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L’inefficacia delle misure anti-Covid non è scientificamente dimostrata

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24 febbraio 2021
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Tra il 15 e il 22 febbraio 2021 la redazione di Facta ha ricevuto più volte la richiesta di verificare alcuni articoli (uno di Repubblica, pubblicato il 15 febbraio 2021, e uno del portale Blogsicilia.it, pubblicato il 16 febbraio 2021) secondo cui uno studio della Stanford University (California) avrebbe dimostrato che il lockdown non serve a controllare la pandemia di Covid-19 e sarebbe meglio usare un approccio simile a quello della Svezia.

Lo studio esiste, ma la sua validità scientifica è in discussione e i risultati sono in contrasto con studi di migliore qualità. Vediamo di che cosa si tratta.

Gli articoli a noi segnalati si riferiscono a uno studio pubblicato il 5 gennaio 2021 dalla rivista accademica European Journal of Clinical Investigation e intitolato «Valutazione degli effetti dell’obbligo di stare a casa e delle chiusure delle attività economiche sulla diffusione della Covid-19». Gli autori sono quattro ricercatori affiliati al Dipartimento di Medicina e a quello di Salute Pubblica dell’Università di Stanford, in California (Stati Uniti). Due di questi durante la pandemia sono saliti alla ribalta per le loro posizioni in contrasto con la comunità scientifica: Jay Bhattacharya è uno degli ideatori della Great Barrington Declaration, un manifesto pseudoscientifico secondo cui basterebbe isolare gli anziani e per il resto lasciar correre il virus tra i più giovani, sviluppando così l’immunità di gregge (avevamo discusso proposte analoghe fatte in Italia in questo articolo). John P.A. Ioannidis è stato invece al centro di polemiche nella comunità scientifica per aver cercato di minimizzare la mortalità da Covid-19 e per la sua forte opposizione ai lockdown.

Veniamo allo studio in questione. In breve, gli autori analizzano l’andamento della pandemia durante la prima ondata, tra marzo e aprile 2020, in dieci Paesi: otto che hanno implementato almeno in alcune regioni misure assai restrittive come l’obbligo di stare a casa e la chiusura delle attività economiche (Regno Unito, Francia, Germania, Iran, Italia, Olanda, Spagna e Stati Uniti), contro due che invece si sarebbero limitati a misure meno restrittive (Corea del Sud e Svezia). Gli autori cercano poi, con un modello matematico, di districare il contributo delle varie misure prese per contrastare la pandemia in ciascun Paese, come la chiusura delle scuole, il blocco degli spostamenti interni, lo smart working, l’obbligo di restare a casa, eccetera. In questo modo gli autori tentano di separare l’effetto sulla pandemia delle misure più restrittive da quelle meno restrittive,  confrontando Corea del Sud e Svezia con gli altri otto Stati. Il risultato è che tali misure restrittive non avrebbero significativamente contribuito alla diminuzione dei contagi, o addirittura avrebbero potuto aumentarli. È importante notare che per lo studio «misure più restrittive» si riferisce solo all’obbligo di stare a casa e di fermare alcune attività economiche, non si riferisce ad esempio al divieto di assembramenti o alla chiusura delle scuole, e quindi molte misure che fanno parte di un lockdown sono incluse nelle misure «meno restrittive».

Lo studio è stato però criticato da altri ricercatori per alcuni seri problemi che minano l’affidabilità dell’analisi. In particolare, sulla stessa rivista accademica dove è stato pubblicato, il 12 febbraio 2021, è stata pubblicata una risposta redatta da tre autori affiliati alla Monash University, alla University of Wollongong e all’Istituto di Salute Globale dell’Università di Ginevra (un riassunto è disponibile sul profilo Twitter di uno degli autori, l’epidemiologo Gideon Meyerowitz-Katz), che identifica tra gli altri tre problemi principali.

Il primo è che lo studio prende in considerazione solo dieci Paesi, senza giustificare adeguatamente il perché. Uno studio analogo e più dettagliato, pubblicato su Science il 19 febbraio 2021, ha preso in considerazione ben 41 Paesi e il risultato è risultato in contrasto con quello di Stanford, e indica che l’obbligo di stare in casa ha un effetto relativamente piccolo, riducendo la diffusione del virus di circa il 15 per cento, ma comunque benefico, mentre la chiusura delle attività economiche riduce la diffusione del 17,5/20 per cento circa. Inoltre Paesi estremamente diversi, come Svezia e Iran per esempio, vengono confrontati indipendentemente dalla situazione sociale e culturale, aspetti che possono alterare l’impatto delle diverse misure. Un confronto più adeguato sarebbe quello della Svezia con Norvegia e Finlandia, che hanno infatti avuto, come abbiamo scritto in precedenza, molti meno decessi rispetto alla scelta del “liberi tutti” svedese.

Il secondo problema è identificare Svezia e Corea del Sud come Paesi dove sono stati applicate solo misure non restrittive. La Corea del Sud ha in realtà avuto uno degli approcci più invasivi per tracciare i contatti e gli spostamenti dei contagiati. Ad esempio nel Paese le autorità e gli operatori sanitari possono accedere direttamente ai dati delle telecamere, del sistema gps dei telefoni e delle automobili, alle transazioni con carta di credito e altre informazioni personali, dati che vengono rilasciati in parte pubblicamente su un sito web governativo: misure che per molti in Occidente sarebbero giudicate incompatibili con la privacy.

Terzo, lo studio di Stanford non tiene in debito conto il fatto che quasi sempre i provvedimenti più restrittivi vengono presi quando il contagio è in forte salita e rimossi quando è in discesa. Questo problema viene ammesso dagli autori stessi nello studio, secondo cui il loro approccio fornisce stime accurate solo se la tempistica dei provvedimenti è indipendente dall’andamento della pandemia. I ricercatori di Stanford infatti scrivono «[Questa ipotesi] potrebbe non essere valida in questa stima degli effetti degli interventi, perché la dinamica dell’epidemia non è lineare, e i provvedimenti rispondono allo stadio dell’epidemia e lo modificano». Questo difetto può spiegare il paradossale risultato per cui, secondo lo studio, molte misure tenderebbero ad aumentare il contagio invece di diminuirlo: l’analisi non terrebbe conto infatti che spesso le restrizioni vengono poste quando il contagio è in rapida salita e richiedono tempo per invertire la tendenza.

In conclusione, lo studio riportato dagli articoli segnalati a Facta esiste ma soffre di diversi difetti, è stato contestato da altri epidemiologi, e fornisce risultati diversi con studi più dettagliati e ricchi di dati che cercano di rispondere alla stessa domanda, pubblicati quasi contemporaneamente. È inoltre in contrasto con la numerosa letteratura scientifica che supporta l’efficacia delle misure restrittive (qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui solo alcuni). La risoluzione del dibattito sta alla comunità scientifica, ma lo studio andrebbe presentato nel giusto contesto.

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