Esiste infatti da decenni la credenza che Lucio Battisti fosse, a livello di credo politico, fascista. Ma si tratta in realtà di una leggenda senza alcun riscontro fattuale, smentita più volte dalle persone più vicine all’artista. Nonostante questo, ciclicamente il mito di “Lucio Battisti fascista” ritorna, come una diceria che sembra essere indissolubilmente legata alla fama e all’eredità artistica del musicista e cantante morto nel 1998.
Una diceria dura a morire
Proprio la recente diffusione di questa presunta foto di Lucio Battisti che sembra fare il saluto romano permette di comprendere in che modo questa tesi infondata sia riuscita a sopravvivere per così tanto tempo.
In base a una ricerca inversa per immagini, la prima condivisione di questa immagine sembra risalire ai primi giorni di luglio di questa estate. A pubblicarla è stato un account Facebook che diffonde contenuti politici legati alla Lega di Matteo Salvini e di appoggio e sostegno all’eurodeputato leghista Roberto Vannacci, generale dell’esercito italiano sospeso dal servizio per 11 mesi dopo la pubblicazione di un libro contenente una serie di commenti omofobi, sessisti e razzisti e criticato per posizioni espresse in passato, come l’aver definito il dittatore fascista Benito Mussolini uno «statista» e dichiarato che la Costituzione italiana «non impone di dirci antifascisti». Nella galleria di foto del profilo compaiono anche immagini create con l’intelligenza artificiale che ritraggono Vannacci a torso nudo che fa surf e altre in cui il generale è rappresentato come Superman.
Nel testo che accompagna la presunta foto di Lucio Battisti con il braccio teso, l’autore del post scrive: «Dicono che questa foto sia falsa, un fotomontaggio… oppure che, con il braccio destro teso e la dita chiuse, stesse indicando qualcosa durante un concerto…. Cosa importa se la foto sia vera o falsa… resta il fatto che Battisti era di dx e anticomunista… e questo i compagni non lo riescono ad accettare perché le sue canzoni piacciono anche a loro… sono universali…». Il messaggio si conclude poi con l’affermazione secondo cui «la verità è lì… limpida è l’immagine e si offre nuda a noi… che continuiamo a volare più in alto e più in là, planando sopra boschi di braccia tese… Il “mare nero” era, è e resterà chiaro e trasparente…».
Chi ha diffuso sui social media per primo questa immagine non sa, per sua stessa ammissione, se si tratti di una foto reale o di un fotomontaggio creato per disinformare. O se lo scatto ritragga davvero Lucio Battisti o una persona a lui somigliante. La redazione di Facta, grazie a una segnalazione, è riuscita a rintracciate la sua origine. La foto è un fermo immagine che proviene dal videoclip della canzone “Maledette Rockstar”, contenuta nell’omonimo album della band italiana Maisie, uscito nel 2019. Nel video una persona molto simile a Battisti alza il braccio destro come se dovesse fare il saluto romano quando in realtà stava chiamando l’autobus a una fermata. Questa scena vuole richiamare il falso mito di “Lucio Battisti fascista”, esplicitamente nominato dai Maisie in un’intervista sul nuovo disco. Un indizio utile e chiaro a capire il riferimento è la parola “Ducio Battisti” che compare nel video; il nome deriva da una mescolanza delle parole “Lucio” e “duce”.
Nonostante la persona ritratta non sia veramente Lucio Battisti, ma una sua “parodia”, l’immagine è stata rilanciata lo stesso per continuare ad alimentare la leggenda del tutto infondata che vuole Lucio Battisti fascista. Per farlo sono state anche utilizzate letture fuorvianti di alcuni versi dei testi del duo Battisti-Mogol (ovvero Giulio Rapetti, il paroliere del musicista da metà degli anni ‘60 al 1980). E proprio questa è la modalità con cui è nata e si è diffusa questa diceria sull’orientamento politico di uno dei maggiori artisti italiani del secolo scorso.
Le origini del mito
Come racconta Francesco Buffoli su OndaRock, in una sera d’estate del 1964 si esibì in un noto locale ligure una band di ragazzi chiamata “Campioni”. A catturare in particolare l’attenzione del pubblico era stato lo stile originale del chitarrista del gruppo, un ventunenne riccioluto nato nel 1943 a Poggio Bustone, in provincia di Rieti, di nome Lucio Battisti, che da quel giorno avrebbe iniziato la scalata verso il successo. Pochi mesi dopo, il giovane musicista viene notato da Christine Leroux, produttrice musicale francese per la casa discografica Ricordi, che lo presentò al paroliere Giulio Rapetti perché Battisti aveva sì un talento compositivo, strumentistico e vocale ma non sapeva scrivere i testi delle canzoni. «Nacque così, grazie anche alla semplice illuminazione di una ragazza d’oltralpe, il connubio più famoso, discusso e al contempo celebrato della storia del pop italiano: nacquero così, quasi per caso, Battisti e Mogol», spiega Buffoli.
