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L’invenzione del negazionismo climatico

L’emergere della negazione della scienza climatica, come fenomeno organizzato, è legato ad alcune precise vicende storiche

27 dicembre 2024
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C’è stato un tempo in cui la climatologia era solo climatologia. Un’impresa intellettuale la cui molla, come per le altre scienze, era la curiosità, il desiderio di comprendere la natura. Questo tempo è durato abbastanza poco. Sviluppo e prosperità richiedono energia, poco importa da quale fonte. Nel mondo figlio della Rivoluzione Industriale non c’è crescita senza disponibilità di energia, e sarà così anche in futuro.

La climatologia è nata ed è maturata come scienza giusto il tempo di scoprire che l’oggetto del suo studio stava diventando il centro di un grave problema globale, che avrebbe cambiato la storia di tutti. Il negazionismo è una reazione a ciò che questa scienza ha scoperto e alle sue profonde implicazioni per la società. Sebbene le sue motivazioni affondino nella psicologia umana, il suo emergere come fenomeno organizzato è legato ad alcune precise vicende storiche, a una cronologia di eventi, pietre miliari e anni decisivi. 

L’infanzia della climatologia

Nel 1938 Guy Stewart Callendar, un ingegnere e meteorologo dilettante, pubblica un articolo intitolato “The artificial production of carbon dioxide and its influence on temperature” (“La produzione artificiale di anidride carbonica e la sua influenza sulla temperatura”). Raccogliendo dati da varie stazioni meteorologiche, Callendar ha scoperto che nei 50 anni precedenti la temperatura media era aumentata di 0.3 gradi centigradi. Suggerisce che gran parte di questo aumento sia dovuto al cambiamento della concentrazione atmosferica di CO2.

Che nell’atmosfera ci siano dei gas che hanno la proprietà di influenzare la temperatura della Terra, lo si era capito nel secolo precedente. Alla fine del XIX secolo il chimico svedese Svante Arrhenius aveva fatto complicati calcoli per stabilire la relazione matematica tra il raddoppio o il dimezzamento della CO2  atmosferica e la variazione della temperatura.  Le sue stime erano eccessive, ma tutto sommato non così lontane dall’intervallo di valori che gli scienziati hanno individuato nel corso del XX secolo usando strumenti molto più avanzati di quelli del loro collega, che disponeva solo di carta e penna.

Le basi teoriche della fisica dell’effetto serra non si erano però ancora consolidate. Gli studi di Arrhenius erano accolti con scetticismo. Una parola che viene brandita oggi da chi scettico non è, ma vuole solo rifiutare solide evidenze per interesse ideologico. Allora, invece, di fronte a una teoria ancora in fase di sviluppo e a dati parecchio parziali, lo scetticismo era un atteggiamento scientificamente sensato.

Inoltre le implicazioni di quegli studi non erano affatto chiare, nemmeno per Arrhenius. Per lo scienziato, premio Nobel per la chimica nel 1903, scomparso nel 1927, il riscaldamento della Terra era una possibilità che poteva realizzarsi nei millenni a venire. Non aveva idea della rapidità con cui quella prospettiva si sarebbe concretizzata nel corso del secolo XX, quello in cui i combustibili fossili, come le montagne di carbone che bruciavano incessantemente nelle fornaci, sarebbero diventati il motore dell’energia e dello sviluppo globale.

Inoltre, non sembrava così preoccupante l’idea che la Terra si scaldasse un po’. Si usciva dalla cosiddetta “piccola era glaciale”, un periodo, durato alcuni secoli, caratterizzato da temperature relativamente basse rispetto a quelle di altre epoche storiche. Una fluttuazione climatica di portata ben diversa da quella odierna. La climatologia, come scienza, aveva mosso i primi passi spinta, in particolare, dalla curiosità di capire cosa avesse causato l’alternarsi di periodi glaciali e interglaciali nella lontana preistoria. Un futuro di ghiaccio e gelo appariva ancora uno scenario più temibile del suo opposto (questo scenario noi esseri umani, con i combustibili fossili, lo abbiamo spostato nel futuro di qualche decina di migliaia di anni).

