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Perché Musk e i “broligarchi” ce l’hanno così tanto con l’Unione Europea

C’entrano soprattutto il Regolamento sui servizi digitali e le normative antitrust, ma non solo

20 febbraio 2025
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La nuova amministrazione Trump è iniziata all’insegna dell’attacco agli alleati storici degli Stati Uniti. Il 47esimo presidente continua a parlare di annessione del Canada (che chiama sprezzantemente il «51esimo Stato» degli Stati Uniti), vuole prendersi la Groenlandianon escludendo l’uso della forza – e minaccia l’Unione europea con dazi e misure ritorsive economiche.

Dal canto suo, il vicepresidente JD Vance è stato ancora più duro nei confronti dell’Europa. Il 14 febbraio del 2025, in un discorso pronunciato alla conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, Vance ha accusato l’UE di censurare le opinioni sgradite e di sbarrare la strada a certi partiti – quelli di destra – con metodi autoritari.

«La minaccia che mi preoccupa di più nei confronti dell’Europa non è la Russia, non è la Cina, non è nessun altro attore esterno», ha detto. «Ciò che mi preoccupa è la minaccia dall’interno: l’abbandono dell’Europa di alcuni dei suoi valori più fondamentali, quelli condivisi con gli Stati Uniti d’America».

Vance, citando casi fuorvianti e decontestualizzati, ha poi descritto il contrasto alla disinformazione come un atto profondamente antidemocratico. «Ci sono vecchi interessi radicati nascosti dietro orribili parole dell’era sovietica come disinformazione», ha aggiunto, «a cui semplicemente non piace l’idea che qualcuno con un punto di vista alternativo possa esprimere un’opinione diversa o, Dio non voglia, votare in modo diverso o, peggio ancora, vincere un’elezione».

Come ha scritto la politologa italiana Nathalie Tocci sul Guardian, il discorso di Vance «ha molto poco a che fare con la democrazia» e molto a che fare con il «progetto [dell’amministrazione Trump] di sostenere i partiti di estrema destra in Europa». Non a caso, il vicepresidente ha incontrato la leader di Alternative für Deutschland Alice Weidel, in quella che è stata descritta dal cancelliere Olaf Scholz come una palese interferenza elettorale a pochi giorni dalle elezioni in Germania.

Tale progetto ha anche un nome informale: Make Europe Great Again, o MEGA. Lo slogan è stato utilizzato per la prima volta nel 2024 dal premier ungherese Viktor Orbán durante la presidenza ungherese del Consiglio dell’UE, per poi essere ripreso dai partiti dell’estrema destra europea del gruppo europarlamentare dei Patrioti per l’Europa, che all’inizio di febbraio si sono incontrati a Madrid per sancire un’alleanza con la nuova amministrazione statunitense e Elon Musk.

Uno dei maggiori proponenti di MEGA è il responsabile del “dipartimento” per l’efficienza governativa, che negli ultimi mesi si è ripetutamente inserito nella politica di alcuni Paesi europei.

Il suo obiettivo piuttosto esplicito è quello di favorire l’ascesa di forze euroscettiche, in modo da indebolire l’Unione europea sul piano politico e normativo – bloccando così l’applicazione di leggi che possono ostacolare i suoi interessi economici o le sue aziende.

Elon Musk e le Big Tech contro il DSA e i regolamenti UE

Una norma in particolare è nel mirino di Elon Musk e degli oligarchi della Silicon Valley che sostengono l’amministrazione Trump: il Digital Services Act (DSA), ossia il regolamento sui servizi digitali approvato dal Parlamento europeo nel 2022 ed entrato in vigore nel febbraio del 2024.

Sulla base del principio che «ciò è illegale offline lo è anche online», il DSA punta a contrastare la diffusione di contenuti illeciti (come materiale terroristico o gli abusi sessuali sui minori) e disinformativi, stabilendo una serie di obblighi proporzionati alle dimensioni delle piattaforme.

Tra questi c’è l’utilizzo di strumenti di moderazione che, nel rispetto della libertà d’espressione, consentono agli utenti la possibilità di contrastare le decisioni in caso di rimozione o limitazioni dei contenuti.

