In un video pubblicato mercoledì 25 marzo 2020 sulla pagina Facebook di uno studio medico di Firenze, il titolare Massimo Orlandini[1] chiede la «massima condivisione» per l’ipotesi di un presunto legame tra l’assunzione di vitamina D e la cura delle complicanze dovute a Covid-19, in particolare le polmoniti riscontrate nelle forme più gravi della malattia.
Il video conta oggi (1 aprile, ore 12.00) oltre 31.000 condivisioni, più di 784.000 visualizzazioni e, davanti a commenti in cui i lettori affermano di assumere fiduciosi integratori contenenti questa vitamina o che esprimono fiducia cieca in questo approccio, ci sembra opportuno fare chiarezza.
Che cosa mostra il video
L’inquadratura del video, ambientato in una stanza che sembrerebbe essere uno studio, è il primo piano di Massimo Orlandini, che indossa un camice aperto e ha una mascherina appesa a un orecchio.
Premettiamo che Orlandini – lo dichiara la pagina Facebook dello studio – si occupa di «medicina funzionale omeopatica, manipolazioni vertebrali, ossigeno-ozono terapia, bio-mesoterapia, educazione alimentare, rieducazione posturale globale, psicoterapia funzionale».
Sulla sua pagina personale sul sitodottori.it (portale che si occupa di prenotazioni online di visite mediche, che abbiamo consultato non trovando un sito web dello studio medico), è riportata la lista in ordine alfabetico delle patologie trattate da Orlandini, dalla A di aerofagia alla V di verruche, passando per decine e decine di altre. Non è però evidente una competenza specifica nel campo della virologia e delle malattie infettive.
Non è noto insomma alcun coinvolgimento di Orlandini nel trattamento o nella ricerca ufficiale di cure per il Covid-19. Ma che cosa sostiene Orlandini nel video?
Che cosa si afferma nel video
Il cuore del discorso è l’interazione – sostiene Orlandini al minuto 01:25 – tra la vitamina D e la produzione dell’interleuchina 6, che il medico definisce come la sostanza alla base delle complicanze della malattia da nuovo coronavirus. Somministrare vitamina D ai pazienti per far calare i livelli di interleuchina 6 nell’organismo sarebbe, secondo Orlandini, una strategia da valutare per il trattamento della malattia. Al momento non ci sono però, come vedremo tra poco, sul tema conferme scientifiche di alcun tipo.
Orlandini supporta la propria proposta allegando al video un elenco di link a studi scientifici tratti da PubMed, database di riferimento per la ricerca biomedica. Inserendovi le parole chiave “vitamina D” e “interleuchina 6”, spiega Orlandini al minuto 08:30, uscirebbero dal motore di ricerca moltissimi riscontri, oltre 1.100. A dire il vero, una ricerca con gli stessi termini di ricerca effettuata da Facta – in inglese, ovviamente, come presuppone il motore di ricerca in questione – ha dato molti meno risultati (678): ci chiediamo quindi se forse non ci siano delle imprecisioni a monte sul metodo impiegato nella raccolta delle fonti bibliografiche.
I lavori ripresi sarebbero, secondo Orlandini, una serie di dimostrazioni di efficacia della vitamina D in campo medico (sull’Hiv, sulla tubercolosi, ma anche in caso di diabete, di artrite reumatoide, di colon irritabile) che potrebbero tranquillamente essere estese al coronavirus. Ma è davvero tutto così semplice?
Che cosa c’è di vero (e di falso)
L’interleuchina 6 è uno dei tanti mediatori dei processi di difesa contro le malattie del nostro corpo: in particolare, una molecola infiammatoria che il sistema immunitario produce nel corso dell’infezione virale, così come anche nel corso di malattie autoimmuni come per esempio l’artrite reumatoide.
Nella caccia alla cura della malattia da nuovo coronavirus, l’interleuchina 6 potrebbe sì costituire, come riportato in uno studio recente di alcuni ricercatori cinesi, un possibile bersaglio farmacologico per contenere le complicanze cliniche più gravi delle infezioni da nuovo coronavirus, quelle appunto legate a un’infiammazione molto forte a carico del tessuto polmonare.
Questo però non è un mistero, tanto che nel nostro Paese è partito anche uno studio clinico su un farmaco diretto contro l’interleuchina 6 per provare a limitare i danni agli alveoli polmonari di Covid-19. In questo caso – il farmaco si chiama Tocilizumab – si usa però uno strumento del tutto diverso rispetto alla vitamina D.
Il Tocilizumab è infatti un anticorpo monoclonale: una molecola altamente ingegnerizzata, sviluppata per essere selettiva verso un preciso bersaglio farmacologico, che gli scienziati si guarderebbero bene dal dover impiegare se fossero disponibili soluzioni più semplici da reperire, come nel caso della vitamina D.
Non ci sono poi, per il momento, dati consistenti a supporto dell’uso di vitamina D come trattamento per la malattia da nuovo coronavirus: non se ne trova traccia nella letteratura scientifica (neppure impiegando lo stesso motore di ricerca impiegato da Orlandini). Gli organi ufficiali non hanno infatti dato finora alcuna raccomandazione sull’uso di questa sostanza per intervenire sul Covid-19 e anzi l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara esplicitamente che a oggi, per la malattia, non esiste ancora una cura.