Inoltre, c’era una sorta di modello mentale, un’idea di come funzionasse la Terra che pervadeva la visione anche scientifica dell’epoca. Si pensava che il globo fosse un sistema che si regolasse da sé. L’immagine di questo Grande Equilibrio sembrava sovrastare qualsiasi cosa i piccoli umani potessero fare per influenzarlo. 

Molti ne sono convinti ancora oggi e c’è chi alimenta questa concezione per liquidare con sufficienza il riscaldamento globale antropico. Di per sé non è un’idea così sbagliata perché in effetti è tutta questione di scale temporali. Nel lunghissimo periodo, nell’arco di milioni di anni, il ciclo biogeochimico del carbonio regola i flussi e le concentrazioni di questo elemento tra atmosfera, oceani, rocce e suoli. Tra moltissimo tempo, quando l’attuale civiltà umana sarà archeologia, foreste e oceani avranno riassorbito tutto il carbonio che abbiamo aggiunto in atmosfera, dopo che avremo smesso di usare i combustibili fossili. 

Ma, nel frattempo, su scale temporali molto più brevi, quelle in cui si svolge la nostra vita e quella delle società umane, la variazione della concentrazione atmosferica di CO2 influenza la temperatura abbastanza da condizionare il clima, e quindi la vita degli abitanti del pianeta. È ciò che abbiamo visto accadere in appena mezzo secolo.

Nel 1938 Callendar è il primo a vedere in atto questa correlazione. Se ne rende conto dai calcoli, fatti su un modello dell’atmosfera rudimentale. E anche lui non ne vede tutte le implicazioni. In fondo un po’ di caldo in più non è un problema. 

L'articolo di Guy Callendar del 1938

Poi, nel dopoguerra, la climatologia accelera. Lo sviluppo dell’informatica e dei calcolatori fa fare un balzo in avanti alla scienza dell’atmosfera e del clima tra gli anni ‘50 e ‘60.

Nel 1958 il chimico Charles David Keeling avvia il programma di misurazione della concentrazione atmosferica di CO2 all’Osservatorio di Mauna Loa, nelle Isole Hawaii. La curva che porta il suo nome è una delle immagini simbolo della scienza ambientale, testimoniando la progressiva crescita della CO2. Tra gli anni ‘60 e ‘70 la ricerca di Keeling contribuisce a dimostrare che i combustibili fossili stanno davvero cambiando la chimica dell’atmosfera terrestre.

Il «vasto esperimento geofisico» comincia a delinearsi. L’espressione viene usata da un gruppo di scienziati in un documento scritto nel 1965 e indirizzato al presidente degli Stati Uniti, il democratico Lyndon Johnson. Questi esperti sono stati incaricati di redigere un rapporto sui problemi ambientali e una parte è dedicata alla CO2 atmosferica. In un passaggio scrivono che entro il 2000 sarebbe potuta essere «sufficiente a produrre cambiamenti misurabili, e forse marcati, del clima». La prospettiva temporale, dall’epoca di Arrhenius, si è decisamente accorciata. La questione non appartiene più a un ipotetico e remoto futuro.

Nel 1970, sotto l’amministrazione repubblicana di Richard Nixon, viene istituita la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), una sorta di NASA dell’atmosfera e degli oceani. Diverrà una delle principali istituzioni scientifiche nell’ambito della modellistica climatica e delle scienze atmosferiche. Nixon è anche il presidente che crea, nello stesso anno, la Environmental Protection Agency (EPA), l’agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti. La nascita di questo nuovo ente è funzionale alla realizzazione di un ambizioso programma di azioni per la tutela dell’ambiente. Il 1970 dev’essere un anno particolarmente propizio, perché ad aprile si tiene anche la prima Giornata della Terra.

