamo stati abituati all’inizio. Ma questo non vuol dire che si sia attenuato il virus».

Come abbiamo visto in precedenza, servono le prove in laboratorio.

«Per dire che il virus ha cambiato passo, bisogna anche avere qualche evidenza molecolare, cioè che è mutato in qualche modo in maniera significativa, e non escludo che possa essere così, ma questa è un’evidenza che per il momento non abbiamo: andiamo a interpretazioni», ha spiegato Galli, difendendo l’efficacia del lockdown.

Il 9 maggio il responsabile del laboratorio di microbiologia dello Spallanzani Antonino Di Caro ha invece commentato in un’intervista al Corriere della Sera le mutazioni finora registrate per il Sars-CoV-2, di cui abbiamo parlato in precedenza.

«I virus italiani si dividono in due gruppi caratterizzati da minime variazioni non associabili a differenze di malattia», ha detto Di Caro, confermando per il momento l’assenza di evidenze scientifiche sulla presenza di mutazioni significative a livello epidemiologico.

Di Caro ha inoltre messo in dubbio l’evidenza aneddotica secondo cui negli ospedali starebbero arrivando pazienti meno gravi.

«A me non risulta che sia così analizzando i dati della Protezione Civile», ha commentato il responsabile del laboratorio di microbiologia dello Spallanzani. «La percentuale dei pazienti trattati a domicilio e di quelli in ospedale è costante nel tempo. Non mi sentirei di affermare che c’è minore aggressività. Il virus si è attenuato nella circolazione solo perché è stato condizionato dalle misure di contenimento».

In realtà le statistiche mostrano un cambiamento nelle percentuali (non automaticamente imputabile a mutazioni del virus).

Secondo i dati della Protezione civile, il 3 aprile – giorno di picco per numero di posti letto (4.068) in terapia intensiva occupati (p. 16) da pazienti Covid-19 – in Italia c’erano 85.388 attualmente positivi al coronavirus: circa il 62 per cento di questi era in isolamento domiciliare, mentre circa il 34 per cento era ricoverato con sintomi (il restante 4 per cento era in intensiva).

Il 13 maggio si sono registrati invece 78.457 attualmente positivi, con oltre l’83 per cento in isolamento domiciliare.

Ricapitolando: in apparenza, i numeri dell’epidemia e le evidenze raccolte negli ospedali da alcuni scienziati sembrano suggerire che i pazienti con Covid-19 mostrano negli ultimi giorni sintomi meno gravi rispetto a quelli evidenziati durante il picco dell’epidemia.

In attesa di studi epidemiologici che confermino questa ipotesi, non c’è ancora certezza sulle possibili cause del fenomeno, ma al momento gli scienziati italiani – e non solo – escludono la possibilità che il virus sia mutato in una forma più debole.

L’apparente minore aggressività sarebbe dovuta soprattutto agli effetti del lockdown e alle restrizioni messe in campo per ridurre la diffusione del contagio.

Un’altra ipotesi è che con un sistema ospedaliero meno sovraccaricato, sia aumentata la capacità di rilevare contagiati con sintomi più lievi, mentre nel pieno dell’epidemia molte regioni – come la Lombardia – riuscivano a testare solo pazienti con sintomi molto gravi.

In conclusione

Negli ultimi giorni è circolata molto la notizia secondo cui il coronavirus in Italia si starebbe indebolendo, probabilmente a causa di una qualche mutazione.

A livello teorico questo è possibile: i virus come il Sars-CoV-2 mutano in continuazione, nell’arco di poche ore, dando vita a migliaia di rami nel suo albero genomico, ma non c’è nulla di segreto in questo, o di allarmante.

In natura funziona così ed è solo quando si accumulano mutazioni significative da un punto di vista epidemiologico (un virus che cambia modalità di trasmissione, per esempio, o che diventa più o meno resistente ai trattamenti) che si può parlare propriamente di un “nuovo” virus.

Ad oggi, a livello italiano e mondiale, queste evidenze genomiche non ci sono: il coronavirus Sars-CoV-2, nell sostanza, è sempre lo stesso, al netto di migliaia di piccole mutazioni.

È vero però che secondo alcuni scienziati, nel nostro Paese si starebbero registrando casi più lievi di contagio da Covid-19. Al momento questa resta un’evidenza aneddotica, basata sull’esperienza di singoli medici, e seppure plausibile – viste le misure di restrizione messe in campo – non poggia sul fatto che il virus sia mutato, diventando più “buono”.

Ad oggi, evidenze di mutazioni significative di questo tipo non ci sono.

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