I due iniziarono fin da subito a scrivere canzoni, che inizialmente furono interpretate con successo da altri artisti. Nel 1969 uscì poi il primo disco intitolato “Lucio Battisti”, che segna l’inizio del successo artistico e musicale del duo. Già dal primo disco, si legge ancora su OndaRock, vengono messe in chiaro le intenzioni di Battisti e Mogol anche dal punto di vista strettamente lirico: i testi delle canzoni guardano in particolare al privato, «tralasciando qualsivoglia tematica socio-politica e/o “impegnata”; raccontano le paure dell’everyman, sviscerano le sue debolezze e la sua fragilità, l’ansia del quotidiano, le piccole cose che possono trasformarti la vita o semplicemente una giornata, i fallimenti amorosi, le delusioni, le gioie più grandi».
Proprio le tematiche affrontate nelle loro canzoni portarono negli anni ‘70, decennio di accese lotte politiche e impegno politico da parte di molti cantautori dell’epoca, alle prime critiche ai due, accusati di non essere esplicitamente schierati politicamente. In un’intervista del 2020 lo stesso Mogol ha dichiarato: «L’impegno, a quel tempo, era essere di sinistra, fare testi sulla classe operaia, le contestazioni… io parlavo della sfera privata». E proprio queste accuse fanno nascere il mito di Battisti fascista. Come ricostruisce il giornalista e scrittore Luca Pollini nel libro “Musica leggera e anni di piombo” (2013) «negli anni Settanta, anni ‘caldi’, si legge anche tra le righe, e si legge anche quello che non c’è scritto. Ed ecco arrivare le prime critiche a Battisti. Prima viene tacciato di qualunquismo poi, dopo la pubblicazione di “La canzone del sole”, si sparge la voce che sia di destra. Al movimento non piace per niente la frase del ritornello “un mare nero, mare nero, mare ne” che viene riconosciuta come metafora della simbologia fascista. E questo è solo l’inizio».
Nacque infatti quella che il Secolo XIX in un articolo sull’argomento ha definito «una mitologia interpretativa» che inquadrava i testi delle canzoni di Mogol e Battisti nel campo della destra. Così, ad esempio, dopo “La canzone del sole”, il verso “planando sopra boschi di braccia tese” della canzone “Collina dei ciliegi” viene letto come l’evocazione di un’adunata fascista. C’è poi l’esegesi del “Il mio canto libero” secondo nel brano ci sarebbero richiamo nostalgici al regime fascista e al dittatore Benito Mussolini: “In un mondo che non ci vuole più il mio canto libero sei tu” (Mussolini) / “E l’immensità si apre intorno a noi al di là del limite degli occhi tuoi” (riferimento alle folle che si radunavano per vedere il Duce).
Ma si trattava in realtà di riletture del tutto false, come ha più volte affermato chi quei versi li aveva scritti. Nel 2016 per smentire nuovamente la diceria tornata nel dibattito pubblico dopo la notizia che un docente di musica avesse dato un brutto voto a una studentessa perché aveva detto in classe di aver sentito dire che Battisti era fascista, Mogol ha affermato che il musicista «non è mai stato interessato alla politica. E io ne sono un testimone diretto: con me non ne ha mai parlato. Sono cose buttate lì, senza senso. Il punto è che all’epoca, negli anni Sessanta e Settanta, o andavi in giro con il pugno alzato e cantavi Contessa, oppure eri fascista. O qualunquista. Ma io e Lucio eravamo semplicemente disinteressati alla politica e quando si votava, lo si faceva per il meno peggio. Preferivamo raccontare il privato, anche se brani come Anima Latina erano molto sociali, e per questo siamo stati denigrati».
In un’intervista del 2005 al Corriere della Sera, sempre Mogol ha raccontato di altre letture infondate che contribuirono ad alimentare le voci infondate su Battisti e la destra. «Facevamo un programma televisivo in cui alla fine, su sfondo nero, Lucio intonava: “Io lavoro, e penso a te/ torno a casa, e penso a te/ Le telefono e intanto penso a te”. A un tratto alzava il braccio teso: si accendevano le luci e gli ospiti della puntata si univano al coro: papapapapà. Era un segnale. Fu interpretato come un saluto romano. Poi facemmo un disco con in copertina un gruppo di uomini a braccia levate; era un’invocazione da coro di tragedia greca, ma i fascisti conclusero: è dei nostri. Era la malattia degli anni Settanta».