C’è stato un tempo in cui la climatologia era solo climatologia. Un’impresa intellettuale la cui molla, come per le altre scienze, era la curiosità, il desiderio di comprendere la natura. Questo tempo è durato abbastanza poco. Sviluppo e prosperità richiedono energia, poco importa da quale fonte. Nel mondo figlio della Rivoluzione Industriale non c’è crescita senza disponibilità di energia, e sarà così anche in futuro.
La climatologia è nata ed è maturata come scienza giusto il tempo di scoprire che l’oggetto del suo studio stava diventando il centro di un grave problema globale, che avrebbe cambiato la storia di tutti. Il negazionismo è una reazione a ciò che questa scienza ha scoperto e alle sue profonde implicazioni per la società. Sebbene le sue motivazioni affondino nella psicologia umana, il suo emergere come fenomeno organizzato è legato ad alcune precise vicende storiche, a una cronologia di eventi, pietre miliari e anni decisivi.
L’infanzia della climatologia
Nel 1938 Guy Stewart Callendar, un ingegnere e meteorologo dilettante, pubblica un articolo intitolato “The artificial production of carbon dioxide and its influence on temperature” (“La produzione artificiale di anidride carbonica e la sua influenza sulla temperatura”). Raccogliendo dati da varie stazioni meteorologiche, Callendar ha scoperto che nei 50 anni precedenti la temperatura media era aumentata di 0.3 gradi centigradi. Suggerisce che gran parte di questo aumento sia dovuto al cambiamento della concentrazione atmosferica di CO2.
Che nell’atmosfera ci siano dei gas che hanno la proprietà di influenzare la temperatura della Terra, lo si era capito nel secolo precedente. Alla fine del XIX secolo il chimico svedese Svante Arrhenius aveva fatto complicati calcoli per stabilire la relazione matematica tra il raddoppio o il dimezzamento della CO2 atmosferica e la variazione della temperatura. Le sue stime erano eccessive, ma tutto sommato non così lontane dall’intervallo di valori che gli scienziati hanno individuato nel corso del XX secolo usando strumenti molto più avanzati di quelli del loro collega, che disponeva solo di carta e penna.
Le basi teoriche della fisica dell’effetto serra non si erano però ancora consolidate. Gli studi di Arrhenius erano accolti con scetticismo. Una parola che viene brandita oggi da chi scettico non è, ma vuole solo rifiutare solide evidenze per interesse ideologico. Allora, invece, di fronte a una teoria ancora in fase di sviluppo e a dati parecchio parziali, lo scetticismo era un atteggiamento scientificamente sensato.
Inoltre le implicazioni di quegli studi non erano affatto chiare, nemmeno per Arrhenius. Per lo scienziato, premio Nobel per la chimica nel 1903, scomparso nel 1927, il riscaldamento della Terra era una possibilità che poteva realizzarsi nei millenni a venire. Non aveva idea della rapidità con cui quella prospettiva si sarebbe concretizzata nel corso del secolo XX, quello in cui i combustibili fossili, come le montagne di carbone che bruciavano incessantemente nelle fornaci, sarebbero diventati il motore dell’energia e dello sviluppo globale.
Inoltre, non sembrava così preoccupante l’idea che la Terra si scaldasse un po’. Si usciva dalla cosiddetta “piccola era glaciale”, un periodo, durato alcuni secoli, caratterizzato da temperature relativamente basse rispetto a quelle di altre epoche storiche. Una fluttuazione climatica di portata ben diversa da quella odierna. La climatologia, come scienza, aveva mosso i primi passi spinta, in particolare, dalla curiosità di capire cosa avesse causato l’alternarsi di periodi glaciali e interglaciali nella lontana preistoria. Un futuro di ghiaccio e gelo appariva ancora uno scenario più temibile del suo opposto (questo scenario noi esseri umani, con i combustibili fossili, lo abbiamo spostato nel futuro di qualche decina di migliaia di anni).
Inoltre, c’era una sorta di modello mentale, un’idea di come funzionasse la Terra che pervadeva la visione anche scientifica dell’epoca. Si pensava che il globo fosse un sistema che si regolasse da sé. L’immagine di questo Grande Equilibrio sembrava sovrastare qualsiasi cosa i piccoli umani potessero fare per influenzarlo.
Molti ne sono convinti ancora oggi e c’è chi alimenta questa concezione per liquidare con sufficienza il riscaldamento globale antropico. Di per sé non è un’idea così sbagliata perché in effetti è tutta questione di scale temporali. Nel lunghissimo periodo, nell’arco di milioni di anni, il ciclo biogeochimico del carbonio regola i flussi e le concentrazioni di questo elemento tra atmosfera, oceani, rocce e suoli. Tra moltissimo tempo, quando l’attuale civiltà umana sarà archeologia, foreste e oceani avranno riassorbito tutto il carbonio che abbiamo aggiunto in atmosfera, dopo che avremo smesso di usare i combustibili fossili.
Ma, nel frattempo, su scale temporali molto più brevi, quelle in cui si svolge la nostra vita e quella delle società umane, la variazione della concentrazione atmosferica di CO2 influenza la temperatura abbastanza da condizionare il clima, e quindi la vita degli abitanti del pianeta. È ciò che abbiamo visto accadere in appena mezzo secolo.
Nel 1938 Callendar è il primo a vedere in atto questa correlazione. Se ne rende conto dai calcoli, fatti su un modello dell’atmosfera rudimentale. E anche lui non ne vede tutte le implicazioni. In fondo un po’ di caldo in più non è un problema.