La preoccupazione per l’ambiente si fa largo nella coscienza collettiva. Anche le scienze che si occupano del tema sembrano godere di un’attenzione trasversale, che supera gli steccati che dividono progressisti e conservatori.

Dal decennio successivo le cose iniziano a cambiare.

L’anno della «prova incontrovertibile»

«Per più di un secolo siamo stati consapevoli che i cambiamenti nella composizione dell’atmosfera avrebbero potuto influenzare la sua capacità di intrappolare l’energia del sole. Ora abbiamo prove incontrovertibili che l’atmosfera sta effettivamente cambiando e che noi stessi contribuiamo a tale cambiamento. Le concentrazioni atmosferiche di anidride carbonica sono in costante aumento e questi cambiamenti sono collegati all’uso di combustibili fossili da parte dell’uomo e allo sfruttamento del territorio».

Sembra una sentenza e a suo modo lo è. Le parole sono scritte nella prefazione di un rapporto intitolato “Carbon Dioxide and Climate: A Scientific Assessment” (“Anidride carbonica e clima: una valutazione scientifica”), commissionato nel 1979 dalla National Academy of Science americana su richiesta della Casa Bianca, il cui inquilino era il democratico Jimmy Carter. A redigerlo, una commissione di scienziati guidata dal meteorologo Jule Charney.

È l’anno in cui si tira una riga. Quello in cui, pur con l’incertezza e le cautele scientifiche, si stabilisce che c’è una «prova incontrovertibile» dell’esistenza di un importante mutamento planetario in atto e che gli umani ne sono responsabili. Non solo. Questi scienziati sottolineano anche che la vita umana sulla Terra prospera grazie a un clima stabile. «La distribuzione dei regimi climatici sul globo ha profondamente plasmato l’evoluzione dell’uomo e della sua società».

Se cambia il clima, in più per cause direttamente riconducibili agli esseri umani, questo fatto ha conseguenze pratiche che vanno ben oltre l’interesse puramente scientifico per la questione. Conseguenze che richiedono azioni.

Il rapporto Charney, come viene ricordato oggi, è una pietra miliare nella storia del cambiamento climatico. Il 1979 è l’anno in cui la climatologia smette definitivamente di essere solo climatologia. Continuerà a esserlo nella sua opera di ricerca, sempre più approfondita, su tutti gli aspetti del clima, dei suoi meccanismi e della sua storia. La scienza procede lungo il suo percorso, perché gli esseri umani non hanno smesso di interessarsene per la sola curiosità di capire come funziona la natura. Ma la «prova incontrovertibile» di un cambiamento climatico globale di origini antropiche è una cosa troppo grossa per non coinvolgere il resto della società, quello che sta fuori dalle mura accademiche.

Anche perché, nel frattempo, non sta cambiando solo il clima naturale, ma anche quello politico. C’è una vicenda che lo manifesta in modo emblematico. In quello stesso 1979 il presidente Carter fa installare 32 pannelli solari sul tetto della West Wing della Casa Bianca. È una reazione alla crisi petrolifera innescata dalla rivoluzione islamica in Iran e il preludio di una possibile svolta nella politica energetica. Gli anni ‘70 sono un decennio di turbolenze energetiche, legate a vari eventi geopolitici nel Medio Oriente. Ma c’è anche la sensazione che, con il nuovo millennio alle porte, un futuro alimentato da fonti alternative a quelle fossili sia alla portata. In effetti, nei decenni successivi, l’energia solare diventerà sempre più competitiva.

Jimmy Carter parla alla cerimonia di inaugurazione dei pannelli solari sulla Casa Bianca, 20 giugno 1979

Pochi anni dopo, nel 1986, il nuovo presidente Ronald Reagan fa togliere quei pannelli solari durante lavori di riparazione del tetto. Torneranno solo nel 2013, quando alla Casa Bianca c’è il democratico Barack Obama. Durante L’amministrazione Reagan vengono rivisti gli incentivi fiscali per l’energia solare. Salito al potere nel 1981, il presidente repubblicano è il portabandiera di una rivoluzione politica che ha idee molto chiare su ciò che il governo deve o non deve fare. Un’alleanza tra “libertari” e conservatori di varie tinte ha preso vita e promette di cambiare le cose negli Stati Uniti.