Le piattaforme sono anche tenute a essere più trasparenti sul loro funzionamento e i loro processi decisionali, soprattutto per quanto riguarda le raccomandazioni algoritmiche. Le aziende che non rispettano il DSA possono ricevere sanzioni pecuniarie fino al 6 per cento del loro fatturato globale.

Al momento sono diverse le indagini aperte dalla Commissione europea – tenuta a far rispettare il DSA – per potenziali violazioni.

Quelle più politicamente sensibili riguardano X. La piattaforma dell’imprenditore sudafricano è sottoposta a due procedimenti: il primo è relativo all’uso improprio della spunta blu per verificare gli account, l’accesso ai dati pubblici e la mancanza di trasparenza sulle pubblicità. L’istruttoria si è chiusa a luglio del 2024 con l’accertamento preliminare delle violazioni, a cui Musk dovrà rispondere entro qualche mese.

Il secondo procedimento è più complicato e riguarda l’efficacia delle “Community Notes” nel contrastare la diffusione di contenuti violenti e di incitamento all’odio. All’inizio di gennaio del 2025 la commissaria europea per la sovranità tecnologica, la sicurezza e la democrazia Henna Virkkunen ha annunciato l’adozione di «nuove misure per chiarire se i sistemi di raccomandazione di X siano conformi al DSA».

X dovrà dunque fornire una documentazione dettagliata sull’algoritmo, che secondo diversi studi recenti è stato modificato per amplificare l’account di Musk, nonché quelli di influencer trumpiani e di estrema destra. È stato poi emesso un «ordine di conservazione» che obbliga X a preservare i documenti interni relativi ai cambiamenti degli algoritmi fino al 31 dicembre 2025. La Commissione ha inoltre richiesto l’accesso ad alcune API commerciali per indagare «sulla moderazione dei contenuti e la viralità degli account».

Sempre a gennaio del 2025, Google ha comunicato all’UE che non intende aggiungere un sistema di fact-checking ai risultati di ricerca e ai video di YouTube, né introdurrà sistemi per classificare o rimuovere contenuti.

Kent Walker, presidente degli affari globali di Google, ha affermato in una lettera inviata a Renate Nikolay – vicedirettrice del ramo contenuti e tecnologia della Commissione europea – che l’integrazione del fact-checking «semplicemente non è appropriata o efficace per i nostri servizi».

La decisione si inserisce in una più ampia avversione nei confronti della moderazione dei contenuti, esemplificata dalla decisione di Mark Zuckerberg di eliminare il Third Party Fact-checking Program (di cui Facta fa parte) – una decisione paradossalmente giustificata con affermazioni false.

La stessa Meta, del resto, ha mostrato una grande insofferenza nei confronti dei regolamenti dell’Unione europea. Lo scorso novembre, la Commissione europea ha sanzionato l’azienda di Zuckerberg con una multa di 797 milioni di euro per aver violato le norme antitrust con Facebook Marketplace. All’inizio di febbraio, il nuovo responsabile degli affari globali di Meta Joel Kaplan ha equiparato la sanzione a un «dazio», aggiungendo che le norme UE stanno andando nella “direzione sbagliata”.

Difendere l’Unione europea dalle ingerenze straniere – e dall’amministrazione Trump

Le crescenti pressioni dei colossi tecnologici statunitensi sono state al centro del seminario “Defending Europe’s Digital Integrity: Addressing Social Media Challenges and Foreign Interference” (“Difendere l’integrità digitale dell’Europa: affrontare le sfide dei social media e dell’interferenza straniera”), tenutosi l’11 febbraio al Parlamento europeo di Strasburgo durante l’ultima sessione plenaria. Facta ha potuto assistere all’evento in presenza, grazie all’invito dell’ufficio stampa italiano del Parlamento.

La premessa da cui è partito l’eurodeputato finlandese Mika Aaltola, coordinatore per il Partito Popolare Europeo della nuova Commissione speciale sullo scudo europeo per la democrazia, è che in questo frangente storico «la democrazia [in Europa] e le sue infrastrutture vitali sono sotto attacco e sono messe a dura prova».