Proprio in questi giorni, inoltre, vari esperti del settore, hanno preso le distanze rispetto alla presunta efficacia della vitamina D come strumento per modulare le risposte immunitarie che riguardano Covid-19.
Ad esempio, il professor Vincenzo Bronte – ordinario di Immunologia all’Università di Verona, ricercatore Airc e coordinatore di uno studio proprio sugli aspetti immunologici caratteristici di Covid-19 – ha dichiarato il 28 marzo a la Repubblica che «Come mai prima d’ora stiamo assistendo a un moltiplicarsi di teorie sulla possibile utilità di vari farmaci, non solo la vitamina D, con e senza razionale scientifico. Questo grande interesse è certamente importante, ma le regole della comunità scientifica per utilizzare un farmaco restano le stesse, anche in questa circostanza. Prima di dire che una sostanza è utile per le complicanze da Coronavirus bisogna che sia dimostrato in uno studio clinico. Al momento di questi studi non ce ne sono».
Bronte ha infine sottolineato come si conoscano degli «effetti della vitamina D sul sistema immunitario e sappiamo per esempio che ha sicuramente un’azione nella cute, dove viene prodotta» ma, pensando all’immunità gli effetti sono «pochi» e, sempre secondo l’immunologo, «non vi è ad oggi alcuna indicazione per usare questo farmaco come immunomodulante».
Un punto sulle regole della comunità scientifica
Torniamo al video. Orlandini lamenta, al minuto 05:20, la mancata attenzione di organi come il Ministero della Salute, dell’Istituto Superiore di Sanità, di ospedali come il Sacco e personaggi come Ilaria Capua per convincerli a tentare un trial clinico, o comunque provare a curare le persone colpite dal nuovo coronavirus, somministrando vitamina D. Per ottenere questa attenzione si appella esplicitamente, in questa sede, al potere virale del video sul social (dopo una serie di sfortunate email e almeno un tweet).
Né la ricerca clinica né quella scientifica in generale funzionano però così.
Per portare all’attenzione dati e aspetti rilevanti, e soprattutto arrivare a test su persone in carne e ossa – perché di questo si tratta – non è sufficiente che chiunque dotato di un titolo di studio in materia sanitaria faccia una segnalazione informale.
La ricerca scientifica procede attraverso la condivisione e il confronto di dati e indagini che convergono nella letteratura scientifica e, senza bisogno di scomodare alcun complotto, non c’è da stupirsi se le idee di Orlandini non sono state finora prese in considerazione. Sullo stesso PubMed, lo strumento che egli cita a sostegno delle proprie deduzioni, al nome di Massimo Orlandini non corrisponde alcuna pubblicazione scientifica. A oggi, Orlandini non sembra quindi aver portato all’attenzione della comunità scientifica internazionale alcun dato rilevante sul problema. E non solo sulla questione coronavirus, ma a dire il vero nemmeno in merito ad altre patologie.
E comunque no, le vitamine non fanno sempre bene
Al minuto 07:50 del video Orlandini sostiene che «La vitamina D non ha effetti collaterali. Non è assolutamente tossica, qualunque sia il dosaggio che si utilizza. Gli unici dove bisogna prestare attenzione sono i pazienti con insufficienza renale di una certa importanza».
Si tratta di un’affermazione scorretta e potenzialmente pericolosa.
Come riportano l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) e i National Institutes of Health (NIH) statunitensi, la vitamina D, se assunta in quantità eccessive, può portare a diversi effetti collaterali come, ad esempio, problemi ai reni, all’apparato cardiocircolatorio e problemi in gravidanza.
Stesso principio che, oltretutto, vale anche per altri supplementi se assunti in modo sconsiderato e senza alcuna supervisione. Tanto più nel bel mezzo di una situazione di piena allerta sanitaria come quella in corso, dove ricorrere a cure fai da te (come abbiamo scritto qui e qui) è ancora più rischioso.
In conclusione
Il dottor Massimo Orlandini, titolare di uno studio medico fiorentino, lo scorso 25 marzo ha pubblicato su Facebook un video per sollevare l’ipotesi di un utilizzo massiccio di vitamina D per la cura delle complicanze del Covid-19, la malattia legata al nuovo coronavirus.
Orlandini non è l’unico di questi tempi a farsi portavoce di una soluzione semplice (l’assunzione appunto di una vitamina) per un problema enorme come la grave crisi sanitaria che stiamo affrontando. Le sue richieste risultano però al momento superficiali sia nella forma che nei contenuti e prive di una vera e propria validità scientifica.
Fino a prova contraria, resta il parere condiviso finora dalla comunità scientifica: non esistono a oggi dimostrazioni cliniche di efficacia della vitamina D contro il Covid-19, né in merito alla prevenzione né delle complicanze, come la polmonite interstiziale. E anzi, è bene non abusarne per non incorrere in possibili effetti collaterali, né affidarsi a questo tipo di consigli, come argomenta – qui, in merito all’uso della vitamina C – anche la giornalista scientifica e medico Roberta Villa che da tempo si occupa della corretta informazione sul coronavirus. Indicazioni di questo tipo potrebbero portare a dare un senso di falsa rassicurazione, sottovalutando i rischi concreti di questa malattia e abbassando la guardia della popolazione.
No, la pandemia di Covid-19 non è stata prevista nel 1981
Secondo quanto circola su alcuni social media, un romanzo del 1981 proverebbe che la pandemia di Covid-19 è stata pianificata, ma la scienza smentisce questa tesi