Reagan non è un negazionista, perché il cambiamento climatico non è ancora un tema politicamente così caldo. Ma è in corso un mutamento culturale che cambierà l’anima del Partito Repubblicano, cancellando ciò che di verde c’era al suo interno. Lo sfacciato negazionismo di Donald Trump sarà la conclusione di questa parabola.

Nascita di un fenomeno organizzato

Nel 1988 il climatologo James Hansen, direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA, parla davanti a una commissione del Senato degli Stati Uniti, alla quale spiega le evidenze scientifiche sul riscaldamento globale. È un altro allarme, l’ennesimo di una serie. L’evento genera una grande attenzione mediatica. Nel 1988 il clima inizia a entrare davvero nell’agenda globale. 

È  l’anno in cui, su iniziativa dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale, inaugura l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), l’organismo che realizza valutazioni della ricerca scientifica sul cambiamento climatico. I suoi rapporti, firmati dai maggiori esperti e sottoscritti dai governi (e snobbati dalla gran parte dei politici), costituiscono un punto di riferimento per chi vuole conoscere lo stato dell’arte della ricerca sul cambiamento climatico.

Nel 1992, durante il Summit della Terra di Rio de Janeiro, viene approvata la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Il suo obiettivo: «la stabilizzazione delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera a un livello tale da evitare il pericolo di interferenze antropiche con il sistema climatico».

Tutto ciò avviene in un periodo di enormi sconvolgimenti politici. Tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90 l’Unione Sovietica collassa (l’evento, da solo, causa una piccola diminuzione delle emissioni globali di CO2 visibile nei grafici). La fine della Guerra Fredda spinge certi ambienti politici a sostituire il comunismo con l’ambientalismo come summa di ogni male, oppure a identificare l’uno nell’altro.

Effetto della dissoluzione dell'Unione Sovietica e di altri eventi globali sulle emissioni di CO2 (fonte: Global Carbon Project)

Questi sono gli anni in cui il negazionismo climatico diventa un fenomeno organizzato e combattivo, che penetra nella discussione pubblica con una selva di gruppi e “centri studi” sostenuti da chi ha un interesse economico, non solo ideologico, ad impedire che si faccia qualsiasi cosa per disturbare l’industria dei combustibili fossili. Un settore nel quale ci sono compagnie che, come dimostreranno studi e inchieste giornalistiche, avevano una consapevolezza perfino scientifica del cambiamento climatico, e del ruolo dei loro prodotti nel causarlo, almeno fin dalla fine degli anni ‘70.

Il negazionismo climatico si avvale della consulenza di personaggi già coinvolti in campagne per seminare “dubbi” riguardo ad altri temi scientifici, come le malattie causate dal tabacco, le piogge acide e il buco dell’ozono. Seguiranno lo stesso copione. Le tesi negazioniste, che circolano ancora oggi anche in Italia, sono più o meno sempre le stesse di allora. La scienza progredisce. Chi ne cerca una “alternativa” non lo fa, perché il suo scopo non è conquistare nuove conoscenze.

Il resto è storia recente e attuale. Dagli anni ‘90 fino a oggi il cambiamento climatico viene risucchiato, insieme a una pletora di altre questioni, nel gorgo fangoso delle cosiddette “guerre culturali”. Polemiche ideologiche che puntano ad appiccicare su certi discorsi il marchio di un’ideologia nemica.

Così la preoccupazione per il clima, un atteggiamento razionale e ben piantato nella scienza, diventa l’espressione di una mentalità sinistroide, estremista, bizzarra. A tutto ciò si unisce il complottismo, che vede macchinazioni ovunque tranne che nei tentativi di far deragliare le politiche climatiche.

È in questo torbido che i fatti e la scienza si inabissano e scompaiono. E questa è una storia che non si è ancora conclusa.

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