Aaltola ha citato il clamoroso esempio della Romania – dove la Corte Costituzionale ha annullato il primo turno delle presidenziali a causa di gravi «azioni ibride e aggressive» orchestrate dalla Russia, soprattutto su TikTok – per poi menzionare altre campagne disinformative promosse dal Cremlino e dalla Cina.

A queste interferenze si somma l’aperta ostilità delle piattaforme social, che passa anche per un profondo travisamento del DSA – dipinto come uno strumento censorio, se non addirittura persecutorio nei confronti delle aziende statunitensi.

In realtà, l’intento di fondo del regolamento non è punitivo; è piuttosto improntato ad aprire le piattaforme, rendendole più trasparenti e facendo loro assumere un certo livello di responsabilità nei confronti di certi fenomeni.

Come ha spiegato nel seminario l’eurodeputata danese Christel Schaldemose, che è stata la relatrice del DSA per i Socialisti e Democratici ed è vicepresidente del Parlamento europeo, alle piattaforme viene infatti chiesto di «intraprendere delle azioni nel caso in cui ci sia un rischio sistemico» per la democrazia o la salute pubblica (com’è successo durante la fase acuta della pandemia di Covid-19).

«Non siamo noi a dire loro cosa fare», ha aggiunto, «sono loro a dover fare qualcosa per mitigare questi rischi». L’importante è mettere in campo degli strumenti per evitare che «la nostra vita pubblica finisca per essere un luogo in cui nessuno si fida veramente dell’altro. In una democrazia è invece necessario potersi fidare delle persone, dei cittadini, dei media e dei politici».

Da sinistra, Mika Aaltola e Christel Schaldemose durante il seminario. Foto per gentile concessione del Parlamento Europeo.

In un’intervista concessa a Facta dopo il seminario, Schaldemose ha poi definito «assurda e scorretta» la dichiarazione di Kaplan di Meta. «Le multe non sono dazi e sono state comminate al termine di indagini molto approfondite», ha spiegato. «Nell’Unione europea ci sono norme che proteggono i dati e la privacy delle persone, ossia l’opposto di quello che hanno fatto finora le grandi aziende, che hanno guadagnato soldi sfruttando i dati dei cittadini. Loro lo sanno benissimo, ma ne parlano in modo tale da minacciarci indirettamente con delle specie di contro-dazi».

Il punto, ha proseguito, è che «le norme dell’Unione europea non sono contro le aziende statunitensi: sono fatte per proteggere l’Unione e i cittadini europei». Per il resto, «è molto facile evitare le multe, basta rispettare le regole; e comunque, nessuno costringe queste aziende a vendere i loro servizi nell’Unione europea».

È evidente, tuttavia, che le piattaforme non possono fare a meno del mercato europeo. Per questo motivo hanno spostato la battaglia sul piano della deregolamentazione, con l’aperto sostegno ideologico e politico della nuova amministrazione statunitense. Prima del discorso di Monaco di Baviera JD Vance aveva apertamente criticato il DSA, parlando di «regole internazionali onerose» che soffocano le aziende statunitensi e addirittura minacciando di lasciare la NATO nel caso in cui X venisse multata.

L’intensità degli attacchi, ha sottolineato la giornalista statunitense Anne Applebaum sulla rivista The Atlantic, deriva dal fatto che l’Unione europea è «l’unica istituzione sul pianeta che ha il potere di far applicare leggi che incidono sulle politiche delle grandi aziende tecnologiche».

Non sorprende, dunque, che Musk e gli oligarchi della Silicon Valley stiano provando a indebolirla in vari modi. Sul punto, però, Schaldemose è piuttosto cauta: per il momento le azioni di Musk non rientrano nella definizione di «interferenza straniera ostile e in mala fede». Al tempo stesso «dobbiamo rimanere vigili ed essere sicuri di non avere doppi standard», spiega a Facta. «Se non possiamo fidarci degli americani, o se smettono di essere nostri alleati, allora sicuramente dovremmo valutare i loro metodi in modo diverso».

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